di Sandro Moiso

Georges Simenon, Delitto impunito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 184, 18 euro

La Commedia umana è il titolo di uno dei più grandi cicli narrativi della letteratura francese e mondiale, con cui Honoré de Balzac (1799-1850) si proponeva di scrivere più di cento romanzi e storie interconnesse che ritraessero la società francese nel periodo trascorso tra la caduta dell’impero napoleonico e la monarchia di luglio(1815-1830). Tale progetto editoriale era giustificata sia dalla popolarità di Balzac come scrittore seriale che dal suo costante bisogno di quattrini. Il progetto fu interrotto soltanto dalla morte di Balzac, che fino a quel momento aveva scritto 87 romanzi completi e altri 7 non previsti nel progetto, nell’agosto del 1850.

Émile Zola, tra il 1871 e il 1893, si sarebbe riproposto qualcosa di simile con il ciclo di venti romanzi dei Rougon-Macquart che, come ebbe a definirlo l’autore stesso, avrebbe dovuto costituire «una storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero» (Les Rougon-Macquart. Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire).

In realtà, però, l’autore che più si è avvicinato a rappresentare la grande commedia della società umana in tutte le sue sfaccettature è stato Georges Simenon. Un intento in cui è riuscito senza dichiararlo, e forse anche in maniera non del tutto consapevole, attraverso centinaia di romanzi e novelle, pubblicati spesso per esigenze commerciali sotto vari pseudonimi, soprattutto agli inizi della carriera.

Se è vero, però, che quasi tutti i grandi autori della letteratura mondiale hanno finito col creare, attraverso le loro opere, un unico grande romanzo oppure un unico grande ciclo narrativo, allora nel far ciò il belga Georges Joseph Christian Simenon, nato a Liegi nel 1903 e morto a Losanna nel 1989, uno dei più prolifici scrittori del XX secolo con una tiratura complessiva di diverse centinaia di milioni di copie delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta Paesi, ha ridisegnato la società del ‘900 scavando in profondità nel male di vivere che l’ha caratterizzata, esplorandone ogni anfratto psicologico e comportamentale, a ogni livello di classe, dal più infimo al più elevato.

Cercando, in qualsiasi modo e a differenza di Balzac e Zola, di tracciarne non un percorso di cambiamento e trasformazione ma, piuttosto, di delinearne le componenti immutabili e la fissità dei sempre discutibili valori, delle frustrazioni, delle disillusioni e delle illusioni, che ne hanno costituito e, probabilmente, ancora costituiscono la trama tutt’altro che occulta e soltanto apparentemente nascosta e segreta.

Le edizioni Adelphi, che hanno intrapreso la pubblicazione dell’opera integrale dell’autore, a partire dal 1985, oggi, con la ripubblicazione di un romanzo già apparso in Italia diversi anni fa con il titolo Delitto senza castigo e ora riproposto nella traduzione di Simona Mambrini con un titolo più fedele a quello originale, aggiungono un altro tassello al gigantesco mosaico umano e sociale cui lo scrittore ha dato “vita”.

L’autore, che come si è già detto in una precedente recensione (qui) pur avendo visto la sua opera divisa tra i 75 romanzi e i quasi trenta racconti polizieschi che hanno come protagonista il commissario Maigret e tutti gli altri, spesso sistemati dalla critica sotto l’aggettivo di duri, ha scandagliato ogni aspetto dell’esperienza umana; soprattutto il lato più buio dello scontento e del crimine come espressione casuale dell’insoddisfazione, delle frustrazioni, della coscienza del fallimento individuale e dell’incapacità/impossibilità di esistere senza essere soverchiato da forze altrettanto inconsapevoli seppur tanto più potenti del singolo e meschino individuo lodato da un immaginario borghese tanto fasullo quanto incapace di spiegare la realtà delle cose.

Scritto da Simenon nel 1953, nella tenuta di Shadow Rock Farm, situata in un villaggio del Connecticut, durante l’”esilio americano”1, il romanzo si divide in due piani temporali ben distinti e separati dalla distanza di un quarto di secolo, pur mantenendo inalterati i due personaggi principali, Élie Waskow e Michael o Mikhail Zograffi. Originario della Polonia il primo e della Romania il secondo, entrambi ebrei: povero il primo, ricco il secondo.

La prima parte si ambienta a Liegi, alla metà degli anni Venti, in una modesta pensione, gestita da una vedova di guerra con una figlia probabilmente ammalata di tubercolosi ossea, che ospita studenti poveri provenienti dalla Polonia, dalla Russia e da altri paesi dell’Europa orientale. In cui l’arrivo di Zograffi, ricco e inconsapevolmente felice, porterà lo scompiglio con uno stile di vita e una moralità decisamente diversa. Soprattutto da quella di Élie, autentico fulcro del romanzo.

Bello e affascinante, il ricco Michael sconvolgerà il brutto anche se geniale Waskow, possibile promessa della ricerca universitaria. Lo sconvolgerà prima involontariamente poi in maniera sempre più aperta, fino a spingerlo all’ideazione di un crimine efferato. Anche se il vero motore dell’insoddisfazione, dell’odio e dell’inconsapevole gelosia di Élie, trova dimora nella solitudine che lo accompagna da tutta la vita insieme all’impossibilità di trovare negli altri null’altro che un’ombra di pietà.

In certi momenti, per esempio, aveva l’impressione di sdoppiarsi. Il suo corpo rimaneva rannicchiato sotto le lenzuola, con le coperte tirate su fino al naso, mentre nel testone coronato di capelli rossi si agitavano pensieri tumultuosi. Al tempo stesso vedeva, esaminava quel corpo con una specie di ribrezzo, studiando con distacco quei pensieri che si susseguivano come grani di un rosario. Non era certo più bello da vedere della sua faccia gonfia, con quegli occhi da pesce o da rospo. Forse era proprio perché lo trovava brutto da fuori e da dentro che sua madre non gli aveva voluto bene, che non aveva mai avuto amici, che nessuna donna l’aveva guardato come una donna guarda un uomo.
Di che cosa era geloso? In quella casa era un pensionante come gli altri, anzi nemmeno quello, perché era il più povero e la signora Lange doveva guadagnarci ben poco ad averlo come affittuario. Approfittava del tepore della cucina e della sala da pranzo. Approfittava della presenza di tutti, del suono delle loro voci. Era lui che, deliberatamente, si aggrappava a loro, giacché in fondo, anche se non lo avrebbe mai confessato a nessuno, e men che meno a se stesso, aveva paura della solitudine2.

Al contrario Mikhail ottiene dalla vita tutto ciò che vuole, con estrema facilità, anche il corpo smagrito di Louise, la figlia della signora Lange, che si lascia trascinare dal ricco e affascinante studente rumeno in un vortice erotico di cui Élie sarà il voyeuristico e ossessivo testimone.

La seconda parte si svolge più di venticinque anni dopo, in Arizona, in una città che porta lo stesso nome del proprietario delle locali miniere che rischiano di chiudere. Città in cui Élie svolge la funzione di ragioniere e receptionist nell’unico hotel della città, di proprietà della stessa società mineraria, e dove è arrivato dopo esser fuggito prima da Liegi, poi dall’Europa e aver rinunciato ad ogni sogno di carriera universitaria.

Ha anche accettato di vivere con una donna messicana che non lo ha mai attratto, Carlota, ancora e soltanto per paura della solitudine, nell’intento di sfuggire alla legge, che forse non lo ha mai davvero ricercato, e ai suoi fantasmi. Che, però, lo raggiungono ancora una volta sotto le sembianze di un Michael, invecchiato e deturpato nel volto e menomato nell’uso della parola, sotto le sembianze del nuovo proprietario delle miniere e di tutte le attività ad esse collegate. Compreso l’hotel di cui è dipendente Élie .

Questa volta però lo scontro non può più essere tra “povero” e “ricco”, ma tra individuo declassato e capitale finanziario; tanto impotente e privo di coscienza di classe il primo quanto determinato, spietato e apparentemente indifferente il secondo. Per tale motivo il finale non potrà essere altro che quello che Élie pensa fino all’ultimo di poter evitare. Una tragedia prodotta da un immaginario populista, paranoico e miserabile; una tragedia dei nostri giorni.


  1. La fine della guerra aveva coinciso in Francia con la caccia ai collaborazionisti, in cui furono coinvolti anche scrittori come Jean Giono e Louis-Ferdinand Céline. Accuse che sfiorarono Simenon, per poi rivelarsi infondate, ma che a quel punto lo spinsero a trasferirsi negli Stati Uniti, prima in Texas poi nel Connecticut, per qualche anno, prima di tornare, una volta calmatesi le acque, in Europa negli anni cinquanta, in Costa Azzurra e successivamente in Svizzera  

  2. G. Simenon, Delitto impunito, Adelphi Edizioni, Milano 2023, pp. 82-83