di Franco Pezzini

Michele Neri, Come un mattino texano, pp. 171, € 15, Polidoro, Napoli 2023.

 

Essere separato dalle ginocchia, dalle mani che stavano tremando per le flessioni di cui aveva perduto il conto: era questo, il suo destino, si chiese Traven. E con quali occhi avrebbe poi fissato i suoi abbandonati da lui e sempre indiscreti, come se nulla fosse mutato? Gli occhi si sarebbero affrontati rivendicando l’unicità dello stupore? Morire era questo? S’interrogò nuovamente. Non riconoscere l’occhio che ti spia perché tuo, senza che sia colpa di quel vecchio cuore bugiardo?

Non importava, perché finalmente avrebbe raggiunto gli altri volontari dell’oblio, ciò che restava dell’umanità intera. Volando più rapido della luce, unendosi a quanti l’avevano preceduto e superandoli, benché fossero ovunque e nello stesso istante. Una nuova particella superluminale.

 

Alla scuola di narratori visionari come David Ohle, lo Shiel de La nube purpurea e James G. Ballard e del pioniere della realtà virtuale Jaron Lanier, il giornalista culturale e scrittore Michele Neri (Milano, 1959) riesce a offrire a questo suo romanzo – apparso nell’innovativa collana “Interzona” diretta per la napoletana Polidoro da Orazio Labbate – una voce autorale fortissima e una lingua molto particolare e in certo modo sperimentale, che liquidare con l’aggettivo “onirica” rischia di banalizzare.

È nei fatti la lingua sonnambulica di un’interiorità soggetta a uno strappo esistenziale mentre questo si verifica: una lingua in transito tra vita e morte, o meglio tra condizioni diverse di esistenza e di tempo. Leggendo, ammetto di aver pensato all’ispirazione dalla forma tibetana del bardo, narrazione sul tempo intermedio tra morte e rinascita (celebre il Bardo Thodol, il Libro tibetano dei morti, che ne offre descrizione dettagliata), e conforta notare come altri lettori abbiano avuto la medesima sensazione (cfr. per esempio l’interessante articolo di Alberto Paolo Palumbo, Traven nel bardo, su “Magma Magazine”). Ma l’autore – interpellato al proposito al Salone del Libro 2023 – ha spiegato che un nesso voluto in tal senso non c’è.

Come chiariva a chi scrive, i nodi chiave dell’opera per lui sono stati due. Da un lato quella dimensione di artificialità con cui ormai è sempre più costante relazionarsi, una dimensione virtuale di immortalità oltre lo schermo in cui però solo una quota di ciò che siamo può filtrare – e comunque a scapito di un dialogo autentico con persone in carne e ossa. Su questa dimensione e tipi di percorsi, e ripromettendomi di scriverne specificamente, rinvierei al recente e bellissimo studio di Roberta Sapino, Je est un avatar. Identità e social network nella narrativa francese contemporanea (Aras, 2022) le cui riflessioni aprono però a un panorama persino più ampio che lo specifico sulla Francia. Su queste identità altre, arci-vere perché presentate da noi come autentiche – e di lì già sospetti à gogo – e in dialogo in fondo stretto con modelli assai più antichi di autofiction, occorre che continuiamo a interrogarci.

L’altro nodo del romanzo riguarda il temo dell’oblio e le occasioni in cui dimenticare diventa impossibile. Particolarmente nel caso di quegli amori che – per motivi diversi – non sono riusciti a trovare sviluppo, lasciandoci un sapore d’incompiuto e in sostanza le porte aperte a quanto sarebbe stato possibile, costringendoci a guardare indietro e impedendo di lasciar andare il ricordo. Che resta tanto più nostro, tanto più identitariamente provocatorio: di qui la ruminazione sull’oblio e le sue soglie di difficoltà, sul dolore e l’importanza di brandelli anche sdruciti del passato, sugli stessi equivoci e incertezze di simili strappi. Cos’è davvero accaduto, quali sviluppi ma – a monte – quali possibilità restano stagnanti nella nostra risacca interiore? Tanto più che in tanti casi tali “possibilità” solo virtuali si schiantano contro il solido muro di acquisita consapevolezza di altri tasselli, al tempo non percepibili. A proposito di quanti amori senza sviluppo ci rendiamo meglio conto, a distanza d’anni, come sciogliendo nell’acqua una bustina di Hegel banalizzato – il reale è razionale – che in effetti è andata tanto bene così? Eppure ci sono casi differenti, dove qualcosa si ingrippa e precipita assurdamente – o forse abbiamo soltanto quell’impressione, il sospetto di un equivoco, la ferita di un rigetto incomprensibile. Qualcosa resta aperto, spalanca percorsi immaginali, sviluppi esistenziali… a definirci non solo in grazia dell’esistente ma attraverso le relative mancanze incalzate nei sogni, che sfarfallano in provocazioni identitarie attorno a noi.

Poi certo, si sta parlando di dimensioni immaginali, sottili: in un’Italia dove l’inaccettata fine di una relazione conduce fin troppo spesso al delitto, è ovvio che il tema della storia incompiuta mantiene una necessaria delicatezza, un sapore e una vertigine di libertà altrui da rispettare persino nel terreno “neutro” delle fantasie. Ma è appunto su questo, con tale sottigliezza che lavora Neri, inabissandoci in tempeste elettriche di particelle identitarie.

Il protagonista del romanzo è tal Traven (nome mutuato da personaggi di Ballard, ma anche potenzialmente dallo sfuggente scrittore anarchico noto come B. Traven, forse tedesco, attivo verso metà anni Venti e vissuto per anni in Messico): una figura introspettiva e malinconica di cui sappiamo molto poco, ma che si trova al momento di passaggio assurto ormai a prassi sociale nel suo mondo, dove “i corpi erano diventati ridondanti”. Non perfezionando il passaggio, resterebbe uomo mortale con corpo e passato, mentre se varcasse la soglia consumerebbe lo sdoppiamento tra una “nuova particella superluminale”, immortale, tesa all’infinito e felicemente libera dal peso dei ricordi nell’incontrare “un altro sé sempre nuovo” (previa una quarantena con apposita operazione di CANCEL/smontaggio, si è parlato di metafisica-software), e la relativa carcassa, dimensione fisica ripiegata su una percezione asfittica di quanto vissuto. Posto che le particelle – cosiddette foglet, nebbia intelligente, sorsi di luce o “vento elettrico, poco più” – se ne vanno a zonzo, perché una di queste continua a ronzargli attorno? Perché lo costringe a tornare ossessivamente a un passato remoto che però lo interpella ancora con frammenti di una storia d’amore inconclusa, strappata o archiviata per scarso interesse, e poi a vagare in un panorama distopico alla ricerca di una chiusura dell’esperienza vitale o (hai visto mai) della sua riapertura attraverso quel rapporto abortito?

La storia, volutamente, non permette di capire quanto Traven sia già passato oltre – se cioè, detto in soldoni, sia “vivo” o no secondo le ordinarie categorie – e quanto invece la sua catabasi appartenga a un’esperienza interiore, forse (qui l’aggettivo risulta puntuale) onirica. Resta il fatto che, come in ogni rito di passaggio, si prende consapevolezza dell’inevitabilità di una morte che comporta il lasciare il vissuto alle spalle – previa però la necessità di stanarlo per la relativa neutralizzazione. Di qui una tensione continua tra memoria e oblio, tra “un sé troppo pieno” (non abbiamo avuto, qualche volta, questa sensazione?) e un frammento in volo verso il futuro. Ma diventando particella, il Nostro potrà ancora ritrovare la propria carcassa, se trattiene in sé un ricordo significativo: qualcosa da non spedire col resto al macero.

Di qui la possibilità di lasciare una scheggia memoriale della propria esistenza: appunto, nello specifico, nel fondo di una storia d’amore da cui Traven potrebbe aver avuto una figlia. Una storia di cui gli resta memoria confusa, rimossa forse per timore di soffrire (se è stata importante) o forse per altri motivi anche meno nobili. Ma se attraverso quella storia rimane nel mondo memoria di lui, val la pena correggere il tiro, modificare e aggiustare, eventualmente costruendo in chiave fantastica – complice il vecchio cuore bugiardo – un “noi” di coppia che non ci sia stato. Sul finale, non si spoilera.

Del resto non modifichiamo continuamente il ricordo degli altri usando la nostra vita – ed eventualmente il nostro ombelico – come bussola? Torniamo idealmente al tema della correzione del passato, o almeno del suo senso in chiave vitale, come nelle affascinanti riflessioni del romanzo di Silvia Bottani, Un altro finale per la nostra storia: stavolta in un contesto diverso, tra il fantascientifico e il filosofico ma in direzione di un passaggio di statuto esistenziale. Come nell’Itaca di Kavafis, diventa così fondamentale l’avere vissuto, il viaggio del sentimento, e a quel punto si può abbracciare la povertà dell’isola-meta, la povertà di chi, in questo caso, si è spogliato di ogni altro ricordo: la custodia nell’abbraccio della memoria altrui comporta insomma un’accoglienza più serena del passo definitivo.

Di nuovo dunque un lavoro sull’identità e la sua riscrittura, stavolta in forma indiretta attraverso lo specchio di vite e sentimenti altrui: vite e sentimenti permeabili nella memoria di un’epoca che (Neri vi riflette in modo straordinario) è ossessionata dai corpi ma finisce col virtualizzarli in particelle elettroniche sugli schermi, è ossessionata dall’identità e la reinventa, è ossessionata dal ricordo e scopre sconcertata che per ricordare – o anche solo per dimenticare – occorre come Traven saper fare silenzio. E il libro coi suoi mille percorsi e la rete delle possibilità evocate – e non necessariamente risolte, nel rimandare la provocazione al lettore – diventa una sorta di viaggio iniziatico, di meditazione su quel che, in splendori e miserie, ineluttabilmente finiamo con l’essere. Una meditazione sulla vita e la morte di struggente concretezza e (a tratti) malinconica ironia in un’età di autofiction furbetta e di salutari sospetti sulle identità confezionate.

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