di Gioacchino Toni

É con estrema parsimonia che i media riportano qualche tiepida e distratta notizia relativa al fatto che dal 20 ottobre l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime 41 bis e a rischio di ergastolo ostativo, si sta giocando la vita attuando lo sciopero della fame. E quando lo fanno, occorre dirlo, lo fanno più perché si lega a qualche fragorosa iniziativa solidale che non per dare notizia della situazione del carcerato e delle motivazioni alla base della sua scelta estrema. In un paese, a “destra” come a “sinistra”, perennemente in preda a beceri istinti forcaioli, nonostante la cortina di silenzio  eretta attorno a tale incredibile vicenda abbia di fatto negato ai più anche semplicemente di conoscere sufficientemente gli eventi, nonostnte tutto le espressioni di solidarietà nei confonti del detenuto non mancano.

Soffermarsi sulla palese sproporzione tra i reati di cui si parla e la pena a cui è sottoposto Cospito può e deve essere un punto di partenza non solo per denunciare l’accanimento politico nei suoi confronti e quanto siano disumane le modalità di dentezione e la condanna senza fine pena che toccano lui come altri reclusi, ma anche per aprire una generale riflessione critica sulle concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali contemporanei.

A tal proposito può essere di qualche utilità riportare una recensione pubblicata su “Carmilla” ormai una decina di anni fa (06/01/2012) relativa al volume di Vincenzo Ruggiero, Il delitto, la legge, la pena. La contro-idea abolizionista (Edizioni Gruppo Abele, 2011).

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Il testo passa in rassegna, attraverso un approccio abolizionista, a patire dai classici, le concezioni dei delitti e delle pene che sono alla base dei sistemi penali moderni. L’autore non si limita a realizzare una sorta di distaccata rassegna delle riflessioni che storicamente hanno affrontato la funzione e la filosofia della pena ma affronta la questione con un orientamento critico alternativo al pensiero unico repressivo.

Il pensiero abolizionista emerge così, pagina dopo pagina, oltre che in tutta la sua potenza anche nella sua indispensabilità, soprattutto in un paese in cui, negli ultimi decenni, non di rado, anche quello che si pretendeva “pensiero critico”, evitando accuratamente di farsi coinvolgere in questioni concernenti la giustizia sociale, è parso appiattirsi nell’evocazione di legge ed ordine come soluzione di tutti i mali senza mai porsi il problema di riflettere seriamente sul delitto, sulla legge e sulla pena. Una coraggiosa, radicale e controcorrente riflessione su tali questioni può essere salutata come una boccata di ossigeno per un cervello che, ultimamente, pare davvero, in questo paese, essersi accontentato di un’ora d’aria al giorno.

Il saggio inizia con l’analizzare il pensiero abolizionista a partire dal rigetto della netta distinzione tra bene e male. L’abolizionismo non resta, però, insensibile a tale distinzione ma evita di ordinare gerarchicamente i valori in quanto ciò richiederebbe una parità di vantaggi da parte di chi li adotta; gli atti illegittimi non risultano per forza di cose ingiusti se non sono derivati da una libera scelta. Sviluppando la riflessione amorale di Spinoza, in cui bene e male sono da intendersi come concetti relativi, l’abolizionismo sostiene che la probabilità che le azioni compiute vengano classificate o meno come criminali dipende dalle opportunità sociali.

Il sistema della giustizia criminale tende a sottrarre i conflitti alle parti direttamente coinvolte e a separare l’individuo dal contesto ove il fatto si è dato. L’intervento istituzionale nelle situazioni problematiche tende a cancellare un’etica di responsabilità condivisa in favore di una responsabilità individuale, determinando così una sorta di monopolio istituzionale circa il potere di punire o meno.

La legislazione criminale si presenta come espressione di un conflitto e, in un contesto in cui vige una sostanziale ineguaglianza, sono le componenti dotate di maggior potere a criminalizzare le condotte di chi ne detiene meno. I detentori del potere delegano l’applicazione della legge criminale a organizzazioni professionali che finiscono con l’incidere profondamente sulla percezione del crimine e sulle forme da attuare per combatterlo. La legislazione criminale determina una costruzione di realtà: il soggetto in causa viene separato dal contesto in cui ha agito e viene a forza inserito all’interno di una gamma di eventi e condotte limitata.

A proposito della questione carceraria vengono passati in rassegna dall’autore le riflessioni di diversi studiosi. In Kant la punizione è un imperativo categorico; i crimini rendono gli autori proprietà dello Stato e la detenzione non è intesa come strumento riabilitativo. Se in Kant il sovrano ha il diritto di punire, in Hegel è invece il reo ad avere il diritto di essere punito e la punizione non deve per forza avere utilità ma deve essere intesa come affermazione della giustizia, come annullamento del male. La punizione rende onore ai rei considerandoli esseri razionali.

Marx, diversamente, intende la pena come uno strumento a cui ricorre la società per difendersi da chi mette a repentaglio le condizioni stesse che ne tramandano l’esistenza.

Durkheim ritiene che un atto umano non provoca sgomento nella società perché è criminale, ma viene inteso criminale proprio perché provoca sgomento. Visto che in Durkheim la pena vale come messaggio rivolto all’intera società, Ruggiero sottolinea come in tale approccio essa finisca per rafforzare il senso di superiorità etica di chi la infligge, rispondendo ad un bisogno di vendetta retributiva. Il progressivo declino del principio di responsabilità collettiva, base delle società antiche, ha determinato la centralità del carcere nel sistema penale contemporaneo.

La logica conseguenzialista si presenta in forme diverse difficilmente distinguibili: misura comunicativa simbolica (espressione di disapprovazione), misura deterrente, misura di incapacitazione (rendere innocui i rei), misura riabilitativa (mira al miglioramento morale e materiale delle vite dei rei).

Con riferimento alla funzione del carcere è possibile confrontare gli approcci istituzionali e quelli materiali. I primi enfatizzano la funzione regolatrice del carcere in rapporto al mercato del lavoro e del processo produttivo. La punizione si rifà ad un’idea di vendetta o retribuzione. I corpi devono essere distrutti. Negli approcci materiali, invece, si enfatizzano la pura funzione simbolica e retributiva. La punizione è intesa come strumento regolativo: i corpi devono produrre.

Secondo le analisi di Rusche e Kirchheimer i sistemi penali tendono ad adeguarsi ai rapporti produttivi del momento: durante i periodi di crisi economica si abbassano i salari e peggiorano le condizioni della popolazione carceraria in quanto parte della forza lavoro eccedente, mentre nei periodi di espansione economica, ove vi è carenza di forza lavoro, le condizioni della popolazione carceraria migliorano.

In Foucault il carcere è l’emblema della società disciplinare moderna, egli vede nella pena un dispositivo disciplinare che tocca ogni aspetto dell’individualità ma nei periodi emergenza il regime carcerario si fa distruttivo per annientare i sui nemici. Occorre però considerare i rapporti tra punizione e sfera economica tenendo conto del controllo penale e sociale fuori dal carcere. Tenendo presente che la forma più incisiva di controllo sociale si esprime attraverso il rapporto salariale, Ruggiero indica nelle “zone carcerarie sociali” quelle aree ove le attività illegali si intrecciano con quelle marginali e con il lavoro precario. Tali zone subiscono una gradualità di forme di controllo e di punizione,

le funzioni di deterrenza individuale e generale della pena non sono dirette esclusivamente verso i recidivi o i criminali irriformabili, ma in generale contro la popolazione esclusa (…) occorre enfatizzare che la funzione materiale o educativa della pena, in queste aree, non smette di operare. I marginali, i lavoratori occasionali, i piccoli extra-legali e gli sconfitti in genere, che si muovono tra legalità ed illegalità, vengono “educati” a rimanere e sopravvivere nelle loro aree di esclusione, come nei secoli scorsi i loro omologhi venivano educati alla disciplina industriale. La disciplina imposta attraverso la pena mira ad abbassare le loro aspettative sociali (…) ai reclusi verrà riconosciuta completa riabilitazione quando accetteranno di rimanere nel loro specifico settore della forza lavoro e quando, implicitamente, rifiuteranno di evadere dalle zone carcerarie sociali loro assegnate. La forza lavoro “criminale” e la adiacente forza lavoro precaria costituiscono il deposito della popolazione carceraria, la riserva umana dalla quale attingere (pp. 98-99).

Diversi studiosi smontano l’idea del carcere riabilitativo visto che gli effetti carcerari in termini di prevenzione della recidiva risultano davvero trascurabili. La detenzione pare, piuttosto, peggiorare la condotta visto che i detenuti hanno la tendenza ad interiorizzare quei valori e quelle regole che regolano la vita di un ambiente violento come il carcere; da qua discende l’idea del carcere come scuola del crimine. La stessa convinzione che il valore deterrente della detenzione sia rivolto alla popolazione nel suo complesso appare davvero traballante, visto che il valore deterrente pare agire soltanto su chi non ne ha bisogno. Inoltre, in tale logica, l’obiettivo dissuasivo nei confronti dell’intera popolazione verrebbe paradossalmente raggiunto anche nel caso di condanna di innocenti; anche punendo individui a caso, prescindendo dalle loro responsabilità penali, l’intera comunità potrebbe venire dissuasa dal commettere reati.

La presunzione contemporanea che ci si sia indirizzati verso un pena umanizzata, più mite, dovrebbe fondarsi sulla misurazione della differenza tra la condizione di “normalità” dell’esistenza e quella indotta dal sistema coercitivo. Da questo punto di vista il sistema carcerario tendenzialmente interviene sugli strati più svantaggiati della popolazione ed ammesso vi sia stato un miglioramento delle condizioni di vita anche dei livelli più bassi di esistenza a livello europeo, le condizioni carcerarie non sembrerebbero essere affatto progredite di pari passo.

I criminologi critici tendono poi a svalutare la teoria retributiva:

in una società che incoraggia all’individualismo, all’egoismo e all’ingordigia, la teoria retributiva invoca la punizione di chi appare autonomo anche se, in realtà, è perdente, in quanto, vista la sua condizione sociale, è spesso vittima dell’ingordigia degli altri (…) Chi viola le norme si presenta come un concorrente sleale, che si avvantaggia degli svantaggi degli altri, e questo rende la punizione moralmente accettabile (…) Ma come può una società radicalmente ineguale affermare che lo status quo crea benefici per tutti? (pp. 110-111).

Appare evidente come abitualmente si sia dato un fenomeno di pendolarismo tra “zona carceraria sociale” e carcere. A tale proposito sarebbe auspicabile un drastico cambiamento in cui allo svilupparsi di forme di “economia associativa” alternative al mercato del lavoro ufficiale possano funzionare forme di giustizia partecipativa.

Nella trattazione di Ruggiero vengono approfonditi gli approcci di Louk Hulsman, Thomas Mathiesen e Nils Christie, che rappresentano alcune tra le figure più importanti del pensiero abolizionista. L’olandese Hulsman, a partire dalle esperienze personali, deriva dalla dottrina cristiana alcuni dei tratti fondamentali che, intrecciati soprattutto con aspetti della teologia della liberazione, formano il suo pensiero anti-criminologico. In particolare lo studioso rifiuta il sistema della giustizia criminale che riduce i problemi sociali in colpevolezza individuale. Il giudizio individuale nega gli aspetti comunitari del crimine così come, nell’ambito religioso, la confessione privata nega gli aspetti comunitari del peccato.

Il norvegese Mathiesen fonda buona parte della sua analisi sullo studio dei rapporti di forza in continua evoluzione all’interno della società e sulle forme di contropotere dal basso che si scontrano incessantemente con il potere. Nonostante l’eterogeneità delle fonti da cui trae spunto, l’intera analisi dello studioso si fonda su una nozione di conflitto che conduce all’azione, conflitto inteso però «non come espressione di rapporti sociali inalterabili, ma come manifestazione di energie per il mutamento» (p. 179). Una convinzione importante sviluppata da Mathiesen riguarda la critica alle metodologie di ricerca sociologica definite “neutrali” od “oggettive”. Nel rifiuto di una netta distinzione tra ricercatori e soggetti esaminati «L’azione è implicita nel metodo adottato, e gli “oggetti” della ricerca sono i soggetti principali non solo della ricerca medesima che li riguarda, ma anche dell’azione. La critica radicale di Mathiesen (…) traduce costantemente conoscenza sul conflitto in prassi collettiva per coloro che lo producono» (pp. 179-180).

Lo studioso norvegese Christie ha evidenti punti di contatto in particolare con le argomentazioni del libertario russo di Pietr Kropotkin; in entrambi i casi si ritiene che la proliferazione delle leggi finisca per ridurre la possibilità di controllo collettivo producendo una sorta di circolo vizioso in cui le leggi finiscono col creare ansia ed insicurezza a cui poi si finisce col risponde con nuove leggi. Inoltre, la proliferazione delle leggi avrebbe nell’ignoranza diffusa un fattore di moltiplicazione. Nel pensiero anarchico la legge viene percepita come una vera e propria forma di rapina perpetuante la dominazione dei potenti sul resto della comunità e la punizione finisce col creare la propria immagine nelle persone alle quali viene inflitta creando così essa stessa la criminalità.

Una parte del saggio di Ruggiero viene dedicata al dibattito sulla giustizia ripartiva. Nell’approccio abolizionista si rifiuta l’idea che sia un’organizzazione statale ad avere il monopolio della definizione delle condotte criminali. Per gli abolizionisti il crimine dovrebbe essere intesto come una “disputa partecipativa” ove tutti gli attori implicate negli eventi, rei compresi, dovrebbero farsi carico direttamente della discussione finalizzata a risolvere in qualche modo il contenzioso che ha sue specificità e non può essere analizzato applicandovi meccanicamente formule preconfezionate dettate da qualche, supposta, analogia.

Il metodo partecipativo permette di produrre conoscenza relativa alle situazioni problematiche che si intendono affrontare. È sull’onda di tali ragionamenti che lo studioso Herman Bianchi ha sviluppato il concetto di “giurisdizione partecipativa” ove il reo viene inteso come debitore tenuto ad assumersi la responsabilità umana dei propri atti partecipando attivamente alla ricerca di una riparazione; debito e responsabilità sostituirebbero così i concetti di colpa e colpevolezza. Nell’idea di Bianchi, però, le pratiche di restituzione e riparazione non mirano, come in Durkheim, a ristabilire le condizioni precedenti l’atto ma, piuttosto, hanno come finalità quella di promuovere rapporti solidali tra gli individui, dunque, a modificare le condizioni ante-crimine. Il contenzioso, in altre parole, diventerebbe un’occasione per costruire dialogo e rapporti più profondi tra i membri di una comunità.

Concludendo, in un periodo in cui si invoca il carcere per i potenti ma le celle scoppiano di poveri cristi, il tintinnare delle manette pare essere un suono gradito a tanti ed il buttar via la chiave della cella torna, ancora una volta, a essere uno slogan con cui conquistare consenso, il pensiero abolizionista getta una nuova luce sul delitto, sulla legge e sulla pena, questioni su cui da troppo si evita di riflettere.

Recensione pubblicata originariamente su“Carmilla” il 6 gennaio 2012


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