di Serena Penni

L’ultimo romanzo di Fiocchi, dal felice titolo Il tessitore del vento (Ronzani Editore, pp. 370, euro 18,00), è un’opera leggibile su più livelli, ricca di spunti letterari (ma non solo) e, nel contempo, una narrazione accattivante, una sorta di giallo che tiene il lettore fino all’ultimo col fiato sospeso. Poiché questi, inevitabilmente intrappolato nel groviglio narrativo che Fiocchi ha saputo creare, non può non chiedersi, pagina dopo pagina, come si concluderà la vicenda, o meglio, che epilogo avranno le svariate vicende presentate; chi sono i buoni e chi i cattivi, chi sono le vittime e chi i carnefici. Soprattutto, il lettore si chiede chi si salverà, chi verrà assolto.

I personaggi che costellano la narrazione si impongono letteralmente all’attenzione del loro creatore, che da una parte, lo si intuisce, vorrebbe essere lasciato in pace, affogare una volta per tutte nel proprio silenzio, dall’altra sa bene che non potrebbe vivere senza di loro. Un simile approccio, in cui i personaggi sembrano uscire dal loro mondo di carta, riporta senz’altro alla mente Pirandello, solo che le figure inventate da Fiocchi, a differenza dei loro antenati, non sono affatto in cerca di un autore, bensì di sé stessi. Per trovare sé stessi, non possono fare altro che raccontare la loro storia e, insieme, cercare una verità che inevitabilmente sfugge. Questi personaggi escono dal water. E dunque dalle fogne – il mondo delle scorie, il luogo per antonomasia dove vengono relegati gli scarti del nostro quotidiano. Il narratore non può far altro che ascoltarli, seguirli nei loro tortuosi e intricati viaggi mentali. Sono le sue – le nostre – stesse ombre, le molteplici sfaccettature dell’esistenza.

Al centro della storia – per quanto sia possibile, in questo romanzo, parlare di una storia e di un centro – c’è Federico Grandi, sorta di doppio del narratore, come lui stesso lo definisce. L’uomo è caratterizzato da una violenta e inarrestabile passione per la scrittura, ma constata altresì di essere condannato al silenzio mediatico. Questo perché nessuno accetta di pubblicare i romanzi che ha scritto. Ed eccoci davanti al primo dramma di molti scrittori: il mondo dell’editoria obbedisce spesso a leggi e regole difficili da comprendere e da aggirare. Federico Grandi, tuttavia, è disposto a giocarsi il tutto per tutto pur di riuscire a vedere la propria opera stampata. Decide quindi di cedere al ricatto che l’editore Fongher gli propone: la morte in cambio della pubblicazione di tutti i suoi lavori. Perché solo così riuscirà davvero ad attirare l’attenzione del pubblico. Non “letteratura come vita”, per dirlo con le parole di Carlo Bo, ma letteratura in cambio della vita. Cosa deciderà di fare Federico è un mistero che solo in parte si chiarirà nel corso dei capitoli che costituiscono il romanzo. Suo alter ego, all’interno dell’opera, è Rubes Tavazzani, anima nera dal corpo abnorme, affetto da un virus immaginario che forse non è altro che la consapevolezza del proprio istinto autodistruttivo. Rubes una notte fa un patto con una creatura che è l’unico a poter percepire, la quale afferma di essere il diavolo. È lui che indagherà, fino a farne la propria stessa ossessione, sulla sparizione della giovane Laura e di sua nipote, ancora sedicenne, di nome Annella, trovando inquietanti analogie con un celebre dipinto: La tempesta di Giorgione da Castelfranco. Rubes arriverà a scoprire che il tempo esiste solo se gli si crede, e che passato, presente e futuro si possono racchiudere in uno stesso istante, dove ciò che non è stato coincide con ciò che non sarà mai.

In questo romanzo, ogni realtà, ogni situazione sembra ospitare anche la parodia di sé stessa, e così la poesia è rappresentata da un professore di origini slave soprannominato il Foscoletto, perché la sua casa si trova per l’appunto vicina a quella che fu del maestro, ovvero Foscolo. Il Foscoletto incarna altresì l’amore travagliato prima, stroncato poi. L’uomo era infatti l’amante di Laura, una delle due donne scomparse, ed era il padre della creatura che lei segretamente portava in grembo. Quando lo incontriamo, non gli resta che un’arte poetica dai toni ampollosi e il disprezzo di Alvise, padre di Laura, che non aveva mai accettato questa relazione. Sulla scena appaiono e scompaiono tanti altri personaggi: Isotta, moglie di Fongher, il padre di Annella (Scipio), sua madre Veronica, la dolce e premurosa Cristiana, cameriera del Danieli, dove Federico alloggia per terminare il suo romanzo, per citarne solo alcuni. Ognuno di loro è ansioso di rivelarci le proprie ambizioni, i propri sogni ma anche le proprie paure e le proprie meschinità; ognuno ambisce a dare la propria versione dei fatti. Del resto, in questo romanzo di Fiocchi, a narrare non sono solo le persone ma, similmente a quanto accadeva nella raccolta Racconti da un mondo offeso, dello stesso autore, anche gli oggetti – le pipe del poeta, la maschera di Annella. Tutto, sembra dire Fiocchi, racconta una storia, dietro a ogni cosa si nasconde un pezzo di verità. A parlare è anche Venezia che, con i suoi canali, le sue calli, le sue gondole, i suoi punti di ritrovo più caratteristici (il caffè Florian, l’hotel Danieli), è scenario d’elezione nel romanzo ma personaggio a sua volta. La Serenissima – dipinta con tinte oniriche, malinconiche e struggenti, tali da richiamare alla memoria i testi di autori quali Mann o Parise – è spettatrice addolorata e, insieme, rassegnata alla propria stessa decadenza; è una divinità stanca, piena di rimpianto per la propria morte, annunciata tanto quanto quella del protagonista. Nell’acqua di Venezia tutto inizia e tutto finisce, la vita si genera e nel contempo si annulla. Il cadavere della giovane Annella, ripescato dalle acque torbide della laguna, vuole forse simboleggiare anche la fine di un’epoca, di un sogno durato secoli.

Il romanzo di Fiocchi appare come una sorta di accusa contro un certo tipo di editoria e di informazione, in cui vince su ogni cosa la “notizia bomba” – in questo caso il suicidio dello scrittore, che dovrebbe avvenire il giorno stesso della presentazione del suo ultimo libro. Questo mondo ostile ed effimero sembra porsi come unico obiettivo quello di plasmare le masse, lasciando passare in secondo piano il valore intrinseco delle opere letterarie. Ma è anche un libro sulla difficoltà della scrittura, laddove implica, come accade per gli autori più autentici, guardarsi allo specchio, dialogare con i propri fantasmi di ieri, di oggi e di domani. D’altra parte, se scrivere è un’operazione ostica, per uno scrittore astenersene è impossibile, e ciò è dimostrato dalla la biografia di Federico Grandi, che compone un’opera dietro l’altra senza soluzione di continuità, con un’energia che appare insieme creativa e distruttiva. Con la sua ossessione, questo personaggio richiama in qualche modo alla mente Johann Ernst Biren, scoperto da Franzosini tra le Illusioni perdute di Balzac, il quale aveva il vizio compulsivo di divorare carta riempita d’inchiostro. La scrittura è conoscenza profonda di sé, e dunque la pubblicazione a tutti i costi si configura non come mero atto narcisistico ma come completamento della propria autorappresentazione. Il tessitore del vento è un’opera dalla struttura originalissima, un testo organizzato secondo un gioco di scatole cinesi, in cui quasi mai ciò che appare corrisponde a ciò che è. È un libro dal finale aperto, talmente ricco da lasciare al lettore, al termine delle sue quasi 370 pagine, la voglia di proseguire, di scoprire che fine faranno i personaggi di cui, per un tratto, ha seguito il cammino; la voglia di rincorrerli, per parlare ancora con loro, magari nelle tubature sotterranee, magari su una gondola o seduti comodamente al tavolino di un caffè elegante.