di Luca Cangianti

Tommaso Di Ciaula, Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud, Alegre, 2022, pp. 208, € 16,00.

Il protagonista di Tuta blu intrattiene un legame di parentela sociologica con quello di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Tuttavia il contesto storico dei due romanzi è completamente diverso: il primo fu pubblicato per la prima volta nel 1978, il secondo sette anni prima. In quel lasso di tempo la ristrutturazione tecnologica riesce a spezzare il contropotere nella fabbrica fordista, l’autunno caldo si riduce a un ricordo lontano, la classe operaia «non fa paura più a nessuno, anzi fa ridere».

Tommaso Di Ciaula, scrittore, poeta e sceneggiatore, lavorò come operaio al Nuovo Pignone. Lo scorso anno è scomparso all’età di 79 anni. Il suo alter ego narrativo è un tornitore della Catena Sud, una fabbrica descritta con accenti gotici che ricordano il capitolo su “Macchine e grande industria” del Capitale: «quell’officina mostruosa, certi giorni sembra un drago perché manda fiamme e fumo, scintille dalle ruote di silicio impazzite». Tommaso la odia, la maledice; ha il terrore della sveglia; sente che gli operai, «più stupidi delle scimmie», sono ormai mere «cinghie di trasmissione» di un meccanismo estraneo, «idioti robot vicino alle macchine».
Si tratta di una sintomatologia dettagliata dell’alienazione operaia, dell’esproprio del sapere artigianale causato dal sistema della grande industria con la sussunzione reale del lavoro salariato. Tommaso racconta di un vecchio lavoratore, considerato rozzo perché in precedenza era stato contadino e pecoraio: lo vede costruire una grande cesta con dei rami intrecciati ed esclama: «altro che cozzalo e rozzo, quello era un dio!» E poi conclude: «Quando vedo cose artigianali di quel livello mi sento inutile perché non le so fare».

Il protagonista di Tuta blu è una sorta di Proust operaio. Ricorda un altro mondo possibile, un passato contadino perso per sempre: «Nei periodi di magra per vivere facevi qualche lavoro artigianale, conducevi una vita povera ma dignitosa, povera ma sana e libera. Quando a Mola di Bari c’era la festa del polipo andavi a Mola per mangiare il polipo. A Grumo Appula usavano, e forse usano ancora, dare ai poveri ceci arrostiti, vino, pane a volontà.» Adesso invece ogni svago ha un costo, le spiagge sono ridotte a letamai, le case sono «palazzacci brutti» e la «fabbrica si ingrandisce sempre di più, senza sosta.»
Il romanzo è strutturato come un flusso di coscienza. A volte prende la forma del diario di resistenza psicologica, altre quello del poemetto in prosa. Il linguaggio adotta la prosodia del parlato, spesso cruda, dolorante, rabbiosa, a volte sessualmente esplicita; alterna vocabolario tecnico (calibro, tornio, mandrino, filettatura, elettrodi) e dialettale, collocandosi a perfezione nella collana “Working class” che le edizioni Alegre hanno affidato alla direzione di Alberto Prunetti.

La coscienza di classe di Tommaso è tuttavia ben salda. Sa cosa bisognerebbe fare per contrastare l’alienazione e la fatica del lavoro salariato: «non dobbiamo delegare un cazzo» dice, perché i sindacalisti «nella stanza dei velluti» cedono sempre. Tommaso sa leggere tra le righe dei contratti e delle piattaforme sindacali: vuole sterilizzare gli effetti dell’inflazione con la scala mobile, poi passare a ridurre l’orario di lavoro e a espandere la parte sociale del salario mediante l’erogazione di servizi di qualità.
In Vogliamo tutto la rabbia operaia sfocia nella rivolta di Corso Traiano del 3 luglio 1969; nelle ultime righe di quel libro si alza in cielo un sole rosso che simboleggia la speranza di una lotta che continuerà. Anche il protagonista di Tuta blu partecipa a un imponente corteo di trecentomila lavoratori: «fa paura a vederlo, se si scatenasse farebbe tremare le strade e i palazzi, ma non si scatena mai, hanno dato a tutti un fischietto e noi fischiamo.» Alcuni manifestanti finiscono per disperdersi nei vicoli di Napoli alla ricerca di accendini, macchine fotografiche, film pornografici e prostitute.
I tempi sono cambiati, il mondo che ben conosciamo oggi è nato, e in questo romanzo di Di Ciaula non c’è spazio per la retorica. La sua lirica è quella del tornio che lancia in aria trucioli incandescenti. Impossibile per il lettore evitare il dolore delle ustioni.