di Chiara Meistro e Franco Pezzini

(Qui la puntata precedente)

A fronte di alcune scene nelle prime tavole del Perseus Cycle di Edward Burne-Jones, dove le figure sono immobili come statue (tanto da sembrare perfette per un tableau vivant), una sorta di coreografia emerge invece nel quinto episodio della serie e ancor più nel sesto, entrambi dedicati all’uccisione di Medusa.

Secondo il mito, spiccata la testa della Gorgone, dal suo sangue sarebbero sorti il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, figli dei suoi amori con Poseidone, e lo studio conservato a Southampton, intitolato The Death of Medusa I o, appunto, The Birth of Pegasus and Chrysaor, 1876-85, ne offre un’impressionante trasposizione visiva (a cui si abbina, nella presenza di didascalie identificative dei personaggi, un ultimo riverbero di quella commistione tra testo e immagine così vividamente espressa nella tavola di Cardiff con le Graie). La decollazione risulta infatti disturbantemente sostitutiva di un parto per vie naturali (d’altra parte, la mitologia ci ha abituati a nascite atipiche: basti pensare ad Atena o a Dioniso, per ciascuno dei quali è stato Zeus a fare da “incubatrice”, assimilandone i feti all’interno del suo corpo). L’impudico squarcio del collo/utero di Medusa è coperto dalla figuretta fluttuante e nuda di Crisaore, e questa sovrapposizione genera un curioso effetto per cui si ha l’impressione che, dalle ginocchia in giù, il gigante neonato sia ancora dentro al canale uterino “alternativo” della genitrice. Nemmeno Pegaso è lontano dall’apertura: il cavallo, rampante e in volo, è con ogni probabilità uscito per primo e ora sovrasta la Gorgone; tuttavia, le sue zampe posteriori circondano ancora la sua spalla sinistra e, in particolare, uno degli zoccoli sta proprio dietro al collo privo di testa.

In ogni caso, in un ripudio completo di ogni tentazione gore, il corpo decapitato di Medusa, il cui busto è ancora eretto, si adagia elegantemente sul lato sinistro della sommità rocciosa che la ospita insieme al suo uccisore. Nel modo in cui le sue forme sono state modellate, e in particolare nella resa del panneggio del peplo, Burne-Jones ha adottato un linguaggio che è fortemente debitore della statuaria greca: a livello di suggestione, sembrerebbe quasi che la Gorgone morente e priva di testa si sia trasformata a tutti gli effetti in una scultura marmorea, come in una sorta di personalissimo contrappasso per aver trascorso l’esistenza a rendere chiunque la guardasse un’inerme e inanimata statua di pietra. Sul piano formale, invece, è una soluzione che non stupisce, soprattutto se si considerano le numerose sessioni di copia dal vero al British Museum che il pittore avvia subito dopo aver ottenuto la commissione, concentrandosi in special modo sulle raffigurazioni antiche di Perseo e Medusa. A lavorare al suo fianco, c’è la moglie Georgiana: ormai l’amante scomoda Maria Zambaco è stata scalzata. E a proposito degli studi portati avanti dalla coppia per la realizzazione del ciclo, sbirciando tra le collezioni del museo, salta agli occhi una hydria attica a figure rosse attribuita al Pittore di Pan e rinvenuta a Capua, circa 480-460 a. C, che mostra il corpo di Medusa decollata in una postura del tutto simile e pressoché speculare a quella predisposta da Burne-Jones per lo studio di Southampton. Vero è che si tratta di un tipo di rappresentazione legato all’iconografia del vinto in battaglia; tuttavia, una simile tangenza è decisamente affascinante, quanto lo è l’eventualità che il pittore preraffaellita sia stato influenzato da questo specifico esempio di pittura vascolare greca.

Infine, sulla destra, Perseo distoglie lo sguardo dalla testa recisa di Medusa, che allontana da sé con un gesto deciso e repentino del braccio (reiterando, per esempio, la medesima dinamica di grande potenza simbolica di certe stampe tedesche di età rivoluzionaria in cui un collaboratore del boia, mostrando la testa mozzata del consacrato Luigi XVI, rimane gorgonizzato dallo stesso spettacolo che sta offrendo, come si denota dalla sua espressione allucinata per il terrore da tabù violato). Inoltre, ai piedi dell’eroe, sono caduti attorcigliandosi alcuni serpenti che fungevano da capigliatura per la Gorgone, a indicarne inequivocabilmente la sconfitta.

Proprio in quest’ultima scelta figurativa, che rende visibile l’annientamento del Mostro-Femmina in tutte le sue peculiarità, torna a emergere il nesso mitico legato al binomio donna/serpente, ai temi del volto/maschera e dello sguardo tremendo, alla dignità terribile, ctonia e arcaicissima, dell’Avversaria dell’eroe fallico/solare, alla violenza (venata d’ambiguità, a dispetto d’ogni rarefazione simbolica) ch’egli le reca: tutti elementi connotanti la crisi continua d’un modello femminile non consumato nell’angusto spazio storicamente impostole, e che rimandano in travisamenti e inquietudini al potere dell’antica Dea. Di tale maschera dai tratti fatali e perturbanti – il conosciuto/non riconosciuto, con tutte le eco possibili –, il gorgoneion ostentato dall’eroe analogo Perseo rappresenta forse la più fortunata epifania, e a quell’immagine riecheggiata con frequenza ossessiva nell’arte occidentale (dai suoi albori fino al cinema di genere, The Gorgon/Lo sguardo che uccide della Hammer e Bram Stoker’s Dracula) pare interessante guardare per cogliere in modo indiretto, come in uno specchio, il fondo di umori, sangue e imbarazzi di tutta una dialettica col mostro.

La “Gorgone arcaica era una Dea potente della vita e della morte, e non il successivo mostro indoeuropeo che gli eroi come Perseo devono uccidere” (per citare la pioniera dell’archeomitologia, Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica), ed era connotata nelle immagini più antiche da simboli di rigenerazione (ali d’api, antenne a serpente) ormai incomprensibili nel mondo classico, e probabilmente identificabile con l’aspetto mortifero di un’unica Dea lunare del ciclo vitale – in sostanza l’Ecate poi recepita nel mondo greco. D’altro canto, proprio il suo dramma codificato nel mito, con quanto di sfuggente e onirico possa evocare a noi moderni, si rivela capace di agglutinare un tessuto incomparabilmente fitto di stereotipi e provocazioni circa il rapporto tra Femminile e mostruoso, e di conseguenza (almeno per l’ottica occidentale) tra bellezza e orrore – come suggestivamente rilevato da Jean Clair in un suo celebre saggio. Ciò conduce alla spiazzante, misteriosa statura dell’Antagonista dell’eroe, prototipo di innumerevoli epigoni: il fatto stesso che la quest di Perseo veda l’attraversamento dei “regni di tre volte tre dee” (Károly Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia) – cioè le Graie, le Ninfe datrici di armi e le Gorgoni sui confini del mondo – la iscrive quale catabasi nella sfera della Grande Dea e delle sue infinite manifestazioni triadiche, transitate nell’era cristiana (basti citare le Tre Marie evangeliche, oggetto di lunga devozione popolare) e nel folklore, e infine precipitate nel fantastico popolare (il terzetto di vampire del Dracula che Van Helsing giustizierà nelle bare – e le cui teste, nel film di Coppola, scaglierà dagli spalti). Dalla stessa matrice sorgeranno legioni di dee inquietanti e mostri-femmina, singoli (Echidna, la Sfinge, Scilla…) o a gruppi (Sirene, protovampire e demoni-donna, Succubi, Strigi), deflagranti dai più arcaici racconti sugli dei alle favole delle nutrici di tutto il mondo occidentale e ben oltre: creature pronte a insidiare e divorare, e forti di un potere di orrore e fascinazione continuamente sconfitto e riproposto, contro il quale si provano gli eroi.

Un’intera costellazione di motivi del mito di Medusa verte in effetti sul carattere fatale, attrattivo e repulsivo a un tempo, che ritroveremo fino alle ultime icone popolari della vamp. Pensiamo al tema arcaico (e iniziatico) del volto/maschera, come quelle che si affiggevano in onore di Ecate e la rappresentavano, poi degradato in tutta una letteratura sulla donna mentitrice, attrice, maschera vuota cui l’uomo opporrebbe la propria verità (pena la nullificazione, come le vittime abbrutite dalla mangiauomini, Theda Bara e colleghe). Oppure alla visione pietrificante come sguardo fatale, sostenibile solo a testa girata (ancora Van Helsing dovrà ammettere il proprio turbamento quasi paralizzante davanti ai corpi delle tre Spose del castello Dracula) e in via riflessa/mediata attraverso uno specchio/scudo (che accentua nel segno del virile il motivo folklorico delle rifrazioni rivelative – come poi nelle storie di doppi e vampiri). Ancora, si pensi al tema connesso degli occhi, spalancati o invece chiusi nel sonno: le Graie custodi con un solo occhio che si passano a turno, e in certe versioni le palpebre serrate delle Gorgoni aggredite nel sonno da Perseo (come poi delle Sorelle addormentate trafitte da Van Helsing). Del resto, una simil-gorgone pure imparentata con Ecate, la libica Lamia dal volto insonne (per condanna di Era) e mutato in maschera da incubo, poteva riposare solo levandosi gli occhi dalle orbite e deponendoli in un vaso accanto a sé… magari dopo aver bevuto molto vino. Forse non è casuale la connessione con un’altra Terribile Signora africana, la dea-leonessa egizia Sekhmet – aspetto tremendo della cosmica Hathor nel mito della distruzione dell’umanità (Papiro 86637 del Museo egizio del Cairo, c.d. Calendario dei Giorni Fortunati e Sfortunati): la dea viene addormentata con birra tinta di ocra rossa ed ematite dal Dio Sole Ra per impedirle di sterminare totalmente il genere umano.

Peraltro il viso di Medusa, in origine orchessa barbuta o dea-cinghiale – cioè la femminilissima “dea con la lingua” della fase nera del ciclo (sulla simbolica del maiale in relazione al mestruo, cfr. Jutta Voss, La Luna Nera. Il potere della donna e la simbologia del ciclo femminile, Red, 1996) –, assume nel tempo (già dalla metà del V sec. a.C.) tratti sempre più aggraziati, evocando così un crescente orrore per l’atto della decollazione e un’emozione sottilmente più perversa, nel segno dell’eredità sadica/sadiana che dalla Vergine Ghigliottina condurrà al romanzo gotico, ai supplizi di eroine romantiche (compresa la cattivissima Milady de Winter) e alle decapitazioni di belle vampire. Anche l’associazione tra Gorgone e serpenti – compagni benevoli della Dea neolitica, immagini della dea egizia Renenutet/Thermouthis, associati alla Grande Dea minoica (si pensi alle celebri statuette della dea dei serpenti, come quella conservata al Museo archeologico di Candia, proveniente da Cnosso) o a gran parte degli dei levantini e greci, nonché, se velenosi, legati alla Signora della morte – richiama una lunga tradizione di donne-serpenti della letteratura, con echi gino/sessuofobici memori di un’ostilità semitica e indoeuropea verso la bestia che striscia: la stessa protovampira Lamia, associata a Ecate in arcaicissimi tratti canini, vedrà nel tempo una privilegiata assimilazione al mondo del serpente. Se è poi vero che un altro antico legame di Medusa alla sfera animale, attraverso i cavalli, e la sua immagine come fantastica giumenta, sposa dello stallone Poseidone, madre col suo sangue del cavallo alato Pegaso, paiono meno utilizzate nei richiami artistici moderni, è almeno suggestivo raffrontarvi l’associazione perturbante, linguistica e simbolica, tra giumenta (ted. mähre) e incubo (franc. cauchemar, ingl. nightmare – in riferimento al demone incubo germanico mara) che tanto peso avrà, per esempio, nell’arte di Johann Heinrich Füssli (1741-1825). Anzi, in termini paradigmatici, proprio il grande visionario svizzero ossessionato dal tema di Perseo evocherà spesso in dipinti e bozzetti quell’inversione dei ruoli – l’uomo come testa mozza, la donna fallica, castratrice e appunto decapitatrice – che l’Occidente ginofobico s’era compiaciuto di contemplare in infinite Giuditte, Erodiadi e Crimildi: un brivido masochista che non sovverte ma piuttosto conferma la costellazione mitica (la Femmina inquietante, l’Eroe, la testa mozzata) e può svelare qualcosa sui rapporti sfuggenti, gli scambi equivoci e le contiguità tra mostro e teratomaco dei quali s’è accennato. Emblematico, del resto, è il rapporto tra la Gorgone come sesso reso volto e Baubò (figura grottesca e ineliminabile dei misteri eleusini, che parlerebbe tramite la vulva) come volto reso sesso.

La sesta “stazione”, The Death of Medusa II, o Perseus Pursued by the Gorgons, ripropone un’altra vicenda narrata in “The Doom of King Acrisius” (II, 261-262): quando le sorelle immortali di Medusa, Steno ed Euriale, si accorgono della sua uccisione, si lanciano all’inseguimento di Perseo, ma questi riesce a dileguarsi grazie ai calzari alati e all’elmo dell’invisibilità in una sorta di nebbia o di nube spiraliforme che gli circonda il capo. Nel disegno di Stoccarda, 1876-90, le due sorelle, sollevatesi in volo con gesti concitati, sono paludate in vesti scure; anche il corpo di Medusa, accasciato al suolo sulla destra, è ricoperto da un peplo azzurrino – mentre nello studio preparatorio a Southampton, 1881-82, le tre Gorgoni sono nude. È interessante rilevare come parte del tessuto panneggiato, ripiegato sull’attaccatura del collo reciso, stia svolazzando oltre le sue scapole, forse a voler suggerire lo spostamento d’aria causato da Perseo, che sta balzando sopra di lei per darsi alla fuga. Nel contempo, l’eroe sta infilando la testa mozzata nella bisaccia delle Ninfe: in entrambi i disegni, questa ha gli occhi chiusi ma, a differenza della versione di Stoccarda in cui è rimasta incompiuta, in quella di Southampton si può notare che i serpenti della sua capigliatura sono ancora irti (quindi, vivi e pericolosi). Pur nella drammaticità della situazione, i movimenti delle figure risultano comunque aggraziati e, in particolare, Steno ed Euriale sembrano muovere passi di danza: più che un inseguimento pare una pantomima, e il modo in cui le due sorelle si affiancano farebbe quasi prevedere una giravolta (con reminiscenze della Danza delle gru messa in scena da Teseo e compagni dopo l’uscita dal Labirinto?); similmente e in piena sincronia, anche Perseo effettua uno scarto laterale ritmato ed elegante, che potrebbe quasi ricordare un salto ballato.

Si conclude così la perigliosa missione di Perseo, ascrivibile a un generale contesto iniziatico (in riferimento non a qualche strambo senso esoterico, ma a quello basico di un rito di passaggio maschile all’età adulta): l’eroe rifrange nello specchio (rendendo accessibile alla vista l’invedibile per tabù), decapita e trattiene il gorgoneion della Dea Tremenda. Non solo taglia la testa/maschera con la harpe, l’antica spada a falce lunare dei Titani faccia-di-gesso delle iniziazioni (nel ciclo di Burne-Jones l’arma sembra però identificarsi nel cosiddetto falcione che, pur derivando da falx, può avere – come qui troviamo – lama diritta), ma come lui l’iniziando, in taluni riti di passaggio ellenici, poteva dover fissare una maschera lunarmente riflessa in un recipiente d’argento.

Il solare Perseo, d’altronde, appare patrocinato da divinità patriarcali, come il fallico Ermes (di cui, peraltro, sembra riecheggiare l’aspetto, come una sorta di ipostasi tutta umana), la nata-dal-solo-padre Atena e (attraverso il prestito della cappa dell’invisibilità) il rapitore Ade, subentrato alla Grande Dea quale primo responsabile della Casa dei defunti. La dialettica misterica tra lo stesso Ade, gestore dei “diritti” della morte nel segno del normativo/maschile, la rapita/violata Kore/Persefone e la “Grande Madre Terra” Demetra troverà un’ultima rifrazione nel trio letterario del cacciatore di vampiri, della vampira amante (giovane) e della vampira regina (madre), magistralmente dipinto da Joseph Sheridan Le Fanu in Carmilla e gravido di eco per la mitopoiesi neogotica: a questo proposito, può essere interessante confrontare la decapitazione di Medusa come rappresentata sul tempio di Selinunte, circa 540 a.C., con quella cinematografica di Carmilla – l’attrice Ingrid Pitt – in una notissima sequenza di The Vampire Lovers (Regno Unito, 1970), in cui il capo mozzo viene sollevato dal vindice generale Spielsdorf – interpretato non casualmente da Peter Cushing, l’ammazzavampiri per antonomasia dell’horror popolare. Gli esempi tematici potrebbero evidentemente continuare, ma proprio Perseo, col perturbante trofeo/feticcio levato in alto a rapprendere gli sguardi, pare l’ideale prefiguratore di un uso politico della visione d’orrore e insieme il più legittimo capostipite della dinastia dei cacciatori di mostri del fantastico moderno, particolarmente del cinema: un eroe dallo statuto problematico, che decapita la Femmina addormentata attraverso un gioco di rifrazioni (i media, appunto) e con il sostegno di potenti forze patriarcali, per poi scappare – letteralmente – verso nuove avventure. Tra queste, ne spicca una notissima e dall’iconografia variamente pruriginosa, ovvero la liberazione dall’ennesimo mostro (con testa gorgonica di cinghiale, come suggerisce qualche antica decorazione vascolare) della bella Andromeda incatenata allo scoglio.

(– continua)