di Sandro Moiso

Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, 36 pagine, 3,00 euro.

Nel pieno dell’emergenza epidemica è ripreso, si è sviluppato e si è concluso un conflitto sulla cui importanza e sulle cui caratteristiche si è scarsamente riflettuto, grazie anche alle campagne di distrazione di massa condotte dai media nostrani. Molto più interessati a “dare i numeri dell’epidemia” che a svolgere il ruolo di informazione generale che competerebbe loro in una società appena un po’ meno asservita agli interessi del capitale nazionale e internazionale.

Si tratta della guerra esplosa nel Nagorno Karabakh, apparentemente tra le forze azere e armene ma, sostanzialmente, in nome dell’espansione del novello impero turco verso Oriente e del controllo militare, politico ed economico di una delle zone cerniera comprese tra il Medio Oriente e l’Asia centrale: il Caucaso. Ma non solo, poiché, l’opuscolo edito da Tabor mette bene in luce che:

nonostante lo scenario sia contraddittorio e intricato, nonostante non ci siano i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, ciò nonostante la posta in gioco è chiara e inequivocabile. Due ragioni si affrontano sul campo: da una parte (quella azera e turca) c’è il diritto di uno Stato nazione
all’integrità del proprio territorio e all’imposizione dei propri confini; dall’altra (quella armena) c’è il diritto all’autodeterminazione e all’autodifesa di un popolo che resiste a secoli di oppressione e di tentativi di genocidio1.

Poco dopo aver conseguito la propria indipendenza nazionale, all’inizio degli anni Novanta, il popolo armeno riuscì a conquistare anche l’indipendenza de facto dell’Artsakh, o Nagorno Karabakh, enclave armena montanara incastrata dentro i confini dell’Azerbaijan.
Oggi, dopo trent’anni, fomentato e sostenuto dall’espansionismo turco, l’Azerbaijan ha scatenato una nuova guerra di aggressione che, oltre a migliaia di morti e di sfollati, ha gettato le basi di una nuova pulizia etnica ai danni del popolo armeno, costantemente minacciato di genocidio. Così, mentre l’“Occidente” mostra la sua totale irrilevanza, la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin – come già in Siria e in Libia – si spartiscono le rispettive aree di influenza in quella vera e propria “linea di faglia” tra imperi che tornano a essere i monti del Caucaso.

Naturalmente, per comprendere a fondo le ragioni di questo conflitto e di questa resistenza all’oppressione che motiva il popolo armeno, occorre fare un excursus, per quanto breve, nella storia plurimillenaria di un territorio e di un popolo che passa attraverso la formazione ed espansione dell’impero ottomano, la sua dissoluzione con la prima guerra mondiale, lo scontro tra quell’impero e quello zarista sulla frontiera del Caucaso, le trasformazioni avvenute con le conseguenze della rivoluzione bolscevica e di quella nazionalista dei Giovani Turchi di Kemal Atatürk, i maneggi di Stalin per conservare il controllo della regione creando conflitti territoriali tra gli abitanti dello stesso e, infine, gli interessi legati oggi allo sviluppo delle vie del gas e del petrolio che vedono, per ora, Erdogan e Putin sostanzialmente alleati in gran parte dello scacchiere mediorientale e nordafricano, mentre l’Occidente è costretto ad assistere, anch’esso soltanto per ora, a ciò che avviene a causa delle proprie divisioni e della propria fame di gas e combustibili fossili.

Senza dimenticare che anche l’italietta entra indirettamente nel gioco, grazie agli accordi per il TAP, mentre la società turca Yildirim si è di recente assicurata il controllo del porto di Taranto in nome del controllo di quella Patria Blu con il cui nome la Turchia di Erdogan definisce tutto il quadrante del Mediterraneo orientale (e forse non solo).

Al centro, naturalmente, rimane il tema del genocidio del popolo armeno portato avanti a più riprese dall’impero ottomano prima e dallo stato turco poi, tra il 1870 e la fine della prima guerra mondiale, che ha visto non solo milioni di armeni cadere a causa delle iniziative militari e repressive, oltre che oppressive turche, ma anche costretti ad emigrare a causa delle stesse. Un “olocausto minore” avvenuto nell’Asia Minore che coinvolse in quanto vittime anche gli assiri e i greci dell’ Anatolia e del Ponto, soprattutto tra il 1914 e il 1923. Genocidio che per alcuni autori è possibile additare tra quelli ispiratori della Shoa proprio a causa del coinvolgimento o almeno dell’assenso dato allo stesso dagli alleati tedeschi2.

Una lotta infine che per svolgimento e ruoli non può che rinviare a quella del popolo curdo e, soprattutto, al Rojava. In un crocevia dove gli inteeressi di Russia e Turchia incrociano quelli dell’Iran e anche di Israele, visto soprattutto l’appoggio militare dato dalle armi israeliane all’azione turca sotto forma di droni killer. Una questione lunga e complessa, ma non per questo meno chiara, che questo saggio, apparso, in due puntate e in versione leggermente ridotta, su «Nunatak. Rivista di storie, culture, lotte della montagna» (nei numeri 58 e 59, autunno e inverno 2020-2021), aiuterà il lettore a comprendere ancor meglio.

N. B.

Per eventuali contatti e per ordinare delle copie:

tabor@autistici.org – www.edizionitabor.it


  1. Daniele Pepino, «Siamo le nostre montagne». Il conflitto armeno-azero nella polveriera del Caucaso, Tabor, Valsusa, 2021, p.4  

  2. Si veda in tal senso: Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, edizione italiana a cura di Antonia Arslan e Boghos Levon Zekiyan, Edizioni Guerini e Associati, Milano 2003, in particolare pp. 279-330