di Gioacchino Toni
L’attualità del cinema di Michelangelo Antonioni
La visione di un film in una sala cinematografica sembra non limitarsi a lasciare nello spettatore qualche semplice ricordo; è la stessa realtà quotidiana vissuta a risultare influenzata da tale esperienza. Stefano Usardi – La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni. Residui filmici (Mimesis, 2018) – affronta la questione della residualità filmica intendendo verificare in quale misura la fruizione di un film funzioni “come agente condizionante sulla percezione del circostante”.
Usardi focalizza il suo studio relativo alla relazione tra lo spettatore e l’opera filmica sull’opera cinematografica di Michelangelo Antonioni concentrandosi sul suo particolare utilizzo della messa in scena. La scelta dello studioso di indagare tale relazione nell’opera del cineasta ferrarese – in particolare nei film L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962) – deriva dall’insistita presenza in essa di interstizi che lo spettatore è chiamato a colmare e al ricorso ad una messa in scena richiedente un’interpretazione attiva. Antonioni ricorre frequentemente a una poetica basata sull’assenza, sullo spazio vuoto e sul personaggio mancante al fine di coinvolgere attivamente lo spettatore.
Dopo aver tratteggiato il concetto di “realtà” in ambito cinematografico e quanto la personale costruzione di essa possa essere condizionata anche dalla proiezione cinematografica, lo studioso indaga il concetto di “empatia” nel cinema e la sua funzionalità a “una residualità filmica, soprattutto nell’immedesimazione da parte del fruitore con il protagonista” valutando quanto ciò costituisca una condizione di partecipazione attiva all’interno del “circolo creativo”. Usuardi passa poi a verificare la capacità della produzione di Antonioni di coinvolgere l’esperienza personale dello spettatore mettendone in discussione le convinzioni.
Se il rapporto tra soggetto e immagini rappresenta l’essenza del cinema, vi sono però film che più di altri si presentano come una riflessione su tale rapporto. Tra questi vi è sicuramente Blow-up (1966); film in cui il rapporto soggetto/immagini ruota soprattutto attorno alla produzione fotografica e alla sua manipolabilità. Tale opera è al centro dell’analisi proposta dal volume di Davide Persico, Blow-up e le forme potenziali del mondo (Mimesis, 2020), in cui, attraverso una prospettiva ermeneutico-decostruzionista, lo studioso evidenzia come il film operi una riflessione su concetti di “illusione”, “falso”, “allucinazione” e “percezione”, allargando poi il discorso a un ragionamento più generale sullo “sguardo” nella “società dell’immagine”.
Persico non considera l’immagine filmica come un prodotto diretto o il disvelamento del “reale” ma, piuttosto, come un’immagine simulacro che, in quanto tale, “perde e rimuove la propria origine, producendo al contempo senso, e si attesta come una forma interpretativa del mondo, che rielabora e riconfigura il tempo, evoca i fantasmi e crea illusioni ed enigmi”. Si tratterebbe dunque di “un’immagine che si autointerpreta e auto-decostruisce all’interno delle proprie strutture apparentemente durature, ma in realtà potenzialmente fragili”, così come suggerisce Blow-up.
Il testo filmico è indagato a partire dai meccanismi significanti attivati, dalle dinamiche di senso emergenti, dallo spazio come configurazione allucinatoria e proiezione fantasmatica, per giungere a una riflessione sul problema dell’immaginario inteso come “luogo di sguardo sul visibile che supera e travalica i confini molteplici (fisici e simbolici) dell’immagine, riallacciandosi al problema del simulacro e a tutti i nodi problematici che esso solleva”.
L’opera del regista ferrarese insiste sulla “de-umanizzazione della città” e lo fa attraverso la disseminazione di una serie di elementi pop – mimi, modelle, musica rock, moda… – che hanno il compito di identificare geograficamente, storicamente e simbolicamente la città britannica. Quella messa in scena è una Londra de-umanizzata in cui i personaggi risultano spesso privi di parola e di interazione sociale, tanto da apparire spesso come mero fondale.
Blow-up è un film costruito sulla solitudine e sulla necessità di riconfigurare un orizzonte interattivo attraverso una comunicazione non verbale ma simbolica, semiotizzata, immaginaria. “Il modo così alterato e ambiguo con il quale Antonioni presenta Londra, è tutto legato alla configurazione di un conflitto tra modi di guardare e percepire il visibile e quindi il paesaggio nella suo farsi immagine. Ma non solo. La molteplicità percettiva produce di conseguenza più immagini, più visioni e più interpretazioni di mondi possibili, che implica il ripensamento del mondo stesso, inteso sia come luogo di percezione fluida che produce relazioni tra diversi punti dello sguardo, che come costruzione urbana diegeticamente reale, o perlomeno accettata. Il film così come è costruito riesce a proporre un sottotesto carico di idiosincrasie, di aspetti poco sviluppati, di caratteri certamente ambigui che sfociano in un’alterazione forte di quello che possiamo considerare un mondo immediato, e diventa allo stesso tempo allucinazione percettiva del reale e dell’immaginario”.
In Blow-up il soggetto si presenta come una sorta di flaneur che si muove “in un mondo da un lato dominato parzialmente dai segni linguistici e che contemporaneamente nega questi segni, cercando di rimuovere questa semiotizzazione forte, in funzione di un occultamente della cosa iscritta nello spazio. […] È una perenne trasformazione della forma e una formalizzazione assoluta dell’oggetto, che assume di volta in volta una nuova immagine, sempre diversa”.
Si palesa così “un conflitto di immagini del mondo frammentato”; si tratta di “un processo di forte costruzione del soggetto ermeneutico, soggetto che pone esplicitamente come proprio obiettivo esistenziale quello di conoscere, interpretare e decostruire l’universo ipertrofico in cui è collocato e gettato storicamente”. Così facendo il protagonista tenta invano di instaurare un rapporto con il mondo rinunciando alla propria soggettività. “Il soggetto sparisce e resta solo il mondo, o comunque un mondo potenziale senza niente al proprio interno. Esso può essere riempito solo con materiale di natura psichica e allucinatoria. Ed il soggetto, Thomas per l’appunto, ricambia continuamente il suo ruolo diegetico e simbolico, anche alla fine del film, riaffermando il proprio discorso sullo sguardo, sulla sua istanza produttrice e sulla propria funzione di sguardo. […] Ciò che rimane è l’assenza, che è la condizione fondamentale del mondo e dell’immagine, oltre che del cinema”.
Visto che in Blow-up il soggetto sembrerebbe aver perso la propria immagine a vantaggio dell’accettazione di un’altra realtà possibile, di un altro visibile tutto da ricostruire, quel che resta, in fin dei conti, parrebbe essere soltanto l’immagine del mondo. Diventa pertanto interessante intrecciare i lavori di Stefano Usardi e di Davide Persico al fine di riflettere circa la residualità filmica lasciata sullo spettatore da un film come Blow-up. Che tipo di condizionamento sulla percezione del circostante opera la visione in sala di tale opera in un’epoca in cui l’elaborazione simbolica della realtà pare essersi sempre più impoverita favorendo immaginari antisociali?