di Sandro Moiso

Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 222, 18,00 euro

A lungo abbacinati dai muri trumpiani, ci siamo troppo spesso e per molto tempo scordati di guardare a quei muri che ci riguardano quotidianamente nel nostro viver comune, nelle nostre capacità cognitive, nel nostro immaginario e nella nostra interpretazione dei fatti del mondo.
Da un lato, infatti, in nome del progressismo sbandierato da un liberalismo che troppo spesso coincide con il liberismo economico, abbiamo data per scontata la necessità di superare tutte le concezioni e le interpretazioni del mondo considerate antiquate, superate e, nel loro insieme, pre-moderne.
Dall’altro ci siamo affidati, forse non individualmente e in tutti i casi, come comunità, come soggetti sociali e come specie ad una fiducia cieca nello Stato, nella Scienza e nel loro potere disciplinare, dati troppo facilmente per scontate ed acquisite come verità assolute. Finendo così con l’accettare, proprio per questo motivo, tutte quelle barriere destinate a precluderci le infinite soglie invisibili che ricollegano la vita individuale a quella collettiva e questa a quelle delle altre specie e del cosmo nel suo insieme. In questo senso siamo davvero diventati “individui”: atomizzati, egoisti, impotenti. E le reazioni alla pandemia e le sue conseguenze sociali e individuali costituiscono oggi, tra le infinite altre cose, una dimostrazione dei risultati di tale frammentazione sociale, culturale e conoscitiva.

Il bel libro di Stefania Consigliere, antropologa e docente presso il Dipartimento della Formazione dell’Università di Genova, giunge perciò nel momento più adatto per riaprire una riflessione globale sulla conoscenza e le sue conseguenze ideologiche e politiche. In tutti i campi del sapere, dell’immaginario e dell’agire. Collettivo e individuale.
Il testo sarà recensito prossimamente, con maggior dovizia di particolari, ancora qui su Carmilla, ma per ora ci basti un significativo assaggio delle sue pagine iniziali. Perfette, oserei dire, nel definire l’ambito cognitivo e discorsivo in cui si è voluta muovere l’autrice.

La via del disincanto # 1. E poco più che una constatazione: l’impresa moderna, con la sua narrazione di progresso e felicità per il maggior numero di individui, e fallita. Il mondo intorno a noi e un disastro.
Dopo quattro secoli di capitalismo, nei paesi occidentali (o ex-colonialisti) e scomparso il terriccio della vita comune. Sotto il giogo della governance neoliberista, la sussunzione e totale: che si tratti di chiacchiere, di salario, di sentimenti o di decisioni collettive, tutto avviene entro una gabbia di regole al contempo vincolanti, incomprensibili e mutevoli, in un deserto affettivo privo di senso esistenziale e con il solo imperativo della crescita economica. L’esperienza triviale della chiamata a un call centre compendia questo sentimento del presente che si estende fino all’intimità, dove disabilità emotiva, stereotipia linguistica e ossessione per il godimento illustrano la miseria dei tempi.
[…] Per vivere come viviamo, siamo tenuti a separare continuamente ciò che sappiamo da ciò che ci muove, ciò che sentiamo da ciò che facciamo, in un regime psicopatologico di dissociazione e impotenza. Non sorprende, allora, la diffusione epidemica del disagio mentale: più di meta dei nostri concittadini fa o ha fatto uso di psicofarmaci regolarmente prescritti; quasi tutti, per arrivare in fondo alle giornate, impieghiamo una varietà di sostanze legali e illegali; mentre i più giovani, l’asettica ≪fascia pediatrica≫ delle statistiche, danno di matto come non mai.
Tanto basta per intuire tempi difficili. Eppure manca ancora qualcosa, l’enzima capace di precipitare i problemi
in incubi: e la paralisi dell’immaginazione, l’incapacità di guardare oltre le mura della prigione che ci sta soffocando. Quest’alienazione trasforma il disastro in apocalisse, il venir meno del mondo a cui siamo abituati nella scomparsa di ogni mondo possibile.
[…] La via di fuga da un tempo stregato e qualsiasi cosa non sia il disastro incombente. La paralisi si scioglie a contatto con l’altrimenti. Non un altrimenti astratto, fumoso o esotico, ma quello assai prossimo di un mondo che continua a esistere fuori dal fascio abbacinante dei fari: l’erba, il terrapieno, la tana, il sentiero, gli alberi, l’ombra del bosco, gli animali sul prato. La foresta e ancora viva. Quello che cerchiamo e già qui: frammentario, imperfetto, ruvido come le cose reali. Si tratta solo di avvertirne l’esistenza. Cosa ci impedisce il contatto?

La via del disincanto # 2. E un problema di superstizione, vocabolo dall’etimologia incerta e dalla storia notevole. Un editto di Marco Aurelio puniva con la deportazione chi terrorizzava il prossimo con la superstitio, ovvero con l’eccessivo timore delle divinità. Poco importavano l’origine, il nome e gli attributi del dio: la legge colpiva coloro che trasformavano la pietas in terrore, mestatori e profittatori che catturavano anime al laccio del sacro. Qualche tempo dopo, tuttavia, quando pagani e cristiani cominciarono ad accusarsi reciprocamente, già usavano la parola in due modi diversi. Per gli uni i culti cristiani erano superstiziosi perché eccessivi, non conformi alle pratiche misurate della religione romana: la questione era dunque di tipo etico. Per gli altri i culti pagani erano superstiziosi perché tributati a divinità false, diverse dall’unico vero dio: la questione si faceva quindi ontologica. In questo scivolamento la superstizione non è più rischio di tutti, ma qualcosa che, per definizione, riguarda solo gli altri, coloro che non beneficiano dell’unica vera fede rivelata.
Questa declinazione ontologica ha conosciuto vita lunga nella civiltà cristiana ed è passata, in forma appena differente, all’evo moderno, dove la superstizione colpisce solo chi ancora non ha accesso all’unica vera conoscenza: quella delle leggi di natura rivelate dalla scienza.
Gli altri credono, noi sappiamo. Cosa succede, però, se l’unica conoscenza vera porta dritti al disastro planetario? Se il sapere diventa paralisi esistenziale? Se i metodi d’indagine richiedono la distruzione dell’oggetto conosciuto e, alla lunga, anche del soggetto conoscente? Ribadita da tutti i manuali e innestata nel profondo del nostro impianto pulsionale, questa incrollabile presunzione di superiorità è l’enzima che trasforma il disastro in apocalisse. Le ragioni della nostra supremazia devono essere difese a qualsiasi costo: meglio un uragano scientifico che un rifugio magico; meglio morire che essere come tutti gli altri. Il ridicolo che abbiamo riversato sulla possibilità che esista qualcosa oltre a ciò che vediamo ci paralizza in mezzo ai binari.
Conviene, in queste peste, riattivare il significato primo del vocabolo: l’idea che tutti, tranne noi, vivano nella superstizione (intesa come credenza non vera) ci impedisce di accorgerci di quanto la nostra adorazione della verità unica sia a sua volta superstizione (intesa come credenza paralizzante). Questa presunzione stregata è il Credo stesso dei moderni, conficcato in noi sotto una lega di violenza, ideologia e alienazione.

La via del disincanto # 3. Avvicinarsi al confine che separa il conoscere dal credere, la scienza dalla magia, il razionale dall’irrazionale significa, nel Vecchio Mondo, correre due rischi. Il primo e quello epistemologico della squalificazione, del bando dalla città dei Lumi. Il secondo e quello politico dell’accostamento al mix di machismo, superomismo, banalizzazione, risentimento, arroganza e prevaricazione comunemente noto come “fascismo”.
[…] Eccola: il rifiuto del fascismo è, per chi scrive, una sorta di grado zero, qualcosa che va da se e non richiede alcuna giustificazione. E tuttavia, nel desiderare una “vita non fascista” posizionarsi sic et simpliciter come antifascisti non basta. A una vita non fascista bisogna arrivare e i conti da fare sono lunghi e faticosi. Usato come bandiera, l’antifascismo rischia di fare le cose troppo facili.
Per cominciare, definirsi a partire dall’avversario e pericoloso. C’è un mimetismo nascosto, una fratellanza segreta fra A e non-A che satura il campo del pensabile e nasconde tutto ciò che, essendo altro, rifiuta di farsi catturare nella logica binaria. Questa trappola concettuale ha avvelenato lo spazio politico novecentesco, generando ortodossie speculari e spingendo tutto il resto ai margini e nell’insignificanza. Meglio allora definirsi a partire da ciò che si è o si vorrebbe essere.1


  1. S. Consigliere, Favole del reincanto, pp. 13-17