di Piero Cipriano

[Chiamate telefoniche precedenti] Questo scritto ha per oggetto… ok l’incipit s’è capito, il riferimento a Bolaño pure, ieri mi rileggevo le sue Chiamate telefoniche, che avrebbe scritto, il cileno, della pandemia? La pandemia aveva ormai raggiunto il picco, o almeno il primo dei picchi, che nessuno lo sapeva quanti picchi ci sarebbero stati, si iniziava a respirare, ma non fuori casa, sempre dentro casa, perché la libera uscita era posticipata a maggio, forse a giugno, o a settembre. Ritorno graduale alla normalità. Prima apriamo le fabbriche, dopo, molto dopo, apriamo i parchi. Prima la catena di montaggio, poi la passeggiatina.

Il fenomeno delle chiamate iniziò a preoccuparmi quando pure nei sogni il telefono squillava senza tregua, però nei sogni lo squillo non era una suoneria di smart phone o di cercapersone ospedaliero, era il trillo di un telefono a gettoni. Si assottigliava il mio meritato riposo. Ma perché devo rispondere a tutti io? Ma perché non chiamate Andreoli o al limite Recalcati? D’accordo è un filosofo non uno psichiatra non vi saprà dare (come me) quei bei farmaci contro la claustrofobia, ma vi parlerà del ritorno a casa, di come si sta bene a Itaca. Vuoi mettere? Sarà perché facevo la notte nel dedalo, e mi sono addormentato tardi. Una donna venuta in pronto soccorso ho dovuto convincerla a tornare a casa ma lei non voleva tornare a casa, dice almeno così ho la scusa per uscire. Non avevo sonno erano le tre e ho non dico riletto perché l’avevo già letto due volte e un po’ volevo dormire, ma ho sbirciato qua e là il libretto di Céline, che poi era la sua tesi di laurea in medicina, perché uno se lo dimentica che Céline, il vituperato Céline, prima di essere l’autore della Trilogia del Nord o di Bagatelle per un massacro (che, detto tra noi, non ho mai letto) era stato il dottor Destoushes, cioè un medico coi contro coglioni. Cosa avrebbe scritto, Céline, della pandemia? Cosa avrebbe detto di questo virus o di questi virologi? Insomma, Céline scrive la storia di Ignazio Filippo Semmelweis, medico che nasce a Budapest con un grave difetto, così mi dice per telefono, nel sogno, e sì, Semmelweiss mi parla lui proprio direttamente nel sogno ma ha la voce majakowskijana di Pierpaolo Capovilla, per cui subito me lo sento molto amico, mi dice ascolta, Piero, dice Piero con quel tono con cui inizia le telefonate Pierpaolo Capovilla, dice sai, sono sempre stato brutale in tutto ma soprattutto con me stesso, non so se pure per te sia stato così, ma io mi diressi verso la medicina con assoluta naturalezza, finché, arrivò un giorno, che seguii un’autopsia in un sotterraneo, là, in quei luoghi dove la scienza interroga i cadaveri con un coltello. Come è come non è, divento allievo del grande medico dell’epoca, Skoda, un dottore di fama clamorosa! Ma un altro medico, meno famoso, fu cruciale per arricchire il mio pensiero: si chiamava Rokitansky, era l’anatomopatologo dell’università di Vienna. Due padiglioni per il parto, nel 1846, s’innalzavano nell’ospizio generale di Vienna. Uno era diretto dal professor Klin, l’altro dal professor Bartch. Presto mi fu chiaro che se i rischi di febbre puerperale erano considerevoli nel padiglione di Bartch, in quello di Klin il rischio di morte equivaleva a certezza.

Il fatto è che da Klin partorivano, perlopiù, ragazze madri, senza soldi. E più del novanta per cento morivano.
Insomma: si moriva più da Klin che da Bartch. Mi segui? Ok, vado avanti.
Altro dato: da Klin l’esplorazione (le mani nel fondo della vagina, per capirci) la facevano gli studenti, da Bartch le levatrici.
Un giorno decisi di provare a invertire gli esploratori. Le levatrici, che facevano il tirocinio da Bartch, passarono da Klin, gli studenti li spostai da Klin a Bartch.
La morte li seguì.
Capisci che significava? Erano gli studenti! Ma Klin sosteneva che erano sì gli studenti, ma erano quelli stranieri che portavano la morte, e ne fece espellere una ventina, ne rimasero la metà. Eppure, la mortalità non cambiò.
Ma sai cosa notai, che ancora di più mi fece fare due più due? Che se una gravida, colta di sorpresa, partoriva per strada, e arriva da Klin solo dopo il parto, veniva risparmiata, non moriva di febbre puerperale.
A quel punto decisi di far semplicemente lavare le mani agli studenti (ancora non lo sapevo il perché, era solo un’intuizione, non avevo microscopi per vedere quegli esseri microscopici) prima di visitare le donne incinte. Feci disporre dei lavabi. Klin si oppose. Non solo: mi fece revocare l’incarico di assistente.
Un giorno Kolletchka, il professore di anatomia, in seguito a una puntura che si era procurato mentre dissezionava un cadavere, si ammalò e morì. Era chiaro, c’era una relazione tra la malattia che aveva ucciso Kolletchka, con l’infezione puerperale di cui morivano le ricoverate.
Un giorno ebbi l’intuizione, ma quando ormai nessuno più, forse nemmeno io, pensava all’impurità cadaverica: era “l’oblio dell’impurità cadaverica” l’origine delle epidemie di sepsi puerperale nelle cliniche. Quale selvaggio, mi domandavo, quale ostetrico selvaggio avrebbe mai osato toccare una puerpera con le mani fresche del contatto con un morto? Solo l’ostetricia europea del secolo più illuminato e raffinato era stata capace di elevarsi a tanto.
Siccome Kolletchka era morto per una puntura cadaverica, era chiaro come il sole: gli essudati prelevati sui cadaveri erano i responsabili del contagio. Le dita degli studenti trasportavano le particelle cadaveriche nel collo dell’utero delle donne incinte.
Feci un’ultima prova. Gli studenti di Klin passarono da Bartch, al posto delle levatrici. L’aumento della mortalità, li seguì.
A quel punto introdussi una soluzione di cloruro di calce con cui ogni studente, dopo aver sezionato i cadaveri, prima di visitare le donne incinte, si doveva detergere. La mortalità, si annullò.
Caro Piero, ora ti domando, e lo so che la mia storia tu già la conosci, è già sedimentata nei tuoi ricordi, ma te lo ripeto: la ragione più elementare non vorrebbe che l’umanità, guidata da dotti chiaroveggenti, si fosse per sempre sbarazzata di tutte le infezioni che la tormentano, o perlomeno della febbre puerperale, sin da quel mese di giugno del 1848?
Invece no! All’umanità ottusa occorreranno quarant’anni, e Pasteur, perché la mia scoperta fosse accettata.
Tutte le Cliniche delle migliori università europee disprezzarono la mia scoperta, dichiararono che i miei risultati non erano conformi coi loro. I medici si dichiararono stufi e umiliati dei malsani lavaggi a base di cloruro di calce.
Per la seconda volta, mi fu revocato l’incarico presso l’ospedale di Vienna.
Tornai in Ungheria, mentre era in corso la rivoluzione, vi presi parte. Mi dimenticai, quasi, della medicina. Mi dimenticai, in certi momenti, di essere stato un medico. Gli incidenti fecero il resto. Sette anni, restai chiuso in una stanza, isolato.
Poi, pian piano, ricominciai. Impiegai quattro anni, per scrivere dettagliatamente L’eziologia della febbre puerperale. Inviai questa tesi all’Accademia di medicina di Parigi. La inviai alla Scienza quella con la S maiuscola. Nemmeno mi risposero. Scrissi una Lettera aperta a tutti i professori di ostetricia, in cui li chiamavo assassini. “Non sono le sale da parto che bisogna chiudere per far cessare i disastri, ma sono gli ostetrici che conviene far uscire, perché sono loro a comportarsi come vere e proprie epidemie”.
Ma nemmeno nel mio stesso ospedale, ormai, si osservano le mie prescrizioni, anzi, alcune puerpere venivano deliberatamente infettate per la soddisfazione di darmi torto.
Un giorno di aprile del 1865 entrai, urlando, nella facoltà di medicina, mi impossessai di un cadavere che attendeva d’essere dissezionato, lo ridussi in brandelli, mi tagliai, e, com’era capitato a Kolletchka, m’infettai a morte. Fu un suicidio il mio? Fu il gesto estremo di protesta di un martire?
Mi portarono in manicomio, il 16 agosto del 1865, a soli quarantasette anni, dopo un’agonia di tre settimane, lasciai la vita agli altri.
Solo cinquant’anni dopo Pasteur ridiede luce alla verità, alla mia buona fede di medico, e al mio cuore di uomo.
Rimase in silenzio. Un rantolo. Poi riprese. Ma tu continui a chiederti perché ti ho raggiunto nel tuo sogno?
Per dirti che la storia si ripete sempre due volte, la prima è tragedia, la seconda è un film dell’orrore. Furono loro, fu il Patto trasversale per la scienza che mi mandò al manicomio e a morte. Ora ritornano, ma adesso, all’ottocentesco Patto per la scienza, mi piace credere, non gli crederà più nessuno.

*

Mi sveglia una telefonata sul telefonino. Guardo l’orologio sono le sette. Chi diavolo è che mi sveglia alle sette del mattino mentre faccio la notte in ospedale, d’accordo non lo può sapere che sto lavorando, o meglio che sto dormendo sul posto di lavoro, o meglio che sognavo e forse mi stava per dire il meglio, ma le sette sono sempre le sette.
Dottore chiamo da Senigallia, ho appena letto sul giornale di Senigallia che il professor Guido Silvestri, senigalliese e docente alla Emory University di Atlanta e tra i fondatori del Patto per la Scienza, ha fatto il punto sullo stato di conoscenza del tremendo virus.
Scrive un post, breve perché è un venerdì notte e lui è stanco di lavoro. Era in trincea? Era in corsia? E’ uno di quelli che lavora? No, perché a quanto pare questi si dividono in due: i vati che pontificano e quelli che vanno in trincea e muoiono.
Ma le dicevo di Guido Silvestri, a proposito, ma lo sa che costui ha lo stesso cognome di un’attrice porno del libro di Bolaño, proprio Chiamate telefoniche che ispira la sua rubrica? Non le pare una inesorabile coincidenza? Quella si chiama Joanna Silvestri, però, ha trentasette anni ed è prostrata nella clinica Les Trapèzes. Perché è prostrata? Forse perché ha conosciuto cose abominevoli nella sua vita e chissà che non le abbia conosciute ancor più abominevoli il suo quasi omonimo Guido Silvestri, chissà che tutti i virologi ma perfino tutti i medici (incluso lei) non siano venuti a conoscenza di cose abominevoli di cui non ci diranno mai. Ma torno alla dichiarazione del professor Silvestri.
Dice questo virus, non ha NESSUNA SPERANZA, lo scrive proprio così come glielo grido io, a caratteri cubitali, nessuna speranza contro la nostra scienza. Contro il Patto per la scienza, sottintende.
Perché non ha speranza? Ma perché lui non è niente, tra i virus, che lo sappia, non è un campione, non è niente confronto all’Hiv, egli sì, è stato un nemico enormemente più insidioso che in trent’anni ha fatto 35 dico 35 milioni di morti, altro che qualche migliaio che nemmeno l’influenza, e mò che faranno bene i conti lo sgameranno. Questo virus è incapace di nascondersi, non sa integrarsi nel genoma dell’ospite cioè di noialtri gli umani, è pure scarsetto a mutare, quindi rimane molto più vulnerabile alla risposta immune dell’ospite e al nostro vaccino, quando, IL VACCINO, impietoso e inesorabile arriverà (perché arriverà) (e lo farete tutti, haha, ora il TSO è #stare-a-casa, dopo il TSO sarà #fate-il-vaccino). Per cui, prosegue il Silvestri, se è purtroppo inevitabile che questo virus da quattro soldi farà ancora molti morti nei prossimi mesi, è ancora più chiaro che presto sarà SCONFITTO dalla nostra capacità di studiarlo e neutralizzarlo. Sono le sue reali parole, dottore, per farle capire il tono bellico del virologo numero due del Patto per la scienza.
Lo ripete come un disco rotto: la presenza della SCIENZA è la vera, grande differenza tra oggi ed il 1348 della morte nera, o il 1630 della peste manzoniana, o il 1918 della influenza spagnola. La presenza della SCIENZA è il motivo fondamentale per cui questo è un virus senza speranza.
Capito dottor Cipriano? Se lo ricordi. La SCIENZA. Non la scienza. Lei e tutti i dubbiosi gli scettici i dialettici i relativisti siete la scienza, loro e quelli del Patto per la scienza sono LA SCIENZA!
Tengo spento il telefono per il resto del giorno. Dico all’assistente sociale di non passarmi più chiamate. Mi sa che chiudo con questa rubrica. Ricovero un altro che pensava di avere, anzi, di essere il virus. Torno a casa. Ci dormo sopra.

*

Sveglio. Sono di nuovo in tangenziale est deserta che vado su e giù casa ospedale. Mi ferma una pattuglia. Dove va? A salvare le persone dal terrorismo psichico dell’attuale stato di polizia. Ah, buon lavoro, mi fa. Grazie. Sia più clemente, gli dico, con le persone. Poco prima di arrivare al nosocomio, che un tempo era un sanatorio per tubercolotici sopra Monte Mario dove c’è l’aria buona e a un tiro di schioppo aveva il gigantesco Santa Maria della Pietà che pure a loro, agli internati, l’aria buona faceva bene, alle infezioni psichiche e alle infezioni dei polmoni ha sempre giovato l’aria buona, poco prima di entrare nel parcheggio semideserto mi viene in mente Paul Feyerabend. L’allievo dissenziente di Popper, l’amico scapestrato di Kuhn e Lakatos. Lo scienziato, nel suo lavoro reale, è un opportunista, così amava ripetere, usa quello che gli serve e se ne libera quando non gli serve più. La ricerca scientifica non deve aspirare a creare teorie vere, ma teorie efficaci. Lo slogan del suo anarchismo metodologico è anything goes, qualsiasi cosa va bene, tutto fa brodo. Ma se qualsiasi cosa può andar bene, allora lo scienziato è autorizzato a utilizzare tutto ciò che gli conviene: idee scientifiche del passato abbandonate, scartate dalla scienza ufficiale, miti, dogmi della teologia, elementi metafisici. Perché, anche all’interno della scienza la ragione non può, non dovrebbe, dominare tutto. Il peso della scienza, nella nostra società, dovrebbe essere ridimensionato, se per secoli si è combattuto per separare stato e chiesa, oggi bisogna separare stato e scienza. Alcune tribù primitive hanno classificazioni di piante e animali più particolareggiate di quelle della botanica e della zoologia scientifiche, e adottano sistemi di medicina non scientifica che risultano più efficaci di quelli scientifici, chi lo dice? Lo dice Feyerabend. E a chi ti fa venire in mente, oggi? A Burioni forse? O a uno sciamano amazzonico? Ecco, vorrei proprio sapere uno sciamano amazzonico che ne pensa del virus. Ma chi c’è, nel mondo della scienza, oggi, che più somiglia a uno sciamano? Chi è l’incarnazione dello scienziato epistemologicamente anarchico di cui vagheggia Feyerabend, il cui pensiero divergente ci può salvare, sia dal virus che dalla scienza di Burioni?

Timbro, mi faccio misurare la febbre come da nuovo protocollo (se è più di 37.5 non si lavora, è solo 36.2). Mi convinco a chiamare il professor Didier Raoult. Trovo il numero dell’istituto Mediterraneo marsigliese e me lo faccio passare. Chi lo vuole mi scusi? Ovviamente comunichiamo in francese e siccome ho fatto ben tre anni di francese alle medie e ero fortissimo, soprattutto nell’uso di beaucoup, riesco a farmi capire alla grande, sono Piero Cipriano, sono uno psichiatra italiano e sono uno dei pochi psichiatri epistemologicamente anarchici, ha presente Feyerabend? Ecco, ora come ora non ho la possibilità (che ha Raoult adesso) di incidere sull’epidemia, ma vedrà, che pure in questo scorcio di pandemia, il mio anarchismo alla lunga tornerà buono, insomma, vengo al dunque, siccome mi ha chiamato Semmelweis in sogno per dirmi come stanno le cose, mi ha messo il tarlo, e così ho iniziato a chiedermi chi è, oggi, il nuovo Semmelweis, e mi sono ricordato di Didier Raoult, che ormai tutti conoscono come il guru della clorochina, o meglio dell’idrossiclorochina che è più potente, ma lo chiamano guru per denigrarlo, che non lo so forse? Un microbiologo e infettivologo con le palle altro che, uno che ha le palle, sì, le palle di sbilanciarsi, ben sapendo che puntare tutto sulla idroclorochina potrebbe sputtanarlo per sempre e altro che Nobel, ammesso che uno come lui se ne freghi qualcosa del Nobel, il Nobel mi pare fatto per uomini grigi, lui di grigio c’ha solo la capigliatura, insomma con tutto quanto Big Pharma ha in canna per uccidere il virus del secolo lui che fa?, punta su un medicinale tra i più noti al mondo, in giro da settant’anni almeno, un farmaco straconosciuto per curare la malaria, malaria di cui, diciamolo, non se n’è mai fottuto nessuno visto che è una malattia da morti di fame, embè lui che dice? Dice che il farmaco antimalarico che non costa niente (infatti nemmeno si trova in giro e Trump pare già che voglia ordinare tutto quello che è disponibile al mondo, e ha fatto infuriare i suoi consiglieri scientifici amici di Big Pharma) lui è stato il primo a dire che è capace di stecchire il coronavirus, il fantomatico virus che ci tiene in casa e che fa la gioia degli autocrati alla Orban o alla De Luca che non gli pare vero di fare gli sceriffi adesso, visto che tutti hanno la fifa blu di morire. Insomma, signora, capisce che dopo il sogno di Semmelweis io non ho potuto fare altro che pensare al genio di Raoult, chi altri somiglia a Semmelweis di questi tempi? me ne dica uno, avanti, ci pensi. Non le viene in mente? Se Semmelweis disse lavatevi le mani, Raoult dice prendetevi questo farmaco che esiste già, non impazzitevi a fare vaccini (che cazzata!, dice Raoult) o a fare il super-farmaco, e però ecco che come a Semmelweis, gli scienziati ottocenteschi alla Burioni in un primo momento (salvo poco dopo ricredersi, ma pure con Semmelweis all’inizio si ricredettero, salvo poi affossarlo) gli dicono che è come minimo un ciarlatano, perché i suoi metodi sono poco rigorosi e non scientifici. A parte il fatto che dovremmo metterci d’accordo su cosa vogliamo intendere per scienza, e pure chiarire che la medicina seppure si giova della scienza è un’arte. E come tutti gli artisti i medici veri, non i parolai la cui più grande impresa curricolare è essere ospite fisso da Fabio Fazio, i medici veri sono intuitivi, sono più artisti che scienziati, anzi, diciamola tutta, i medici veri sono sciamani, perché sono in contatto con il mondo dei morti, prova ne sia l’anello con la testa di morto che Raoult ha incastonato nel dito mignolo, e sono i morti a suggerire ai medici veri come fare, per salvare, ancora per qualche decennio, la vita degli umani. Tutto qui è il trucco: il vero medico è uno sciamano che è andato a parlare con la morte. E Burioni e Silvestri e simili nell’Ottocento sarebbero stati dalla parte del Patto della scienza, dalla parte di tutti gli eminenti medici convinti che le mani di un gentiluomo non hanno bisogno di essere lavate, perché sono sempre pulite.

Raoult, lo si capisce dall’inizio della sua storia, non era nato per fare il conformista. Quanti anni ha adesso? 68? Pensavo di meno. Nasce a Dakar, giusto? In Senegal, dove suo padre era medico militare e sua madre infermiera. Cresce a Marsiglia, o sbaglio? Dove, pensi un po’ che scavezzacollo, oggi direbbero iperattivo, o borderline, lascia gli studi, ma poi ci ripensa, e va a fare la maturità classica da privatista, pensi signora che insofferenza alle regole, pensi quanto se ne può fottere uno come Raoult del Patto per la scienza, ci scatarra sopra al Patto per la scienza, direbbe Manuel Agnelli. Insomma, prende rocambolescamente il diploma e si iscrive a medicina. E come medico se la cava bene, le sue scoperte le fa, mica no, aspettiamo ancora che Burioni in Italia scopra qualche cosa, Raoult scopre cose significative, mi scusi signora ma ora non mi ricordo cosa, ah sì, individua il genoma del batterio che causa la malattia di Whipple, conosce le rickettsie come nessun altro, queste me le ricordo, ricordo che mi fece la domanda a microbiologia sulle rickettsie, e presi 28 pensi un po’, e volevo fare il virologo, pensi che folle, poi scelsi psichiatria, se no adesso mi ritrovavo a essere uno dei dieci venti trenta virologi italiani che non ci capiscono una ceppa sul virus con la corona, e ci confondono le idee, e ci chiudono dentro. Appena inizia l’epidemia, a Marsiglia, all’Istituto ospedaliero universitario Mediterraneo, Raoult testa con successo soli ventiquattro pazienti affetti da Covid-19. Dico bene? A fine febbraio su YouTube pubblica un video, dove appare con quella faccia da druido e dice “Coronavirus: game over!”, proprio così dice, assicurando al mondo che la cura c’è e non vale la pena di fare ‘sta cagnara, non c’è bisogno di tenere la gente in casa fino a ottobre che esce il vaccino, la cura c’è e si chiama idro-clorochina. Giustamente tutti erano già belli pronti per andare in guerra, ora se ne arriva fresco questo e ti dice che la guerra è rinviata a un altro virus, i vari manovratori si stizziscono, il ministro della salute francese subito, come un automa (mettiamo Speranza, o una Lorenzin, o quella di prima, la grillina medica che non aveva mai esercitato miracolata e messa a dirigere la sanità italiana, come si chiamava quella? cavolo, non me la ricordo proprio, non ha lasciato traccia, la Lorenzin almeno qualche sciocchezza la diceva, quella niente, il vuoto pneumatico) ha detto che la terapia di Raoult puzzava di fake news, ma cazzo, ministro, ma pensa prima di parlare, fai due più due, non è che uno debba per forza aprir bocca tanto per darle fiato. Ma non è stato solo lo Speranza di Francia a bollare il farmaco antimalarico del druido, no, hanno tuonato quasi tutti i medici di Francia, “La medicina non si fa con un solo test su 24 pazienti”, ha detto uno. Dopo, però, il ministro della Salute, Olivier Véran, s’è ricreduto. E ha accettato l’appello del druido riguardo l’efficacia del suo cocktail farmacologico, che nel frattempo si è evoluto, perché ora abbina l’idroclorochina a un antibiotico che io, signora, più volte ho preso, quando ho avuto la bronchite e pure una volta cinque anni fa che presi la polmonite: l’azitromicina, commercialmente meglio conosciuto come Zitromax, è una bomba, le assicuro. E così, quel paraculo di Raoult, ha pure ringraziato il ministro Olivier Véran per avergli creduto, dopo l’iniziale titubanza. Insomma, signora, non è che possa tenermi qui al telefono a sentirmi raccontare tutta la storia di Raoult, me lo passa un attimo, il druido con l’anello testa di morto al dito mignolo? Me lo passa o non me lo passa?

[Chiamate telefoniche – qua le chiamate precedenti]