di Alessandro Peregalli e Susanna de Guio

Questo ottobre, l’America Latina si è risvegliata. Dopo anni di crescita latente di un nuovo fascismo, sospinto dal lento ma pervasivo rafforzarsi del narcotraffico, delle milizie, e delle chiese evangeliche che hanno colonizzato le periferie con la loro reazionaria “teologia della prosperità”, dopo che le classi medie, e in parte anche popolari, di diversi paesi hanno spostato il loro consenso verso la destra sempre più estrema, alleata dei monopoli mediatici, catturate dal suo discorso tossico sulla sicurezza e la corruzione, questo ottobre le “classi pericolose” si sono riprese la scena, e hanno creato un punto di inflessione che marca un prima e un dopo.

Una rivolta continentale

Cile. Il popolo cileno si è riversato in strada e da oltre due settimane sta dando battaglia contro l’agghiacciante violenza delle forze militari, che ha portato al saldo, secondo le stime ufficiali, di ben 19 morti, 2138 arresti, 173 feriti da arma da fuoco, 9 casi di violenze sessuali e molteplici di torture, facendo ricordare da vicino le peggiori atrocità della dittatura militare. Nata dalla protesta studentesca contro l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana, la mobilitazione si è immediatamente estesa nelle sue dimensioni e nel numero di rivendicazioni, dimostrando che l’aumento di 30 pesos (4 centesimi di dollaro) non era altro che la goccia che ha fatto traboccare il vaso di una situazione sociale ormai insostenibile, nel paese che ha dato la luce al neoliberismo (per lo meno nella sua versione made in Chicago), e che è considerato da decenni un modello da seguire per le classi dirigenti latinoamericane. Un paese dove i beni di prima necessità costano come in Europa occidentale mentre il salario minimo è di 300 euro al mese (la pensione minima ancora più bassa), dove trasporti, educazione, salute, e persino l’acqua sono completamente privati, dove il sistema di pensioni è contributivo (tranne che per militari e carabineros), gli uomini vanno in pensione a 75 anni, le donne tra i 65 e i 70, la settimana lavorativa è di 45 ore. Il Cile è uno dei 15 paesi più diseguali al mondo, in cui l’1% della popolazione possiede quasi il 30% della ricchezza. La costituzione cilena è ancora quella di Augusto Pinochet. 

E proprio la richiesta di una nuova Assemblea Costituente, insieme alle dimissioni del presidente Piñera, è diventata la principale domanda del popolo cileno. La mobilitazione ha saputo sfidare e superare, con unità e determinazione, la dichiarazione di guerra di Piñera, che ha disposto Stato d’emergenza e coprifuoco in quasi tutto il paese, non si è lasciata strumentalizzare dal terrorismo mediatico che ha seguito i saccheggi e gli incendi di palazzi, centri commerciali e stazioni della metropolitana (saccheggi e incendi presto divenuti pratica costante della polizia per giustificare l’escalation repressiva), e non ha accettato la mediazione al ribasso della recente agenda “sociale” del presidente (cancellazione dell’aumento del biglietto, settimana di 40 ore, salario minimo, ricambio ministeriale), ormai sconfitto sul piano della polarizzazione con la piazza. Mentre, dopo la manifestazione del 25 ottobre, che ha visto sfilare 1.5 milioni di persone a Santiago e 3-4 in tutto il paese, il movimento continua a tenere la piazza e a resistere alla repressione, nuovi contropoteri vengono costruiti a livello locale da un sistema di assemblee territoriali, e nascono nuove articolazioni politiche come la Piattaforma di Unità Sociale, che riunisce un insieme di sindacati e di organizzazioni sociali, e che prova a dare una direzione strategica al movimento.

Ecuador. Solo poche settimane fa in Ecuador si festeggiava il ritiro del Decreto 883, dopo 13 giorni di battaglia campale in tutto il paese e nella capitale Quito, con altissimi livelli di repressione statale, che hanno portato all’uccisione di 7 manifestanti, al ferimento di 1340 persone e all’arresto di 1252. La protesta si era accesa proprio il 1° ottobre in ripudio alla misura economica imposta dal governo di Lenin Moreno che, in ossequio ai dettami del FMI, eliminava il sussidio sul carburante provocando l’impennata del 100-120% dei prezzi dei trasporti e dei beni di consumo primari. Il decreto prevedeva anche misure di austerità per i lavoratori pubblici, che vedevano le loro ferie dimezzate da 30 a 15 giorni l’anno, e che dovevano destinare un giorno di salario al mese al tesoro pubblico per pagare gli interessi sul debito, mentre quelli con contratto temporaneo subivano riduzioni salariali del 20%. Nel frattempo, il fisco condonava debiti milionari ai grandi gruppi monopolisti.

La massiccia protesta popolare è stata composta da una gran parte della popolazione indigena, guidata dalla CONAIE, studenti, il sindacato FUT, gruppi della sinistra socialista e comunista, e il movimento femminista, che hanno concentrato la loro azione sulla revoca del Decreto 883, mentre su un altro versante si sono mossi i gruppi legati all’ex presidente Rafael Correa, che utilizzavano il discorso mediatico del governo, rivolto alle “colpe del governo anteriore”, per tornare in scena come attore politico e chiedere le dimissioni di Lenin Moreno. Dopo gli anni della nuova costituzione, che ha portato alla definizione dell’Ecuador come “Stato plurinazionale”, il secondo governo di Correa ha intrapreso scelte economiche centrate sull’aumento dell’estrazione ed esportazione delle materie prime, con conseguenze devastanti nelle comunità indigene, e con un fortissimo aumento della repressione, che portò a leggi speciali e alla detenzione di molti leader comunitari.

Nelle giornate di ottobre, il protagonismo dalla CONAIE è stato il tassello fondamentale di una rivolta che da diverse province del paese si è riversata nella capitale Quito ed è giunta ad occupare il parlamento; il movimento indigeno ha trionfato non solo ottenendo l’annullamento del decreto ma anche riuscendo a non farsi strumentalizzare dalla polarizzazione politico-mediatica tra Moreno e Correa, aprendo uno spazio di possibilità inedito per l’Ecuador, che scommette sul logoramento di un governo debole e privo di consensi e sul retrocesso di una destra xenofoba che stava speculando sull’immigrazione venezuelana, e che attraverso l’attivazione di un Parlamento de los Pueblos mette le basi per la costruzione di un orizzonte emancipatorio diverso dalla fallimentare esperienza della Revolución Ciudadana.

Haiti. Anche Haiti si è incendiata e ormai da sette settimane è teatro di mobilitazioni, saccheggi, blocchi stradali e scontri; si contano 42 morti dall’inizio delle proteste, di cui 19 causati dalle forze di sicurezza, centinaia di feriti e la paralisi del paese, che si sta sollevando per la quarta volta negli ultimi 16 mesi. Haiti, 168esimo paese al mondo per indice di sviluppo umano (su 189), con una denutrizione cronica che colpisce la metà della popolazione, e quarto paese più colpito da disastri naturali, sconta una storia di più di due secoli di blocchi commerciali e ingerenze imperialiste.

La principale rivendicazione delle proteste è la destituzione dell’attuale presidente, Jovenel Moïse, eletto nel 2016 con forti denunce di frodi elettorali, che è responsabile di aver eliminato i sussidi sull’energia, in ossequio agli accordi presi con il FMI per pagare il debito pubblico del paese, e si è trovato ad affrontare le conseguenze del rincaro del combustibile, che dal 2018 è tornato a prezzo di mercato come conseguenza della crisi economica venezuelana, che ha impedito di rinnovare l’acquisto di petrolio a tassi calmierati dall’impresa Petrocaribe, che era stato disposto dal programma di cooperazione sud-sud implementato da Hugo Chávez nell’ambito dell’ALBA (Alianza Bolivariana de las Américas).

Il tutto coronato da una gestione altamente corrotta da parte dello stesso governo, proprio in merito agli accordi con Petrocaribe. A questo quadro si aggiunge la vergognosa gestione dell’emergenza umanitaria esplosa nell’isola a seguito del terremoto del 12 gennaio 2010. Le ONG straniere hanno canalizzato quasi il 90% delle donazioni internazionali destinate all’approvvigionamento alimentare e l’assistenza sanitaria e psicologica, mentre la missione militare, a guida brasiliana, che avrebbe dovuto accompagnare il processo di ricostruzione del paese ha portato a molteplici episodi di ingerenza e si è rivelata funzionale solo a garantire lo sfruttamento delle risorse naturali e minerarie dell’isola da parte di multinazionali straniere, soprattutto statunitensi e canadesi.

Honduras. Intanto, in Honduras gli scorsi 17 e 18 ottobre è bruciata la rabbia, e con essa numerosi pneumatici e barricate nelle principali arterie del paese. La causa è stata la condanna del fratello del presidente Juan Orlando Hernández (JOH) per quattro delitti relativi a narcotraffico. L’episodio si inserisce in una lunga scia di repressioni brutali come risposta al conflitto sociale che sorge già nel 2009 con il colpo di Stato ai danni del presidente di sinistra Manuel Zelaya. Le proteste si sono nuovamente intensificate soprattutto a partire dal dicembre del 2017, quando il candidato progressista Salvador Nasralla, dopo aver vinto le elezioni presidenziali, è stato destituito da JOH, del partito di governo e rappresentante dell’oligarchia, sulla base di un riconteggio fraudolento dei voti. Le proteste di strada hanno portato a una repressione feroce, con decine di morti, e all’intensificarsi della migrazione di massa verso il Messico e gli Stati Uniti, che ha dato vita alle carovane migranti dell’anno scorso.

Bolivia. Ma se i popoli del continente fanno tremare le fondamenta dei sistemi politici e si ribellano alle politiche neoliberali delle destre, la crisi politica in cui è precipitata la Bolivia a partire dalle elezioni di domenica 20 ha manifestato, nella maniera più lampante, che il progressismo non è, o non è più, la soluzione. Il primo governo di Evo Morales, che aveva trionfato alle elezioni del 2005 dopo un poderoso ciclo di lotte caratterizzato dalla “guerra dell’acqua” (2000) e dalla “guerra del gas” (2003), portò a casa risultati importanti, anche se depotenziati rispetto alle attese, come una limitata riforma agraria, una nuova costituzione che sanciva la forma “plurinazionale” dello Stato, e una parziale nazionalizzazione del gas. Dopo la crisi politica del 2008, durante la quale vi furono forti timori di colpo di Stato e guerra civile, il governo abbandonò definitivamente qualunque velleità di rispetto della Pachamama e dei diritti dei popoli indigeni (soprattutto quelli dell’Amazzonia e delle cosiddette Tierras Bajas), per intraprendere un cammino modernizzatore fatto di iper-estrattivismo, repressione del dissenso, e di totale subalternità agli appetiti imperialisti del Brasile e delle sue maggiori imprese di petrolio (Petrobras) e della costruzione (Odebrecht, OAS, Camargo Correa).

Sebbene la Bolivia abbia avuto in questi anni una crescita economica del 5%, la sua qualità è stata perfettamente in linea con i parametri macroeconomici del FMI, e con un’alleanza con importanti settori capitalisti, primo tra tutti l’agrobusiness della soia, responsabile dei recenti incendi in Amazzonia. Inevitabilmente, liberando il paese all’accumulazione economica del capitale, quest’ultimo ha fagocitato lo spazio politico, ed il consenso di Evo si è via via deteriorato. La prova è stata la sconfitta di misura nel referendum del febbraio 2016, in cui il governo proponeva la possibilità, negata dalla costituzione, di estendere la sua eleggibilità al quarto mandato. In barba al voto popolare, la Corte Costituzionale decise invece clamorosamente di consentire il quarto mandato dichiarando, in maniera sorprendente, che si tratterebbe di un “diritto umano”. Con in mente questo precedente, la campagna elettorale di Morales si è giocata tutta sulla sua possibilità o meno di vincere direttamente al primo turno, per il quale era sufficiente superare il 40% dei voti con un vantaggio di 10 punti sul secondo. Ma la sera delle elezioni, quando erano stati scrutinati l’83% dei voti, Evo Morales era dato al 45%, appena 7 punti in più del suo avversario, l’ex presidente Carlos Mesa. La decisione del Tribunale Elettorale di sospendere la pubblicazione dei dati per 24 ore durante lo scrutinio, ha scatenato le proteste degli elettori della destra, mentre anche i sostenitori di Evo scendevano in strada per denunciare un presunto tentativo di colpo di Stato imperialista. Quando Morales aveva ormai dichiarato lo Stato d’Emergenza, che sembra diventato l’unica risposta che i presidenti latinoamericani sono capaci di dare di fronte alle espressioni di piazza, il Tribunale Elettorale rese pubblici i risultati quasi definitivi che davano la vittoria di Evo con 10.1 punti di vantaggio. L’argomentazione del governo, che le ultime schede scrutinate provenissero dalle zone rurali, dove il consenso a Morales è più alto, è certamente credibile, così come sono storicamente provate le inclinazioni golpiste della destra latinoamericana, ma il contesto nel suo insieme è così torbido che la legittimità democratica, etica e politica, di Evo, insieme alla sua pretesa di essere un’alternativa alle destre, sembra ormai del tutto compromessa.

Argentina. (foto a sinistra e prossime due di Gianluigi Gurgigno) Scendendo verso il Cono Sur, le elezioni dello scorso 27 ottobre in Argentina hanno confermato –sebbene con solo 8 punti di stacco- il risultato delle primarie di inizio agosto, dove il candidato peronista Alberto Fernandez, spalleggiato dalla ex-presidente Cristina Kirchner e da una coalizione progressista, si imponeva per 15 punti sulla ricandidatura di Mauricio Macri. Il cambio di governo è stato festeggiato come una vera e propria liberazione dall’incubo che hanno rappresentato le politiche neoliberiste di Macri degli ultimi quattro anni: nonostante la costante risposta di piazza da parte di sindacati di base e organizzazioni sociali, che ha visto il suo apice in un fortissimo movimento di massa contro la riforma delle pensioni nel dicembre 2017, il governo è riuscito a contrarre il debito più grande della storia con il FMI, e a demolire l’economia interna a suon di licenziamenti e politiche liberalizzanti che hanno portato alla svalutazione del peso del 300% in due anni, a un’inflazione galoppante e alla continua perdita del potere d’acquisto dei salari e a un’impennata negli indici della povertà.

Nonostante la felicità popolare per il risultato alle urne, non si vedono all’orizzonte possibilità di modificare rapidamente la situazione di crisi economica in cui versa il paese, tanto più che il nuovo governo è frutto di un’alleanza troppo ampia e moderata per permettere scelte coraggiose contro l’austerity, con numeri risicati in parlamento, e con poco margine di sovranità nazionale da negoziare con l’FMI. Ancora più difficile da prevedere è la ricomposizione dei settori popolari e delle organizzazioni sociali, che in questi anni hanno mantenuto un livello alto e costante di mobilitazione, ma che si presentano di fronte al governo del Frente de Todos con esigenze e pratiche politiche diverse e a tratti divergenti tra loro.

Uruguay. In quella stessa giornata, in Uruguay il voto ha rimandato a un secondo turno il testa a testa tra il candidato del Frente Amplio, Daniel Martínez, e il rappresentante della destra Luis Lacalle Pou, del Partido Nacional, ma la popolazione alle urne ha affermato con forza il suo rifiuto alla riforma costituzionale, proposta da un senatore nazionalista, che intendeva dare ampi poteri ai militari nella gestione dell’ordine pubblico, qualcosa che nel paese non avviene dai tempi della dittatura militare terminata nell’85. Contro questa riforma, presentata con il nome innocente e securitario di “vivir sin miedo” (vivere senza paura), si era svolta lo scorso 22 ottobre una manifestazione moltitudinaria.

Colombia. Sempre il 27 ottobre, si sono svolte elezioni locali in Colombia, che hanno visto un arretramento della destra di Álvaro Uribe e del presidente Ivan Duque. Tutte le maggiori città, e molti municipi minori, hanno visto la sconfitta dei candidati legati al loro partito Centro Democrático, in primo luogo la capitale Bogotá, che ha visto il trionfo dell’attivista LGBT Claudia López, del partito progressista Alianza Verde. Queste vittorie sono state trainate, tra l’altro, da un recente aumento delle mobilitazioni studentesche nel paese. Il voto ha anche registrato la sconfitta della strategia del terrore e della repressione politica del governo, in un paese che ha visto aumentare il numero di leader sociali e indigeni assassinati, sabotare in vari modi l’accordo di pace tra governo e FARC, e crescere nuovamente il terribile fenomeno dei “falsi positivi”, ossia contadini assassinati e presentati come guerriglieri in cambio di un “premio” governativo.

Panama. Ma l’ottobre appena trascorso ha contagiato numerosi altri paesi, la cui lista appare interminabile. Massive mobilitazioni si sono verificate a Panama, con enormi proteste, soprattutto studentesche, contro un progetto di riforma costituzionale che, inizialmente finalizzato a fornire un marco efficace contro la corruzione, ha visto l’inserimento in extremis di misure di carattere sociale, prima fra tutte una parziale privatizzazione del sistema universitario. Nelle ultime settimane, le mobilitazioni hanno permesso il ritiro dell’articolo incriminato, mentre un nuovo fronte di lotta si apre con la protesta della comunità LGBT per il matrimonio egualitario.

Costa Rica. Proteste in difesa dell’educazione pubblica si stanno dando anche nella vicina Costa Rica, che però per ora non hanno saputo contagiare altri settori sociali ma hanno comunque portato alle dimissioni del ministro dell’Educazione.

Paraguay. E lo scorso 28 ottobre forti proteste e blocchi stradali a oltranza si sono verificati anche in Paraguay, dove la Federación Nacional Campesina è scesa in piazza contro la repressione e gli sgomberi delle comunità contadine e per chiedere politiche di appoggio all’agricoltura familiare.

Messico. Da parte sua, sebbene viva una situazione di luna di miele con il nuovo governo progressista di Andrés Manuel López Obrador che registra ampi consensi dopo 36 anni di devastazione sociale sotto i governi dei partiti PRI e PAN, nemmeno il Messico è del tutto esente da questo scenario di opposizione sociale e dal basso: lo scorso 12 ottobre il Congreso Nacional Indígena ha dato vita a una giornata di mobilitazione contro le grandi opere promosse dal nuovo governo, in primis il cosiddetto Tren Maya, il corridoio logistico sull’Istmo di Tehuantepec, e il corridoio energetico Proyecto Integral Morelos.

Perù. Infine, è d’obbligo menzionare la forte crisi politica che vive il Perù, dove a settembre le mobilitazioni di piazza hanno permesso al presidente Martín Vizcarra di vincere un duro scontro istituzionale con la maggioranza parlamentare legata all’ex dittatore Alberto Fujimori, che ha fallito nel suo tentativo di colpo di Stato istituzionale.

Il “no” al modello neoliberale

Questo ottobre di piazza e di rivolte in America Latina parla di uno scossone tellurico generalizzato che obbliga ad andare oltre i singoli contesti nazionali e ad osservarlo nel suo insieme, a considerare che esistono connessioni tra i diversi fenomeni di protesta che si stanno verificando nel continente. Soltanto un anno fa, la vittoria di Bolsonaro in Brasile sembrava sancire l’ennesima “fine della storia” per il continente, il compimento di una torsione reazionaria che sembrava far sprofondare la regione, irrimediabilmente, negli inferi dell’eterno ritorno del suo passato schiavista, latifondista, del genocidio, e spingerla in un nuovo ciclo coloniale imposto con la classica formula neoliberale fatta di sfruttamento intensivo del suolo e delle materie prime destinate all’esportazione, tagli alla spesa sociale, distruzione dell’economia interna a favore delle imprese multinazionali, il tutto accompagnato da alti livelli di repressione, garantita dalla militarizzazione incontrollata dall’alto, venduta con l’installazione della paura e della richiesta di maggiore sicurezza, e infine dal proliferare senza fine di narcos, milizie, paramilitari, eserciti, polizie nazionali, squadroni della morte.

In molti paesi del continente, laddove nei primi anni del nuovo secolo potenti movimenti di massa e infuocate rivolte popolari avevano fatto emergere governi che si definivano “progressisti” o “post-neoliberali”, e che avevano permesso, seppur con in mezzo a mille contraddizioni, un drastico calo dei tassi di povertà assoluta, e un ricambio parziale nella classe politica, con l’inclusione di dirigenti e quadri provenienti da movimenti sociali e sindacati, dopo la crisi economica mondiale del 2008 si esauriva progressivamente la spinta propulsiva e financo l’illusione di qualsiasi trasformazione strutturale dei rapporti sociali e di classe. A partire dal 2015, dopo due anni di drastico calo nei prezzi delle materie prime, capitolarono uno dopo l’altro il governo di Cristina Kirchner in Argentina, sconfitto dall’imprenditore Mauricio Macri, e quello di Dilma Rousseff in Brasile, travolto prima dal movimento di massa del 2013, che si opponeva alle politiche speculative e antisociali del Partito dei Lavoratori (PT), e poi dall’inchiesta Lava Jato, strumentalmente usata da magistratura e oligarchia economica per determinare un colpo di Stato parlamentare e assumere direttamente il potere politico del paese. Nel 2016 Dilma veniva disarcionata attraverso un golpe parlamentare, mentre in seguito l’ex presidente Lula, che godeva ancora del consenso della maggioranza dei brasiliani, veniva arrestato e impossibilitato a candidarsi attraverso un giudizio politico.

Nel frattempo, laddove l’oligarchia tradizionale non riusciva a impadronirsi direttamente del potere politico, per poter scaricare il peso della crisi economica sulle classi popolari, cresceva come un cancro all’interno degli stessi governi ancora considerati “di sinistra”, come in Venezuela e in Bolivia, una nuova élite economica, politica e militare, mentre si inaspriva la tendenza alla devastazione ambientale e dei territori e della svendita di praticamente tutte le risorse naturali alla voracità accumulatrice del grande capitale straniero, soprattutto cinese. Così, mentre la crisi economica si configurava come crisi di redditività della rendita estrattiva, i governi rispondevano con maggior estrattivismo, scavando ulteriori solchi sul cammino, promesso a parole, di una crescita autonoma e di un delinking dalla globalizzazione neoliberale.

Infine, in quei paesi dove il modello economico non era mai stato, nemmeno timidamente, messo in discussione, come in Messico (almeno fino al 2018), in Cile, in Colombia, e nella maggior parte dei paesi centroamericani e caraibici, continuava indisturbato il regime necropolitico fatto di brogli elettorali, “guerra al narcotraffico”, paramilitarismo, assassinii politici. Berta Cáceres, Santiago Maldonado, Marielle Franco, Samir Flores, i 40.000 desaparecidos in Messico degli ultimi 13 anni (tra i quali i 43 studenti di Ayotzinapa), l’aumento esponenziale dei femminicidi, il massacro di leader sociali in Colombia e in Brasile, le pallottole dell’esercito honduregno contro il suo stesso popolo, così come la repressione del “sandinista” traditore Daniel Ortega in Nicaragua sono solo alcuni esempi di una politica di sterminio di massa perpetrata su base selettiva (razziale, di genere, politica), che è tornata ad essere, in tutta la regione, forma pura di governo.

Gli ultimi due anni sono stati emblematici di questo ritorno in America Latina dei peggiori incubi del passato e delle misure economiche tipiche della faccia più sanguinaria del neoliberismo. Due paesi, l’Argentina di Macri e l’Ecuador di Lenin Moreno, il successore del “progressista” Rafael Correa, legavano le sorti della propria bilancia economica al Fondo Monetario Internazionale, che tornava quindi a dettare l’agenda di “riforme strutturali” come aveva fatto negli anni ‘80 e ‘90, mentre l’elezione in Brasile di Bolsonaro faceva presagire lo sbarco in America Latina di un’estrema destra sul modello di quella euroamericana di Trump, Orban e Salvini, e che non si vergognava di rivendicarsi in totale continuità con l’esperienza delle dittature militari. (Nella foto di Gianluigi Gurgigno, festeggiamenti in Argentina)

E proprio il Brasile sembra essere, ad oggi, il grande assente dell’ottobre caldo latinoamericano. Proprio in quel mese, infatti, il parlamento brasiliano ha votato in ultima istanza una riforma delle pensioni lacrime e sangue senza quasi nessun tipo di risposta popolare da parte di partiti, sindacati e movimenti che sembrano ancora sotto shock dall’elezione dell’anno scorso. Tuttavia, questo non significa che il progetto reazionario intrapreso dal nuovo governo sia un cammino privo di ostacoli. La popolarità del presidente è ormai scesa al 30%, mentre lo stesso Bolsonaro è recentemente entrato nell’inchiesta che indaga sulla morte della militante del PSOL Marielle Franco, per vincoli diretti, e una possibile complicità, con gli assassini materiali di Marielle, due ex poliziotti miliziani di Rio de Janeiro. E se il vento della rivolta che soffia altrove è una realtà lontana dal Brasile, ciò non vuol dire che non si tema un contagio: lo scorso 31 ottobre, infatti, il deputato e figlio del presidente, Eduardo Bolsonaro, ha esplicitamente minacciato la possibilità di un colpo di Stato militare se dovessero verificarsi ampie proteste sociali, e per queste dichiarazioni è oggi a rischio di espulsione dalla Camera dei Deputati. Intanto, si fa sempre più possibile una prossima liberazione di Lula, il che registra una distanziamento di settori sempre più ampi della borghesia brasiliana da Bolsonaro, e il possibile intento di una manovra “conciliatrice”, che mantenga le nuove “conquiste” del neoliberismo nel paese, ma che scongiuri una possibile crisi sociale.

Riprendersi il futuro?

Lo scenario che emerge da questo ottobre, con l’accendersi di focolai di ribellione in diversi paesi latinoamericani, segnala un repentino arresto dell’avanzata egemonica conservatrice e porta avanti una rivendicazione di fondo che converge nel denunciare un modello fondato sulla diseguaglianza e lo sfruttamento, insopportabile a livello socio-economico e insostenibile a livello ambientale, come già dicevano i movimenti contro la globalizzazione dei mercati nei primi anni Duemila.

Nel contesto attuale, tuttavia, il campo popular è più diviso al suo interno di 15 o 20 anni fa, quando a Porto Alegre intellettuali, partiti, sindacati e movimenti si riunivano per pensare “un altro mondo possibile”, mentre da Buenos Aires, Cochabamba, Caracas e Mar del Plata (ma anche da Seattle e Genova) partiva l’attacco su scala mondiale al neoliberismo, si cominciava a immaginare un “Socialismo del XX secolo” e in tutto il mondo si parlava di “laboratorio sudamericano”. Oggi la crisi picchia più forte, soprattutto nei territori che in questi ultimi anni sono diventati, sotto la spinta del modello estrattivista, vere e proprie “zone di sacrificio”. In questi anni si è consumato il fallimento dell’alternativa progressista, che pure nel breve periodo aveva portato a indubbi passi in avanti nelle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, ma che si è sostenuta, a livello strutturale, sul rafforzamento delle dinamiche di dipendenza economica, commerciale, produttiva e finanziaria dal capitalismo globale, solo un po’ meno gringo e un po’ più cinese rispetto a prima, ma ugualmente predatorio: questa sconfitta ha portato a un impasse programmatico e di immaginario da cui difficilmente oggi si si intravede l’uscita. Sebbene le vittorie elettorali in Messico e Argentina, e l’incredibile tenuta del governo di Maduro di fronte ai tentativi di golpe militare, registrino un ri-equilibrio nella bilancia di forze regionale tra governi conservatori e progressisti, è chiaro che le rivolte di ottobre non nutrano più le illusioni di un tempo e che cerchino alternative lontano da un progressismo che si è rivelato una variante interna all’ordine neoliberale.

Più che sognare “un altro mondo possibile”, queste rivolte raccolgono l’eredità dei tempi torbidi e apparentemente senza speranza che viviamo, e si ribellano, senza se e senza ma, a un presente non più sopportabile, laddove la depredazione ha ormai rubato anche la possibilità di pensare il futuro. Raccolgono, in un certo senso, l’eredità dei movimenti degli ultimi anni, sollevatisi contro l’ordine necropolitico del capitale: le numerose resistenze indigene in difesa dei loro territori, della terra, dell’acqua e della vita; le lotte contro i femminicidi e il dominio sul corpo delle donne; le lotte disperate contro la narcoguerra e la desaparición forzada nei paesi in cui la violenza è normalizzata e regna l’impunità criminale. L’ultimo ciclo di movimenti sociali condivide una tenace ma quasi disperata lotta per la vita, che si affianca a quella, più recente e più globale, dei milioni di giovani in rivolta contro la catastrofe ambientale e un futuro che lascia immaginare solo la fine del mondo. E proprio l’effervescenza giovanile è un elemento comune a molte mobilitazioni, dall’Ecuador al Cile, da Panama alla Costa Rica, passando per la Colombia e per la breve ma intensa lotta universitaria in Brasile tra maggio e giugno, e prova che la componente studentesca e universitaria sta acquisendo un protagonismo sociale in tutto il continente che da parecchi anni non esprimeva con questa intensità.

Paulo Freire parlava di “inedito possibile” come di una situazione limite in cui, come prodotto di un’insorgenza collettiva e condivisa, qualcosa che sembra essere strutturalmente negato inizia a diventare una possibilità reale. Questa possibilità, per realizzarsi, deve prendere corpo, forma, organizzazione e, possiamo dirlo, programma. Ma un programma che, per lo meno, possa essere meno deprimente dei “meno peggio” e delle fragili immagini del possibile che, prima di ottobre, venivano frapposte alla barbarie: la politica riformista e conciliatoria di un López Obrador in Messico, il ritorno del peronismo moderato in Argentina, il perpetuarsi della burocrazia autocratica bolivariana in Bolivia e Venezuela, o la giusta liberazione di Lula in Brasile. Intanto, finito l’ottobre storico, si scommette sul prolungarsi dell’Ottobre politico, e in tutti i paesi ci si chiede, ora che lo spettro dell’insurrezione è diventato uno scenario possibile, quale sarà il prossimo paese ad esserne contaminato.