di Paolo Lago

Alla fine dell’Ottocento, la vita africana era tormentata da una terribile piaga: la tratta degli schiavi. Le lotte tribali, le razzie organizzate da popolazioni guerriere, le guerre degli stati che si erano costituiti in diverse regioni alimentavano largamente il traffico di uomini. Timbuctù, lungo il corso del Niger, era uno dei centri di smistamento degli schiavi: stipati su piccole imbarcazioni, essi venivano portati fino alla costa per essere imbarcati sulle grandi navi negriere europee, dirette verso le Americhe. Una di queste terribili notti di deportazione, c’era la luna quasi piena: Ousmane si trovava su una di queste barche, incatenato e ammassato insieme ad altre centinaia di ragazzi e ragazze come lui. Aveva deciso che non voleva pensare alla sofferenza di quel momento né a quella che gli avrebbe riservato il destino, voleva soltanto guardare la luna: sembrava che quella grande luna bianca, quasi piena, potesse alleviargli il dolore e portargli un po’ di consolazione. Non spirava un alito di vento e c’era un caldo insopportabile. L’unico ristoro veniva da quella luce bianca, così lontana, così irraggiungibile. Eppure, gli sembrava che quella luce, chissà come, riuscisse ad accarezzare lui e tutti i suoi compagni di sventura.

Vicino alle coste africane, al largo delle coste della Nigeria, intanto, incrociavano diverse navi inglesi, portoghesi, olandesi, perlopiù bastimenti commerciali ma anche molte navi negriere. In molti casi, queste ultime, dovevano agire di nascosto, mascherandosi da normali navi commerciali ma è anche vero che il traffico degli schiavi spesso era incentivato da molte nazioni europee le quali, se così si può dire, chiudevano un occhio di fronte al traffico di esseri umani. In quel tratto di mare si aggiravano però anche molte navi pirata, come quella del capitan Barbaccia, intrepido corsaro nemico giurato dei bastimenti spagnoli. Col viso rugoso segnato dai libecci e una benda sull’occhio, Barbaccia era un vero e proprio mito dal Mar delle Antille fino all’Oceano Indiano. Ma in quel tratto di mare si trovava anche, in quel periodo di estate tropicale, anche la Vendicatrice dei Mari, la nave del conte di Montecesso, la quale era adesso comandata da Pucette. Il conte era impegnato in certi suoi affari a Marsiglia e Pucette era diventata la capitana della nave. Nella notte, sola sulla plancia di comando del suo veliero, era avvolta da una brezza marina e i suoi capelli, spinti dal vento, sembravano una nera cometa notturna che si apriva e danzava fino oltre il ponte della nave; il suo volto, illuminato dalla luna, era una silenziosa magia che incantava tutti i membri dell’equipaggio. Chissà, forse neanche il conte di Montecesso lo aveva mai saputo, ma forse Pucette era proprio la Luna che era scesa sulla Terra per donare malinconiche carezze di sguardi agli esseri umani.

E in quella notte nera di un tropico triste, Ousmane venne caricato su una nave inglese per essere portato sulle coste della Florida per poi, chissà, finire la sua vita schiavo in una piantagione di cotone degli stati del sud. Il comandante del bastimento inglese, Lord Hamilton, era un nemico giurato del conte di Montecesso: egli depredava ricchezze e diamanti dell’Africa e li nascondeva, insieme agli schiavi, in un doppio fondo della nave. Il lord era in combutta con il re del Dahomey che, nonostante avesse chiuso il suo porto alle navi europee, faceva un’eccezione per il ricco inglese il quale, in cambio degli schiavi, gli assicurava l’impunità del suo regno. Il conte di Montecesso, spesso, aveva depredato la sua nave ridistribuendo le ricchezze agli stessi popoli ai quali erano state depredate. Ma adesso, oltre ai diamanti e all’oro, la nave inglese nascondeva nei suoi più profondi interstizi anche un carico di schiavi.

Però, l’oscurità di quella notte era rischiarata da una grandissima luna piena. Ousmane, prima di essere portato nella stiva, era riuscito a guardarla per l’ultima volta e adesso pensava ancora alla sua luce, bianca e dolce, silenziosa e benigna, mentre si trovava nel ventre infernale della nave, senza aria, senza acqua e cibo, attanagliato da un caldo soffocante. Da lontano, dal suo posto di comando sulla Vendicatrice dei Mari, Pucette vide il mercantile inglese e riconobbe che si trattava della nave di Lord Hamilton. Subito, ordinò di attaccarla: la Vendicatrice puntò dritta verso la nave inglese e la arpionò. Pucette, come volteggiando su un tappeto di luna, saltò a bordo sguainando la spada, seguita dalla sua fedele ciurma. Non fu difficile avere la meglio sulle guardie inglesi e così Lord Hamilton si ritrovò con le spalle al muro. Nulla, però, lasciava presagire che la sua nave avesse, quella volta, un carico particolarmente prezioso: i pirati, guardandosi intorno, trovarono le solite mercanzie e cibarie, in realtà di scarso valore, che un comunissimo mercantile inglese poteva prelevare sulle coste africane. Ma un sottilissimo raggio di luna, penetrando attraverso i vecchi legni dei ponti della nave, giunse fino agli occhi di Ousmane il quale, in una mossa disperata, allo stremo delle forze, riuscì a sollevarsi e a battere con un pugno sul basso soffitto di legno della sua prigione. Forse, quella sua amica luna di Timbuctù poteva aiutarlo.

Pucette, mentre si trovava sul ponte della nave inglese, sentì un rumore provenire da lontano, dal basso, un rumore che sembrava un rimbombo del mare profondo. E così, insospettitasi, ordinò ai suoi pirati di armarsi di asce e di fare un buco sull’impiantito di legno dei normali ponti della nave. Venne allo scoperto non solo il doppio fondo in cui si trovavano le pietre preziose ma anche quello in cui si trovavano gli schiavi: uomini e donne, ragazzi e ragazze in condizioni terrificanti, alcuni dei quali già moribondi, nonostante il viaggio fosse praticamente appena iniziato. E Ousmane, allora, vide Pucette e in lei riconobbe la luna di Timbuctù, quella luna che donava carezze di sguardi: ed ella era proprio bella come la luna, nel suo vestito di notte, la vendicatrice degli ultimi del mondo. Subito, Ousmane e gli altri vennero soccorsi e fatti salire sulla nave pirata: si doveva agire in fretta, stavolta non c’era tempo per pensare alle pietre preziose. Stavano infatti arrivando a gran velocità delle navi da guerra inglesi che si trovavano nei pressi, allertate con delle segnalazioni da Lord Hamilton. La Vendicatrice dei Mari iniziò una folle corsa verso le Canarie: là si trovava uno dei porti franchi in mano al conte di Montecesso dove non esistevano le leggi liberticide degli stati europei e dove era garantita libertà per tutti. Pucette e la sua ciurma, veloci come fulmini, sbarcarono gli schiavi, che ricevettero prontamente delle cure, e trasportarono a terra le pietre preziose.

Però, la Vendicatrice dei Mari non poteva fermarsi nel porto sicuro delle Canarie perché Pucette voleva raggiungere immediatamente Marsiglia, dove si trovava il conte: voleva assolutamente rivederlo, dopo tanto tempo. Nel viaggio verso la Francia, purtroppo, venne accerchiata dagli incrociatori inglesi e Pucette venne arrestata e rinchiusa nella prigione della Torre di Londra. Arrestata ingiustamente per essersi posta contro leggi disumane che legalizzano la tratta degli schiavi, la povera Pucette venne rinchiusa nella stanza più alta della Torre. La stessa luna in cielo non aveva più lo splendore di prima: intorno ad essa si era come formato un alone di tristezza che la velava di un tenue pianto. Pucette, sconfortata, piangeva da sola piena di malinconia e il suo pianto e la sua malinconia salirono fino alla luna. Allora, da Marsiglia, non vedendola arrivare e guardando il cielo notturno, il conte si accorse che doveva esserle successo qualcosa e forse fu proprio la luna (ma questo non lo sapremo mai) a dirgli dove ella si trovava prigioniera. Senza pensarci due volte, il conte organizzò una spedizione per liberarla, insieme ai suoi più fidi pirati. E quale fu la sorpresa di Pucette quando, ormai in preda al dolore e alla solitudine, vide un arpione che si era agganciato alla finestra della sua prigione e poi, subito dopo, vide il Dritto, il più abile pirata del conte, che segava le sbarre. Subito dopo apparve il conte in persona che la abbracciò e, come in un sogno, forse volando nella notte, la portò via dalla sua cella. I capelli di Pucette, sui quali si erano depositate, come tante perle, le sue lacrime, erano allora una nera cometa che nella notte danzava e avvolgeva il conte coi suoi riflessi lunari. E pieni di luce lunare, sognarono e volarono, e furono liberi. E la luna sorrise e di nuovo Pucette sorrise, perché la luna che splendeva là, lontana, su Timbuctu, non poteva permettere che migliaia di esseri umani fossero incatenati e venduti come schiavi. E il sorriso di Pucette, abbracciata al conte, voleva dire che lei, piratessa e capitana, avrebbe vegliato ancora perché ciò non succedesse.

Anche Ousmane, nel porto libero delle Canarie, guardava la luna e pensava a quella meravigliosa piratessa che lo aveva salvato. La luna ancora lo consolava ed ebbe nostalgia della sua Africa, del suo paese e della sua famiglia. Pensò che molti ancora avrebbero dovuto seguire quella terribile sorte, quella migrazione forzata in catene, lontano dal proprio paese e dai propri cari. Ma in quella luna c’era una speranza, c’era una forza di riscatto, c’era un sentimento di ribellione contro tutte le ingiustizie del mondo. Il ragazzo ricevette una carezza dalla sua luce, e sorrise.


Illustrazioni: il ritratto di Pucette è stato realizzato da Silvia Mannocci e il galeone da Fernando Miazon.

 

 

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