di Paolo Lago

Robert Kurz, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale, a cura di S. Cerea, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 210, € 18,00.

Già da diversi anni un gruppo di studiosi, dediti alla diffusione delle idee della critica radicale degli autori tedeschi raccolti attorno alle riviste “Exit” e “Krisis” (fra i quali si può ricordare non solo Robert Kurz ma anche Ernst Lohof o Norbert Trenkle), sta operando con passione per tradurre e diffondere in Italia diversi testi di tali autori. Samuele Cerea è uno di questi, il quale – assieme a Massimo Maggini e Riccardo Frola – da anni si dedica alla cura e traduzione delle opere di questi autori tedeschi. Non possiamo perciò che essergli grati (ed essere grati all’opera di diffusione portata avanti da questi appassionati, grazie anche alla rivista online “L’anatra di Vaucanson”) per la recente traduzione, per i tipi di Mimesis – editore presso il quale sono precedentemente usciti anche altri testi di tali autori – del saggio di Robert Kurz intitolato Il collasso della modernizzazione (Der Kollaps der Modernisierung), uscito in Germania nel 1991. Kurz è infatti un autore fondamentale per comprendere le contraddizioni della modernità e della contemporaneità, uno studioso che purtroppo è stato spesso trascurato o incompreso. Prematuramente scomparso nel 2012, Kurz è uno dei fondatori della rivista e del gruppo tedeschi “Krisis” e, successivamente, fautore della scissione del gruppo “Exit”. Fra le opere più significative degli autori del Gruppo Krisis è doveroso ricordare il Manifesto contro il lavoro, uscito nel 1999 e, nel 2003, in traduzione italiana per “DeriveApprodi” [su Carmilla].

La tesi centrale di questo libro di Robert Kurz di recente traduzione italiana è basata su una interpretazione della modernità come una specie di “Giano bifronte”, a due facce. Giano, infatti, era il dio “degli inizi” (nonché il dio della porta) della religione romana, raffigurato con due volti perché può guardare il passato e il futuro, l’interno e l’esterno. In un saggio uscito qualche anno fa per Mimesis (ma successivo a Il collasso della modernizzazione), Ragione sanguinaria, sempre tradotto dallo stesso Cerea, la razionalità illuministica del capitalismo borghese è interpretata come dispensatrice di irrazionalità e di violenza: «Il Capitalismo sta trionfando fino alla morte, sia sul piano materiale che su quello ideale. Quanto più brutalmente questa forma di riproduzione, trasfigurata a società globale, devasta il mondo, tanto più micidiali sono le ferite che si autoinfligge e tanto più seriamente essa mette a repentaglio la sua stessa esistenza».

Una interpretazione siffatta della modernità deve naturalmente molto agli studi di Horkheimer e Adorno e alla loro Dialettica dell’Illuminismo. Tuttavia, Kurz si spinge al di là delle teorie dei due filosofi, cercando, con sguardo critico, di ‘scavalcare’ il loro pensiero. In conclusione del volume, Kurz afferma infatti che non si tratta di realizzare una sorta di «uomo nuovo» «come pensavano Horkheimer e i suoi», ma di esercitare «una ragione pratica assolutamente immanente, che dovrà quindi limitarsi al superamento di questa specifica situazione storica, senza più rivendicare la pretesa assolutistica dell’ormai irreale “ragione universale” borghese-illuministica».

Ma procediamo con ordine. Il libro, scritto tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta (è uscito in Germania nel 1991), all’indomani del crollo del regime sovietico, vuole essere una lucida e spietata analisi della struttura sociale ed economica di questo regime, il quale altro non è, appunto, se non l’altra faccia dello statalismo occidentale e, successivamente, della società capitalistica. Kurz analizza abilmente il crollo economico del regime per dimostrare come, alla fine, la crisi investa l’intera società capitalistica e come lo stesso capitalismo, ormai, non sia solamente preda di una crisi passeggera, ma sia invece entrato in un processo inesorabile di autodistruzione e autodissolvimento. Lo strale critico dello studioso è dapprima scoccato contro il «lavoro astratto come macchina fine a se stessa». Il lavoro astratto (marxianamente, in contrapposizione al «lavoro concreto», un lavoro umano slegato dagli aspetti qualitativi e dall’utilità, unicamente volto alla realizzazione del valore di scambio), infatti, non fu una prerogativa esclusiva dell’ideologia borghese, ma caratterizzò anche il marxismo del movimento operaio. A questo proposito, Kurz ricorda anche una significativa frase di Thomas Mann il quale, riflettendo nei suoi Diari sulla composizione del suo romanzo La montagna incantata, osserva che «la differenza etica tra il capitalismo e il socialismo è irrilevante, poiché per entrambi il lavoro è il principio supremo, l’assoluto». Non c’è quindi da meravigliarsi «che nel socialismo reale ricompaiano tutte le categorie capitalistiche di base: salario, prezzo e profitto (guadagno aziendale)». Il modello concreto di capitalismo di stato, cui guarda l’Unione Sovietica, è la Germania di Bismarck, dalla quale deriva anche la militarizzazione della società. Contemporaneamente, un altro modello tenuto presente è il giacobinismo della rivoluzione francese, per cui – osserva Kurz – «la violenza eccezionale della modernizzazione borghese sovietica è dovuta al fatto che essa concentrò un’epoca bisecolare in un intervallo di tempo estremamente breve: mercantilismo e rivoluzione francese, processo di industrializzazione ed economia di guerra imperialista, tutto in un colpo solo». E, in questo processo, la Germania orientale fu «più sovietica dei sovietici»: «Nella Repubblica Democratica economia al passo dell’oca e socialismo da caserma diedero vita a un’evoluzione aberrante della modernizzazione capitalistica; in termini biologici, un vero e proprio “incubo darwiniano”».

La vera crisi per il socialismo sovietico (come il movimento operaio marxista, incapace di «percepire con chiarezza» la testa di Giano della modernità) iniziò dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’entrata in crisi del sistema capitalistico fordista e con l’introduzione di sempre nuovi processi di automazione, fino ai più recenti sviluppi della microelettronica e dell’informatica. La profonda irrazionalità del sistema capitalistico è stata profondamente introiettata dal socialismo reale e dalla sua «economia di guerra». Un produttore può produrre indifferentemente torte al cioccolato, ordigni nucleari o scavare buche per poi riempirle: tutto ciò non è importante, ciò che conta è solo l’astratto interesse monetario. Vincitore è perciò chi sperpera forza-lavoro e materiale manifestando la massima indifferenza per i propri prodotti, creando la maggior quantità possibile di valore. Specchio di questo sistema, nell’economia di Stato sovietica, è la costruzione di ‘cattedrali nel deserto’, di edifici grandiosi perfettamente inutili «la cui realizzazione si trascina indefinitamente nel tempo, come per le cattedrali medievali». Ma di questo non dobbiamo stupirci se anche nel sistema capitalistico – si potrebbe aggiungere – questa è la norma. Per ricordare esempi vicini a noi, basti citare la costruzioni di inutili infrastrutture la cui realizzazione si prolunga indefinitamente, come ad esempio la realizzazione della TAV in Val di Susa.

In questo calderone irrazionale, guardare all’Ovest, per il socialismo sovietico, si trattò soltanto di passare dalla padella alla brace: «La crisi dell’Est si mescola in maniera diabolica alla crisi dell’Ovest e in questo dilemma tra Scilla e Cariddi si evidenzia con cupa chiarezza come per il sistema produttore di merce non esista più alcuna via di scampo». Collassato una volta per sempre il vecchio sistema, quello nuovo si dimostra essere ancora più disumano: l’apertura all’esterno di questi mercati vedrà come unica conseguenza la distruzione delle industrie locali e la loro invasione da parte degli imprenditori occidentali. Mentre in Occidente si manifestava per la prima volta il limite di sfruttamento astratto di forza-lavoro e si determinava una crescente disoccupazione di massa, l’Unione Sovietica dovette «trasformare l’intera società in una macchina da lavoro astratto, governata in modo quasi militare, così da imporre la logica del capitale». Gli ex cittadini dell’est, aspirando quindi ad una nuova forma di ‘libertà’ economica e sociale, non possono fare altre che unirsi a quei soggetti del denaro senza denaro che compongono la gran parte della popolazione mondiale, costrette a vivere in un lazzaretto sociale che si sta estendendo su tutto il pianeta.

Il saggio di Kurz, in alcuni momenti, suona anche lucidamente e terribilmente profetico, quando leggiamo, ad esempio, una frase come questa: «Il “mondo unico”, finalmente realizzato e riconosciuto come tale, confinato nella forma feticistica del sistema della merce in dissolvimento sotto i colpi della crisi, getta la maschera, rivelando il volto orribile e terrorizzante di una guerra civile mondiale ai suoi inizi, senza più fronti ben definiti, ma solo esplosioni di violenza cieca ad ogni livello». Ed è doveroso riportare anche quest’altra riflessione, un po’ più lunga:

Ma le istituzioni, i poteri e i rappresentanti (o i portabandiera politici) di questo «mondo unico» non sembrano affatto intenzionati a mettere in discussione l’automatismo del processo del mercato mondiale. Essi invece vogliono imporre la conservazione di queste regole mediante l’ultima ratio della forza militare. Ora però non possono più legittimarsi mediante il vecchio conflitto sistemico con il presunto «impero del male». Devono intervenire, come forza di polizia internazionale, contro le rivolte della fame, le esplosioni di disperazione, le campagne di vendetta e gli attacchi terroristici della schiera dei miliardi di perdenti, ma anche contro tutte quelle forze e quelle figure, tutt’altro che filantropiche che, nella battaglia globale per la spartizione della sempre più esigua massa di valore, perseguendo interessi particolari, si spacceranno per vendicatori degli oppressi.

L’immagine tratteggiata è alla fine quella di una sorta di Impero romano in piena decadenza, con le sue frontiere settentrionali e orientali invase da migrazioni di popoli. All’interno di questo quadro (in cui tra l’altro, osserva Kurz, «il fondamentalismo islamico conquisterà il potere in altri paesi», pronto a devastare con armi anche atomiche le metropoli occidentali), delineato nel 1991 dal lucido studioso tedesco, hanno poco senso, quindi, nel 2018, le politiche xenofobe di un Trump o di un Salvini o dei movimenti e regimi destrorsi e xenofobi forti anche in Europa. Si tratta inequivocabilmente di una condizione reale che non si può modificare, tutto sta a prenderne lucidamente atto. È necessario, inoltre, prendere atto del fatto che i settori vincenti, in Occidente, non fanno altro che scavarsi la fossa da soli anche a causa del potenziale di distruzione ecologica del sistema della merce. La dialettica tra Stato e mercato, fra statalismo sovietico e mercato capitalista – che ha percorso le riflessioni più pungenti di questo saggio – non ha più ragione di essere: entrambi sono inesorabilmente falliti. E l’invito a una lucida presa di coscienza di questo stato di cose ci viene adesso da queste spietate e profetiche pagine di Robert Kurz.