di Maurizio Marrone

I criteri attraverso i quali siamo soliti definire l’eroe variano, ovviamente, in base al contesto storico, politico e narrativo all’interno del quale egli consuma le proprie gesta. Tuttavia rispettando la ricostruzione di un celebre manuale di sceneggiatura scritto da Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe, egli, da Ulisse sino all’ultimo dei supereroi Marvel, per potersi definire tale, deve intraprendere un viaggio nel corso del quale abbandona un orizzonte di riferimento noto (il mondo ordinario) alla volta di un universo sconosciuto e minaccioso (il mondo straordinario). Molto spesso, a nostro avviso, questo errare iniziatico è scandito dal complicato rapporto che l‘eroe intrattiene con la coscienza di sé e con la conoscenza, ovvero con il compimento della propria soggettività. Eppure, in questo sterminato campionario che attinge alla radice stessa del mythos e nel quale Edipo e Luke Skywalker sono funzioni di una medesima struttura narrativa archetipica, l’eroe non sembra aver mai indossato i panni logori dello zombie. E questo perché, seguendo l’interpretazione che Rocco Ronchi elabora della mitologia zombie in un bel libro dal titolo Zombie Outbreak 1, il living dead, il non morto, essendo pura massa informe e priva di mondo, non può mai essere soggetto.

L’origine sociologica del mito zombie è indubbia e se ne trova traccia per la prima volta in The Magic Island2, un libro-reportage del 1929 di William Seabrook. Questa opera, a sua volta, ispirerà il primo zombie movie della storia del cinema, vale a dire White Zombie di Victor Halperin (1932). Secondo la ricostruzione di Seabrook, ripresa poi liberamene da Halperin nel film, gli zombie sono operai agricoli haitiani sfruttati e sottopagati che lavorano la canna da zucchero nei campi e azionano le presse di una gigantesca fabbrica americana chiamata Hasco (Haitian-American Sugar Company). Grazie a una droga particolare, combinata con alcuni riti magici della tradizione vodoo, si provoca in un soggetto una condizione di morte apparente, al risveglio dalla quale, egli si trova in uno stato di coscienza dormiente. In questo modo egli lavora senza nutrirsi e, soprattutto, senza sentire la fatica. La cornice entro la quale nasce e prende forma il primo zombie movie della storia del cinema, quindi, è la fabbrica e all’origine del mito dei non-morti agiscono le categorie di sfruttamento, lavoro salariato, proletarizzazione delle masse contadine e tecnicizzazione della produzione. Lo zombie in sostanza, secondo Ronchi, proviene dal mondo del lavoro ed è un distillato esemplare della nozione marxiana di lavoro astratto. La figura dello zombie, tuttavia, abbandonerà progressivamente il modello haitiano, per acquisire la sua nuova e definitiva fisionomia di living dead, nei film di Romero e in tutta la narrazione post-romeriana. La metamorfosi è notevole: da meno che schiavo a cannibale insaziabile, da pura forza lavoro a compulsione cieca verso quel godimento che, allo zombie haitiano, è precluso per definizione. Sembrerebbe un cambio radicale di paradigma, ma secondo Ronchi, si tratta della medesima metafora che adatta se stessa al mutamento di forma del capitalismo stesso, al suo slittare verso il piano del consumo coatto: “Il proletario insorto che rivendica il proprio diritto a godere dei beni prodotti dalla società industriale, è allora il living dead generato (come scarto) dall’economia politica borghese. Il proletario è l’onkos che minaccia il corpo sociale borghese…”3. Onkos (tra i cui significati troviamo quello di “massa”) è un termine che Platone utilizza nel Parmenide come sinonimo di plethos apeiron e sta a indicare l’infinita molteplicità acefala che residua quando i molti perdono il loro rapporto con l’uno; è il nome di un molteplice senza unità, di una massa senza individui. Lo zombie non esiste mai al singolare; gli zombie esistono sempre come gruppo informe che si diffonde come una massa tumorale minacciando il corpo sano della società. Secondo questa interpretazione, quindi, il non-morto non ha alcuna coscienza di sé, dell’altro e del mondo. Egli rappresenta la contraddizione in atto della coscienza e non può mai, per sua stessa natura, vestire i panni dell’eroe.

Esiste tuttavia almeno un esempio in cui questo paradigma viene sovvertito in maniera sorprendentemente radicale: si tratta di un romanzo del 2015 dal titolo La ragazza che sapeva troppo 4. La protagonista è una bambina di nome Melanie che scopriamo essere una living dead di seconda generazione, nata da una madre già infetta. Melanie ha sviluppato col batterio che trasforma gli esseri umani in zombie cannibali (nel romanzo vengono chiamati hungries) un rapporto simbiotico e questo equilibrio coatto preserva la sua coscienza dall’annullamento totale. Melanie, seppur in una forma inedita, è individuo e non onkos. Inizialmente vive segregata in una prigione dove le insegnano a leggere e scrivere per studiarne le reazioni neuro cerebrali e dove una scienziata è pronta a vivisezionare il suo cervello nella disperata ricerca di un vaccino. La bambina è assetata di sapere, conosce la mitologia greca e adora la sua insegnante, ma è totalmente ignara di sé; ancora non sa, infatti, che la sua natura più profonda è dominata da una fame atavica capace di trasformarla in una belva feroce ogni qual volta percepisce l’odore della carne viva. Non sa di essere una hungry. Lo scopre quando la prigione viene attaccata e lei, per salvare la sua insegnante, uccide a morsi un aggressore. Scopre di essere una hungry, ma scopre anche che, rispetto agli altri hungries, è diversa. Perché lei non è puro appetito cannibale; lei è una cosa che pensa, che ha coscienza di sé, del contesto in cui è inserita, e intuisce che questa distinzione originaria rende possibili tutte le altre. In primo luogo la possibilità di scegliere. La domanda su se stessa – che cosa sono – inaugura, quindi, un vero e proprio viaggio di formazione attraverso l’esperienza del mondo che arricchisce l’esperienza di sé e viceversa. Un viaggio durante il quale, gradualmente, impara a controllare il suo appetito e a convivere con gli esseri umani tra le rovine di una civiltà ormai prossima alla fine. Quando però scopre che esistono gruppi autosufficienti di bambini come lei che, anche se in forma pre-linguistica e selvaggia, si sono comunque organizzati in piccole comunità con regole e gerarchie precise, Melanie capisce che il suo viaggio è giunto al temine. Dà fuoco a un arbusto le cui spore, diffondendosi per via aerea, stermineranno l’umanità. Salva solo la sua insegnante che, relegata per sempre in ambiente stagno, insegnerà a leggere e scrivere agli altri bambini come lei.
Come in gran parte della narrazione zombie anche ne La ragazza che sapeva troppo sembra esservi un evidente riferimento alla dialettica servo-padrone di matrice hegeliana: l’onkos, la massa acefala, in qualche modo si evolve acquistando coscienza di sé e, attraverso un vero e proprio processo rivoluzionario, annienta il padrone che, nella figura dell’unica sopravvissuta (l’insegnante), diventa schiavo a sua volta. Si potrebbe però azzardare un’interpretazione ancor più politica dell’epilogo del romanzo: Melanie percorre un cammino eroico progressivo e graduale che le fa acquisire una coscienza individuale come prodromica e propedeutica al raggiungimento di una vera e propria coscienza di classe, quasi in senso lukacsiano; da qui si procede poi alla fondazione di una nuova comunità politica e di un nuovo corpo sociale. Quando Melanie capisce che esiste un gruppo di hungries identici a lei, infatti, elabora in pochissimo tempo la coscienza degli interessi di questo gruppo e il gesto di dar fuoco agli sporangi è il precipitato politico-rivoluzionario di tale elaborazione: spazzando via l’umanità residua, Melanie interpreta e porta a compimento la missione storica della nuova “classe” cui ha scoperto di appartenere.

Rispettando la linea interpretativa sin qui tracciata è possibile individuare una categoria esemplare del panorama geopolitico contemporaneo che sembra trovarsi in bilico proprio tra la funzione dello zombie e quella dell’eroe: la categoria del migrante. A un primo sguardo, infatti, si potrebbe pensare alla massa dei migranti come a uno scarto, un residuo che, nella forma dell’abbandono del mondo ordinario, si ribella al sistema che l’ha generato (o quanto meno tenta di sfuggirvi) e, come organismo ancora indistinto (onkos), ne aggredisce il corpo vivo. La disperazione, ad esempio, è un tratto inequivocabile che accomuna l’appetito insaziabile del living dead e la fame di benessere, o semplicemente di vita, che spinge molti migranti alla fuga; come gli zombie, per altro verso, anche i migranti non sembrano mai esistere al singolare. Le definizioni che li concernono sono sempre e solo articolazioni astratte di un’identica funzione di disturbo che minaccia la presunta solidità del mondo globale eretto a sistema. A ben guardare, tuttavia, la visione del migrante come parte inconsapevole di un organismo indistinto, che agisce come una massa tumorale e accerchia le cellule sane del corpo sociale, è frutto di una lettura auto assolutoria che, ex-post, il sistema regala a se stesso. La spersonalizzazione e la riduzione dell’uno al molteplice informe ci mette al riparo dall’orrore perché ci rende ciechi. Ci impedisce di vedere i disperati che arrivano sulle nostre coste, ma soprattutto quelli che non ci arrivano, annegando in mare o essendo venduti come schiavi in Libia: individui che facevano parte di una comunità, avevano un nome, una storia, delle relazioni sociali, un passato e, solo a volte, un futuro.
Forse dovremmo cominciare a pensare a ciascuno di loro come a un nuovo eroe che intraprende il suo viaggio proprio come se fosse Melanie: costretto a farlo. Intrappolato suo malgrado in un racconto che lo vorrebbe onkos, senza storia e senza volto, eppur capace attraverso la coscienza di sé e dell’altro di varcare la soglia del mondo straordinario e di ricostituire, magari insieme a noi, passo dopo passo, il perimetro di una comunità possibile.

[Il tema dell’eroe è già stato affrontato su Carmilla da Luca Cangianti, Fabio Ciabatti (qui e qui), Mazzino Montinari, Maurizio MarroneGabriele Guerra e Pierpaolo Ciccarelli]


  1. Cfr. Rocco Ronchi, Zombie outbreak. La filosofia e i morti viventi, Textus, 2015. 

  2. Cfr. William Seabrook, The Magic Island, Geroge G. Harrap & Co., 1929. 

  3. Cfr. Rocco Ronchi, cit., p.49. 

  4. Cfr. M.R. Carey, La Ragazza che sapeva troppo, Newton Compton, 2015. Dal libro è stato poi tratto un film dal titolo omonimo, per la regia di Colm McCarthy, uscito in Italia nel 2017. 

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