di Paolo Lago

Francesca Tuscano, Thalassa, Mimesis, Milano-Udine, 2015, pp. 95, € 10,00

Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili.
Osip Mandel’štam

Le poesie di Francesca Tuscano raccolte in Thalassa, uscite nel 2015 nella collana Hebenon di Mimesis, si trasformano in tante frecce scagliate contro ogni potere, fatte di corpi, mani, volti, alberi, foglie, paesaggi. In esse è presente un continuo anelito anarchico alla libertà, una libertà da conquistarsi a tutti i costi, per mezzo di parole che divengono prepotentemente un corpo che deve essere esposto e – parafrasando un celebre verso di Pasolini, autore molto amato da Tuscano – «gettato nella lotta».

Una delle prime poesie della raccolta, che ad essa dà il nome, Thalassa («mare» in greco), esprime l’idea del mare come un «rientrare all’origine del silenzio», «un feto nel feto» (p. 9), quasi un richiamo a Thalassa di Ferenczi o al «feto adulto» di Pasolini che si aggira fra le rovine del «Dopostoria», perché «più ad est, nelle terre della devastazione, la vita ha smesso di essere / storia» (ibid.). L’immagine del mare diviene anche simbolo di libertà per «ascoltare le palme unite che stringono la cosa comune». La sezione forse più ‘civile’ della raccolta si intitola infatti La cosa comune, ed è composta da poesie lanciate come strali contro l’ingiustizia delle galere e di qualsiasi vincolo imposto dal potere. La prima poesia della raccolta è dedicata «a Franca e Antonio», cioè a Franca Salerno, arrestata nel 1975 con l’accusa di appartenenza ai NAP, incinta e picchiata dalla polizia al momento dell’arresto. Il figlio Antonio, nato in carcere, è poi stato allontanato dalla madre fino alla sua scarcerazione. La parola poetica chiede scusa di fronte all’ingiustizia universale del carcere e prova sensi di colpa per non aver conosciuto prima la dolorosa vicenda di questa madre e di questo figlio, («Ma l’avere ignorato/le vostre vite, /mi fa meno colpevole/dei vostri / carnefici?», p. 27). La poesia ‘civile’ di Francesca Tuscano chiede quindi, in primis, un ritorno ad una condizione più umana, ad un “restare umani” nonostante ogni ottundimento provocato da cinismo e violenza che possiamo incontrare nella vita quotidiana. Poesia ‘civile’ vuol dire anche scagliarsi contro certi ‘falsi’ poeti che lo sono semplicemente per moda o per convenienza: «E lascia agli altri, che si dicono Poeti, / la falsa merda delle signore travestite, / che ondeggiano su ipocriti tacchi che schiacciano occhi. / Tu vieni dalla terra delle labbra perfette, / dei capelli di pietra, delle orchidee di sangue. / Tu sai, nel silenzio del fiume, il senso dell’oltraggio. Altri si credano degni dei coltelli che tagliano parole» (Ipocrisia dell’oltraggio, p. 37). Perché, in fin dei conti, «la realtà non si dice. / È l’ora di contare i calli delle mani. / Ma voi quanti ne avete, poeti-cimici?» (Leucò, p. 59).

E allora la poesia si trasforma in polemica letteraria, difendendo un’idea di letteratura libera e antiautoritaria, sciolta da vincoli di sudditanza e di mode passeggere. Difendere una letteratura di questo tipo vuol dire anche difendere le proprie idee e le proprie passioni, e di passioni letterarie ce ne sono tante nella poesia di Francesca Tuscano. A cominciare dal già citato Pasolini, per approdare poi alla letteratura russa (la poetessa è infatti studiosa di cultura e letteratura russa), estremamente presente in Thalassa, sotto i nomi di Dostoevskij, Tolstoj, Chlebnikov, Propp, Majakovskij, Bulgakov.

Ogni immagine sia letteraria, sia legata alla indignazione civile, nella poesia di Tuscano, si trasforma in corpo. Corpo sono allora anche i paesaggi, le pitture campestri che la poetessa ci offre, e corpo è anche il sole che scalda o la notte che incupisce, i versi degli uccelli e degli animali, il fruscio delle piante, la pioggia o la nebbia. Emblematica, in questo senso, appare Leucò (nel cui titolo è possibile scorgere un’eco dei pavesiani Dialoghi con Leucò), in cui la poetessa si siede «accanto al grido del corvo», mentre cade «una pioggia obliqua» e «là dove le nebbie s’acquietano, / volano le cornacchie senza orizzonte, all’ombra del grido. […] Le nebbie si alzano come un incendio. / si contano ad uno ad uno gli aghi dei pini» (p. 57). Lo stesso avvicendarsi delle stagioni possiede una valenza profondamente corporea perché il corpo, come già osservato, è presente nei più profondi interstizi della parola; perché, in definitiva, anche la poesia di Tuscano appare come una propaggine di quella “letteratura carnevalizzata” che Michail Bachtin fa risalire all’antica satira menippea e intravede soprattutto nell’opera di Dostoevskij, una letteratura attraversata da tratti caratterizzanti profondamente legati alla sfera del corpo. Ad esempio, l’autunno irrompe all’improvviso come un evento corporeo «che nasce dalla morte dei tronchi, e le foglie / dell’olmo seccate dal cancro» (l’immagine dell’«olmo seccato dal cancro» torna a più riprese nelle poesie), mentre la stessa nebbia, come un corpo, «spingeva alle spalle, accecata / da fumi più densi, e rumori / che il grido del corvo annunciava» (p. 41). La morte, infine, come estremo evento corporeo, è molto frequente nelle volute di queste parole poetiche, fino nelle sue più violente immagini che si trasformano in «eleganza»: «I buoni propositi non possiedono l’eleganza / del cadavere, esposto nella fossa scoperta. / La vergogna non salda il corpo nudo al silenzio. / Lo sputo si è fatto mare, putridamente vuoto» (Lontano, p. 39). La parola poetica erompe cristallina come stagione nuova che porta la vita e la morte, ed è corpo esposto nella sua fisicità più disarmante e violenta.

Ogni parola poetica di Francesca Tuscano è un’arma civile e non violenta contro i ponti eretti dal potere e dalle sue inique leggi: perché, come leggiamo in una frase di Guy Debord tratta da Urla in favore di Sade, posta in esergo a una precedente raccolta poetica di Tuscano, Gli stagni di Mosca, «eravamo pronti a far saltare tutti i ponti, ma i ponti ci han fatto difetto».

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