di Armando Lancellotti

cover-bordoni-immaginare-futuroCarlo Bordoni, a cura di, Immaginare il futuro. La società di domani vista dagli intellettuali di oggi, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 180, € 16,00

Nella collana Eterotopie, l’editore Mimesis pubblica questo volume in cui il curatore, Carlo Bordoni, raccoglie ed assembla le risposte date da ventiquattro intellettuali (filosofi, sociologi, storici, archeologi, scienziati, psicologi, giuristi, letterati, antropologi, politologi) alla domanda: Come immagini la società di domani?

Nell’Introduzione è lo stesso Carlo Bordoni, sociologo e giornalista, ad argomentare le ragioni della formulazione del quesito, che muovono dalle crescenti e sempre più diffusamente percepite difficoltà e paure odierne di pensare, immaginare, progettare il tempo futuro. La società nel suo insieme ed ogni singolo individuo per la propria parte vivono a capo chino, con lo sguardo rivolto ad un angusto presente, come timorosi di guardare davanti a sé o impossibilitati a farlo per la miopia di un occhio per cui la linea dell’orizzonte è così lontana da risultare sfocata ed indefinita.

È alla cultura allora che si richiede di diradare le nebbie, di tracciare e definire i contorni delle cose, immaginando la società del futuro, prossimo o remoto ed è uno sforzo predittivo ed immaginativo non facile a compiersi nell’epoca di quella post-modernità che sembra aver mortificato ed inibito le moderne speranze/velleità di leggere e comprendere in continuità il passato ed il presente e di indirizzare/immaginare il futuro; non facile – scrive Bordoni – per «lo spirito odierno, permeato d’incertezze, che spinge ad aggrapparsi al presente e a farne una nicchia di sopravvivenza, di cui si conoscono almeno i contorni e le criticità» (p. 9). Il presente critico e problematico impaurisce e preoccupa, ma il futuro – osserva l’autore – indefinibile, inafferrabile, insomma ignoto, sembra atterrirci e immobilizzarci con il raggelante sentimento dell’angoscia oppure ci sprofonda nella più rassicurante, ma sterile, nostalgia del passato.

Dalle opinioni raccolte in questo volume risulta evidente come non solo nella percezione comune, ma anche sul piano dell’immaginario colto oggi prevalgano le letture in negativo del futuro che ci attende, visioni talvolta catastrofiche, che «richiamano gli echi delle apocalissi medievali che predicavano la fine del mondo se gli uomini non si fossero pentiti dei loro peccati e non avessero seguito gli insegnamenti della religione» (p. 15). Ma al posto del pentimento del peccatore, oggi si richiederebbe il «ravvedimento dei sistemi politici e dei governi che non si preoccupano dell’esaurimento delle risorse e del degrado del pianeta. […] La differenza è però evidente: allora la minaccia della fine del mondo era strumentale, serviva a controllare il comportamento delle moltitudini in assenza di un forte potere sovrano, lo Stato-nazione. Adesso la minaccia è concreta, fondata e quantificabile. Più che una maledizione, è una denuncia pubblica al fine di risvegliare le coscienze e spingere a prendere provvedimenti prima che sia troppo tardi» (p.15).

Il tempo, la storia, il loro senso costituiscono una materia complessa ed opaca che spesso la filosofia si è sforzata di mettere a tema e per questo iniziamo la presentazione di alcuni dei tanti contributi raccolti da Carlo Bordoni proprio da un filosofo, Remo Bodei, che muove da un assunto fondamentale: l’idea di una storia orientata da una logica intrinseca che la guida appare ormai tramontata definitivamente; abbiamo dovuto rinunciare ad essa e scivolare dal piano di una Storia a quello di molteplici particolari storie che faticano a rientrare in un quadro comune di destini interconnessi. La prospettiva escatologica o comunque variamente finalistica del tempo storico che aveva spronato e sostenuto la progettualità umana nel corso dei secoli ha lasciato il posto ad una storia “invertebrata”, di cui si dimentica la provenienza e si ignora la destinazione.

Tre – ritiene Bodei – sono le conseguenze immediate di questa situazione i cui effetti a lungo termine ancora non sono del tutto evidenti. In primo luogo, la difficoltà odierna di rapportarsi al futuro secondo una modalità proiettiva, che sia in grado di collocarvi traguardi da raggiungere. Ne consegue che la prospettiva della nostra attesa viene a tal punto ridotta da risultare tutta schiacciata sul presente, ma un presente immediato e puntuale, o poco più, che fatica a costruire relazioni con un tempo che lo trascenda. Viene meno la possibilità di pensare ad un riscatto prossimo di qualsivoglia specie – il progresso, la libertà, la società senza classi – e questo alimenta l’indifferenza, la rassegnazione o induce all’angoscia. Ma produce anche qualcosa di peggiore: l’assolutizzazione del presente, un presente senza futuro che induce all’opportunismo predatorio, proprio di uomini e società, sistemi economici e politici che non sono più in grado di «preoccuparsi di quel che avverrà nell’avvenire non immediato» (p. 33).

In secondo luogo, lo sbriciolamento di aspirazioni e progetti collettivi, pubblici ed universalistici, che dal secolo dei Lumi in poi avevano tracciato l’orizzonte di senso dell’uomo in Occidente, ha dato spazio ad aspettative sempre più private e quindi particolaristiche ed atomizzate, ad una privatizzazione del futuro che si trasforma nella «fabbricazione di utopie su misura, fatte in casa» (p. 33). In terzo luogo, sia il pensiero politico sia la sua prassi non sono più in grado di proporsi come strumenti di ideazione e realizzazione di traguardi venturi, prossimi o remoti e finiscono per essere imprigionati nel ristretto spazio amministrativo del presente contingente.

Conclude pertanto Bodei che il «presente è sguarnito in quanto il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento, è diventato debole. […] Ora, il cospicuo abbassamento dell’orizzonte temporale rappresenta l’elemento più macroscopico ed insieme tra i meno indagati degli atteggiamenti socialmente diffusi. Uno dei risultati è che lo sguardo in avanti verso il futuro — che aveva preso il sopravvento su quello verso l’alto — tende di nuovo a restringersi, permettendo a quest’ultimo di risollevarsi parzialmente» (p. 33).

L’arroccamento nella cittadella fortificata del presente per fuggire da un futuro che ci terrorizza è – secondo Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma – il nostro odierno atteggiamento verso il tempo e l’esistenza. Seguendo concetti e stilemi di pensiero heideggeriani, Di Cesare fissa il mal-essere attuale «nella chiusura dell’avvenire» (p. 61), in quanto “l’aspettare” (erwarten) ha sostanzialmente sostituito “l’attendere” (warten) come modalità di rapportarsi al futuro. “L’aspettativa” riguarda qualcosa di conosciuto, programmato, immaginato che, pertanto, induce l’uomo al calcolo, alla previsione, alla proiezione statistica, nell’estremo tentativo di estendere il controllo anche sul tempo, sul futuro per renderlo anticipatamente familiare, per disinnescarne la carica di potenziale inquietudine. «Il dominio del futuro è l’aspirazione ultima, il contrassegno e il sigillo della nostra epoca. Quanto più il futuro ci terrorizza, tanto più vogliamo dominarlo. In una vertigine senza fine, dove si moltiplicano analisi, misurazioni, sondaggi, previsioni» (p. 62).

“L’attesa” invece riguarda qualcosa di inaspettato, di non calcolabile, contempla l’alterità, l’eterogeneità dell’imprevedibile; l’attesa è apertura dell’avvenire. Abbandonarsi all’attesa vuol dire aprirsi all’avvenire. «Nell’attesa di ciò che viene, e avviene […] l’apertura non è preclusa e il futuro si rivela perciò a-venire, tempo che porta con sé la possibilità dell’impossibile. Nell’avvenire aperto dell’attesa si mantiene l’eterogeneità dell’evento che interrompe il presente, lo oltrepassa, eccedendo ogni estremo, superando ogni éschaton» (p. 62).
Pare essere proprio l’attuale incapacità di attendere il tempo a-venire che ci induce a rifugiarci nella cittadella fortificata del presente assediata dai fantasmi di un futuro che, disorientati ed impauriti, aspettiamo.

Zygmunt Bauman ritiene che se prevedere il futuro è operazione di per sé difficile, a maggior ragione lo è oggi, in un’epoca in cui si moltiplicano gli «eventi che testimoniano l’assenza di una logica di sviluppo nella condizione umana e quindi anche di conseguenza nelle imprese umane» (p. 25). Le società contemporanee si trovano nella condizione di non essere più in grado di concepire le forme del proprio futuro e i modelli del proprio sviluppo, in particolare a causa del fatto che è venuta meno la fiducia riposta nelle principali «agenzie di azione collettiva – i partiti politici, i parlamenti, il governo – di riorganizzare/riformare e mantenere le loro promesse» (p. 26).
A monte di questa inettitudine di istituzioni ed organi socio-politici, il sociologo polacco colloca la separazione attualmente prodottasi tra potere e politica, «tra il potere (la possibilità di fare cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose devono essere fatte)» (p. 26); una divergenza che a sua volta è conseguenza della globalizzazione in atto, che ha investito il potere, ormai globalizzato, ma non la politica. «La maggior parte dei poteri epocali», scrive Bauman, «che determinano la condizione e la capacità umana di agire in modo efficace sono già sul globale, sfidando il principio della sovranità territoriale degli organismi politici – mentre gli attuali organismi politici, le cui competenze sono racchiuse entro i confini di uno stato territoriale, rimangono confinati a livello locale come un centinaio di anni fa. I poteri globalizzati si trovano oltre la portata delle attuali istituzioni politiche. Ci sono poteri esenti dal controllo politico, a fronte di una politica spogliata di gran parte del suo antico potere» (p. 26-27).

In assenza di strumenti socio-politici adeguati a poteri globalizzati, l’attuale condizione degli uomini, considerati individualmente o collettivamente, è del tutto simile – sostiene Bauman con una immagine oltremodo efficace – a quella del plancton: siamo come organismi acquatici, sospesi in balia delle correnti, per i quali non è ragionevolmente possibile prevedere alcuna direzione di spostamento.

Sul piano dell’analisi economica dell’odierno capitalismo globalizzato si sviluppa il ragionamento di un altro sociologo, Wolfgang Streeck, docente dell’Università di Colonia, che vede le società occidentali avviate a proseguire nei prossimi decenni un trend complessivo di declino sociale che già da anni si manifesta nelle forme della disuguaglianza crescente, della stagnazione economica, dell’aumento dell’insicurezza e della frammentazione politica. Si tratta di un piano inclinato lungo il quale la società contemporanea sta precipitando con accelerazione crescente e senza che si intravedano possibilità concrete di frenare tale corsa rovinosa. Questo processo ha «a che fare con la rapida espansione dell’economia capitalista su scala globale. Vale a dire una scala che le regole della politica democratica e le altre forze contrarie al capitalismo non possono assolutamente arginare, benché in passato fossero riuscite nell’insieme a contenerle e a incorporarle» (p. 143).

Rifacendosi al pensiero di Karl Polanyi, Wolfgang Streeck ritiene che la globalizzazione abbia ormai impresso una forma “mercantile” all’intero mondo e abbia prodotto un’accelerazione mai vista prima alla mercificazione del lavoro, del denaro e della natura, che possono «essere trattate come merci pure e semplici solo a rischio di una catastrofe sociale. Si stanno cominciando a vederne i risultati: mercati del lavoro deregolamentati con successo e declino a livello globale delle condizioni di lavoro, a fronte di un rapido avanzamento del degrado ambientale e di sempre più gravi crisi finanziarie. Al centro del marciume sociale che vedo avanzare trovo l’economia capitalista liberata di ogni controllo, avendo sciolto il suo matrimonio forzato con la democrazia, che era stato consumato dopo la seconda guerra mondiale» (p. 144).

Pertanto, continua Streek, il neoliberismo mondializzato, liberatosi da ogni vincolo o condizionamento politico, ha fatto sì che oggi l’economia capitalista non sia più capace di sostenere la società capitalista e abbia prodotto disordine, ingovernabilità e ingiustizia dilaganti.
«L’ascesa inarrestabile della disuguaglianza nei paesi che una volta avevano fatto dell’uguaglianza uno dei loro obiettivi etici e politici più importanti, è solo un altro aspetto della crescente ingovernabilità del capitalismo globale» (p. 144), che conduce Streek a conclusioni desolanti riguardo l’immediato futuro che ci attende. «L’ordine sociale del momento è rappresentato da lavoratori precari trasformati in consumatori fiduciosi (Colin Crouch) per effetto di continue pressioni sociali generate dalla grande industria della pubblicità e dello spettacolo, alleata a uno sproporzionato settore finanziario. […] Gli immigrati, che in numero sempre maggiore forniscono alla classe media servizi privati a prezzi accessibili – in forza della sottomissione a un modello orientato al mercato e sempre meno in grado di rinunciarvi – saranno esclusi formalmente o di fatto dai diritti civili. Le classi medie, incantate da un individualismo meritocratico, essendo abituate dalla privatizzazione a difendersi e a pagare per sé, perderanno interesse per la politica. Ciò corrisponderà alla crescita del dominio tecnocratico sulla spesa pubblica da parte delle banche centrali e delle organizzazioni internazionali, imponendo ai governi l’austerità e il consolidamento per fare spazio al consumo privato e dare nuova fiducia ai mercati finanziari. La partecipazione politica diminuirà ancora di più tra il sottoproletariato, che non ha più nulla da aspettarsi dalla politica pubblica» (p. 145-146).

Questi qui considerati sono solo alcuni degli interventi che compongono l’interessante lavoro curato da Carlo Bordoni che fornisce un contributo apprezzabile allo sforzo odierno di pensare ed immaginare il futuro, in un contesto di incertezza e disorientamento crescenti ad ogni livello della vita sociale, ma anche con la consapevolezza che – come dice J.M.Keynes, da Bodei citato nel suo breve saggio – l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre.

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Il libro raccoglie saggi di: Marc Augé, Zygmunt Bauman, Remo Bodei, Edoardo Boncinelli, Valerio Castronovo, Vanni Codeluppi, Domenico De Masi, Donatella Di Cesare, Àgnes Heller, Giuseppe O. Longo, Michel Meffesoli, Patrizia Magli, Paolo Maria Mariano, Michel Meyer, Edgar Morin, Elga Nowotny, Alberto Oliverio, Telmo Pievani, Stefano Rodotà, Alessandro Scarsella, Denise Schmandt-Besserat, Wolfgamg Streeck, Keith Tester, Silvia Vegetti Finzi.