barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i parametri alla base delle diverse epoche culturali.

Occorre iniziare da una questione terminologica: il termine “contemporaneo” viene utilizzato dall’autore per evidenziare come la produzione narrativa trattata nel saggio si differenzi rispetto alle proposte proprie dell’epoca moderna. Altrove, Barilli propone un ampliamento della nozione di “postmoderno”, fino a renderlo paritetico al termine “contemporaneo”, estendendolo sino a farlo partire dal finire del Settecento. (Tutto sul postmoderno, 2013). Vale la pena, in questo caso, mantenere ancora il tradizionale ricorso al termine contemporaneo, come d’altra parte decide di fare lo stesso autore sin dal titolo del saggio.
La distinzione tra moderno e contemporaneo, sottolinea l’autore, risulta evidente se si prende in esame la rivoluzione epistemologica che porta a modalità totalmente nuove di concepire il comportamento umano nei confronti della realtà esterna. Ad un homo oeconomicus, caro alla modernità, in omologia al positivismo ed alle forme narrative proprie del realismo-naturalismo, succede un homo epistemologicus, intento ad indagare la sua soggettività profonda. All’analisi della produzione narrativa dell’homo oeconomicus, l’autore ha dedicato Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna (2003) e La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj (2010), all’attuale testo spetta di affrontare la produzione narrativa europea dell’homo epistemologicus.
L’attenzione rivolta agli eventi minimali del vissuto, alla corrente di coscienza in evidente omologia con l’elettromagnetismo dell’età contemporanea, sancisce la fine dell’esigenza moderna di orientare gli atti di coscienza verso finalità positive: “Succede allora che, nello statuto della narrativa contemporanea, quello che secondo la Poetica aristotelica sarebbe pur sempre il primo ingrediente, l’azione, la diegesi, il mito (…) fa un passo indietro, mentre prevale l’ethos, cioè appunto l’analisi coscienziale, con la conseguente esclusione che si possa raggiungere un esito finale”. Come avviene ai coetanei in ambito tecnico-scientifico, i narratori contemporanei possono tralasciare i “grandi” avvenimenti, differenziandosi così dalle modalità moderne.
Nell’introduzione, l’autore non manca di motivare diverse esclusioni eccellenti tanto tra i predecessori ed i coetanei degli autori analizzati, come ad esempio Gabriele D’Annunzio, Henry James, Joseph Conrad e Thomas Mann, quanto i limiti “in avanti”, oltre ai quali non si spinge la trattazione.

Tra gli autori passati in rassegna da Barilli, Anton Cechov risulta essere forse il più problematico da inserire nella compagine di narratori entrati a pieno titolo tra i fondatori della narrativa europea contemporanea. Più giovane di un paio di decenni rispetto agli altri protagonisti trattati dal testo, Cechov può essere considerato un autore di transizione che mantiene ancora qualche legame con le caratteristiche tipiche del moderno, come ad esempio la persistenza di tracce dell’universo pauperistico ottocentesco ma, al contempo, non manca di fare i conti con “questioni contemporanee” come la difficoltà di amare e di dar vita e mantenere rapporti di coppia. Barilli sostiene che mentre “l’amore spontaneo” rappresenta una dinamica psicologica tipica della stagione moderna del naturalismo, in ambito contemporaneo si assiste all’intervento di una sorta di “freno autocritico” che porta l’individuo ad indagarsi allo specchio: l’atto di amare diventa un’impervia scalata che sottopone ostacoli a ripetizione, soprattutto interni. A proposito della permanenza, nel russo, di questioni pauperistiche, occorre dire che, nei suoi racconti, egli si limita però ad indicare genericamente la causa degli ultimi, senza mai giungere ad una critica sociale esplicita e puntuale. I suoi personaggi possono anche lasciarsi andare ad un minimo di empatia per i deboli ma, dopo averlo fatto, si rifugiano nel dibattito interno, psicologico, in linea con le caratteristiche dell’homo epistemologicus, dell’età contemporanea: “l’impegno verso fini sociali può solo essere agitato, enunciato a livello programmatico, ma mai imbracciato come effettiva via da percorrere”. Sul versante teatrale, se Cechov può dirsi contemporaneo per l’abilità nell’analisi del vissuto psichico, dunque a livello contenutistico, molto meno può esserlo per questioni formali; il teatro cechoviano fatica a reggere il confronto con le grandi prove del teatro novecentesco, non raggiungendo mai, sostiene Barilli, i livelli pirandelliani, pur se, ad onor del vero, conseguiti dall’italiano successivamente alla scomparsa del russo.

Con tutti questi “limiti” che lo rendono, per alcuni aspetti, in bilico tra moderno e contemporaneo, il suo inserimento nel gruppo indagato, si rivela utile a Barilli per poter introdurre gradualmente il ben più innovativo James Joyce, a partire dall’analisi delle analogie e delle differenze tra i due. Non mancano, infatti, analogie tra gli scritti di Cechov e la prima opera in prosa di Joyce, Gente di Dublino. Sebbene l’Irlanda non conosca la servitù della gleba, e dunque l’irlandese, a differenza del collega russo, non sia tenuto a fare i conti con la tematica ottocentesca del pauperismo, se si confrontano i protagonisti, le somiglianze di certo non mancano. In Cechov domina un ceto medio composto da ex proprietari andati in malora ed eterni studenti ed, a ben guardare, tale mondo non è molto diverso da quello dei personaggi mediocri ad un passo dal fallimento, che si rifugiano nell’alcool, che popolano Gente di Dublino. Tanto il russo quanto l’irlandese si guardano bene dallo “sporcarsi le mani” con i grandi eventi delle rispettive terre; i due preferiscono non dare troppo rilievo a tale ambito. In linea con la logica della narrativa contemporanea, così come Cechov evita di battersi contro la burocrazia statale e per il riscatto delle classi subalterne appena uscite dalla servitù della gleba e Joyce si sottrae dal prendere parte alla battaglia per l’indipendenza contro gli inglesi, anche Marcel Proust si mostra refrattario a lasciarsi coinvolgere dall’affaire Dreyfus che scuote la Francia dell’epoca. In tutti tre i casi le grandi questioni vengono tenute sullo sfondo preferendo a queste l’indagine psichica dei personaggi o il perdersi nella narrazione dei dettagli. In fin dei conti i grandi eventi storici finiscono per essere abbassati al ragno di dettagli che, mestamente, prendono posto tra altri dettagli: sono presenti ma pari grado alle inezie. A tal proposito, sostiene l’autore, “L’homo oeconomicus, che dominava la scena dell’ottocentesco teatro ‘moderno’ non aveva tempo per concedersi questi spazi fuori rotta, non così il contemporaneo homo epistemologicus che sa bene come il qui e ora sia solo una provvisoria e momentanea cresta dell’onda, incalzata da altre onde passate e future che si succedono senza tregua”.

Mentre la logica dell’homo oeconomicus è di tipo selettivo, nell’Ulisse joyciano, coerentemente con la logica contemporanea dell’homo epistemologicus, si intende afferrare la totalità degli accadimenti. A tal proposito Barilli indica un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo William James, volto a dare il massimo rilievo alla nozione di flusso di coscienza in opposizione all’economicità moderna. La narrativa moderna impone una selezione rigorosa, volta a cogliere ed a dare rilievo soltanto agli elementi utili all’affermazione del singolo, al soddisfacimento dei suoi bisogni materiali, collocando in subordine gli effetti psicologici, da tutto ciò “deriva anche la necessità di costruire un andamento, una sequenza delle occasioni, dei passi da compiere, il che corrisponde a quanto viene definito usualmente coi termini della trama, del ‘mythos’ nell’accezione originale aristotelica”. Nella narrativa antieconomica contemporanea, pertanto, alla logica lineare e consecutiva ne subentra una a “gorgo”. Se nell’epistemologia di James si vuole che la totalità di sentimenti e percezioni si presenti qui e ora, in Henri Bergson, invece, viene introdotto “un asse verticale-diacronico”, come a dire che molte di quelle sensazioni, le epifanie joyciane, vengono immagazzinate in una sorta di inconscio freudiano dal quale possono essere recuperate “solo se sollecitate da qualche impressione rinvenibile nel qui ed ora”.

Proust, pur essendo un autore molto diverso da Joyce, vanta con esso alcuni elementi in comune. In linea con la cultura contemporanea che intende ricavare “fiumi di energia” anche dal frammento minimo di qualsiasi materia, entrambi si focalizzano sul materiale d’esperienza che meglio conoscono; Joyce insiste sul piccolo mondo di Dublino, mentre Proust sul mondo salottiero parigino. Così come Barilli individua un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo James, analogamente, riscontra un’omologia tra il pensiero di Bergson e la trama di idee su cui si basa la Recherche di Proust. Nell’ambito della medesima epistemologia contemporanea, volta a superare la logica selettiva e narratologica moderna, che raggiunge il culmine nel corso dell’Ottocento, le coppie James-Joyce e Bergson-Proust, rappresentano, secondo Barilli, due differenti procedure. La prima coppia adotta un criterio di “attualismo assoluto”, costretto, inevitabilmente, a fare i conti con una perdita del vissuto che può, però, essere richiamato. L’urgenza di questi recuperi induce Joyce a procedere per brevi attimi, adottando tecniche di registrazione che giungono a spezzare le frasi ed a sperimentare il ricorso alle onomatopee e le pratiche del cislinguismo finendo col negare, in definitiva, ogni possibilità diegetica. La via Bergson-Proust risulta decisamente differente. In James il dato irrilevante resta a premere nelle retrovie ma può riaffiorare nel presente, in Bergson il dato irrilevante affonda lungo l’asse verticale celandosi alla vista e lasciando il primo piano alle condotte abituali. In Bergson una parte della memoria involontaria, le sensazioni inutili ed antieconomiche, sottratta al controllo dell’intelligenza, si deposita in un sottofondo remoto, simile all’inconscio freudiano, mentre in primo piano, a livello orizzontale, domina una “memoria in atto” che fa corpo con i nostri gesti, che, nella scrittura proustiana si traduce nel ricorso a lunghi tratti di narrazione “simil-moderna”. Proust non ricorre alla registrazione diretta, prelinguistica, joyciana, egli struttura un’architettura narrativa complessa e labirintica pur parimenti antieconomica nel mirare alla riemersione di momenti di assoluta gratuità. Joyce, in linea con la logica di James, in funzione dell’immediatezza, deve ricorrere a testimoni, Proust, invece, alla meditazione individuale.

Ai citati narratori pienamente contemporanei, Joyce e Proust, il saggio aggiunge Virginia Woolf e Robert Musil. Nel, 1922, con l’uscita de La stanza di Jacob, si compie la svolta che porta la scrittrice ad entrare con la sua opera pienamente in ambito contemporaneo. La moltiplicazione dei soggetti percipenti permette alla Woolf di accumulare un’ampia massa di dati ove si mescolano elementi ambientali con altri di natura antropologica. Il contatto con Thomas Stearns Eliot risulta importante non solo per le suggestioni che ne riceve, ad esempio dal suo processo di ibridazione tra prosa narrativa e poesia ma, sostiene Barilli, anche per il collegamento, seppure indiretto, che la scrittrice finisce per avere con la produzione filosofica di Francis Herbert Bradley, grazie al fatto che questa era stata studiata da Eliot. Una filosofia che “predica una immersione totale nell’esperienza come in un bagno unificante, in cui spariscono i confini tra i soggetto e l’oggetto, i due momenti mescolano le loro acque in un tutto unico, che può essere una pienezza di dati o anche una notte oscura, comunque qualcosa di ultimativo e finale”.
A Musil tocca chiudere la rassegna degli autori trattati dal saggio ed, a differenza degli altri, egli è in effetti l’unico a stabilire un collegamento diretto con una delle figure fondamentali che segnano il passaggio dal moderno al contemporaneo; si tratta dell’epistemologo Ernst Mach. Musil, infatti, stende la sua tesi di dottorato proprio sulla produzione filosofica di Mach. In questo caso la presenza fissa e costante dell’oggetto lascia il posto ad uno sciame di frammenti. Musil ne deriva una concezione in cui oggetto e soggetto risultano inscindibili, essi diventano “funtivi di un’azione unica, collegati da un nesso relazionale”. In L’uomo senza qualità, del 1925, il protagonista dell’opera risulta essere, secondo la lettura barilliana, “il portatore privilegiato ed esemplare di ogni possibile concomitanza con la grande rivoluzione epistemologica di fine Ottocento”. Si giunge davvero ad un passo da una “puntuale applicazione dell’empiriocentrismo di Mach e, assieme ad esso, di ogni altra concezione fondata sul principio di indeterminazione, tale da ‘porre a casa’ l’universo e le sue fondamenta”.

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