di Luigi Franchi

ProspettiveQuella mattina all’aeroporto di Orio al Serio mi avevano accompagnato sia mia madre che mio padre. Anche se avevo già venticinque anni e due lauree in tasca, i miei genitori avevano voluto essere presenti alla mia partenza, come quel giorno di dieci anni prima, quando, da un piccolo paese della bassa bresciana, avevo compiuto il mio primo viaggio verso un liceo di Cremona, una città che all’epoca mi sembrava senza confini e che oggi, dopo esserci ritornato, invece, mi fa sorridere per la calma provinciale che la contraddistingue dalle grandi metropoli italiane.

All’epoca i miei genitori sapevano che prima o poi sarei ritornato. Cinque anni di liceo, cinque anni di Università, e poi il lavoro a casa. Questo era il loro sogno, come probabilmente quello di mille altre famiglie sparse per l’Italia.

Benché dall’esterno il rituale della separazione somigliasse a quelli precedenti, sia io che i miei genitori eravamo consapevoli che la situazione era del tutto differente. Mi bastava vedere l’intensità con la quale mia madre stringeva il fazzoletto che aveva tra le mani e rilevare l’incertezza nella voce di mio padre. Nessuno sapeva quando sarei tornato, io per primo. Ero in procinto di imbarcarmi per Londra, seguendo il sogno di molti altri miei coetanei di trovare un posto di lavoro che potesse restituire dignità ai vent’anni spesi sui libri con impegno, dedizione e sacrifici.

Una volta superati i controlli di sicurezza, mi misi in fila al gate e notai con un misto di gioia e rammarico le decine di giovani che mi facevano compagnia: da una parte potevo placare il dolore del distacco conoscendo nuove persone, creandomi per l’ennesima volta una famiglia temporanea per sfuggire alla malinconia di casa, dall’altra, invece, pensavo a cosa poteva essere andato storto in Italia se un numero così elevato di giovani si era trovato costretto a cercare fortuna altrove.

Mentre ero in coda feci conoscenza con diversi ragazzi e mi venne da pensare alle hostess e agli steward che lavorano in aeroporto tutti giorni come ai depositari dei segreti e delle aspirazioni di una generazione di migranti: ogni giorno, ogni mese, ogni anno c’è il ragazzo che parte per fare il lavapiatti, la ragazza che vuole imparare l’inglese, il ricercatore che deve muoversi perché la sua università non ha abbastanza fondi, i genitori anziani che non riescono più a sopportare la lontananza dei figli.

Di fronte a me, per esempio, c’era Ivo che, con un toppa della Lega Nord sullo zaino indossata come un distintivo, non finiva di incensare il corso di marketing a cui i genitori l’avevano iscritto. Perché, secondo lui, gli inglesi sarebbero stati contentissimi di accoglierlo nelle loro scuole prestigiose, ribaltando senza tanti problemi la logica padana che vuole ognuno padrone a casa sua e i parassiti a casa loro.

Dopo una fila estenuante venne finalmente il momento di salire sul volo: qui pensai di lamentarmi col mio vicino di tutta la paccottiglia che la compagnia aerea cercava di rifilarci, ma poi pensai che si trattava di fiato sprecato, perché non ci voleva un genio a capire che era inutile cercare di vendere una bottiglietta di acqua a cinque euro a chi ha già fatto fatica a comprarsi il biglietto per un viaggio low cost. Si beve prima di partire e dopo l’arrivo, così recita uno degli articoli del decalogo del viaggiatore squattrinato.

Durante la fase di volo c’era chi sonnecchiava, chi giocava a carte, chi era già in preda all’ansia per la nuova vita che si spalancava di fronte a lui. Qualche amante del paesaggio, nonostante il sole intenso, si ostinava a guardare fuori dal finestrino, con l’ambizione infantile di essere il primo a scorgere le bianche scogliere di Dover.

Questi ultimi, forse, furono gli unici ad accorgersi che il missile che aveva colpito il nostro aereo recava sul fianco la scritta “Ministero della difesa inglese”. Senza spargere tanto la voce, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania si erano messe d’accordo per porre fine all’immigrazione incontrollata dall’Italia. Non importava che i viaggiatori fossero in cerca di lavoro, del Nord o del Sud, sfaccendati o professionisti di fama internazionale. Per arginare il problema dell’invasione dall’Europa che non conta un cazzo serviva una scelta perentoria, e pazienza se il Canale della Manica sarebbe diventato uno dei cimiteri a cielo aperto più grande del pianeta, anni prima lo stesso destino era toccato al Mediterraneo e nessuno era sembrato porsi il problema. Di lì a poco sarebbero partiti altri razzi, col compito di distruggere tutti gli aeroporti italiani, in modo da risolvere il problema alla radice e in maniera definitiva.

Eravamo in molti su quell’aereo, ognuno con la propria storia personale, i propri sogni e le proprie paure. Le fiamme che hanno avvolto la fusoliera, però, non hanno fatto distinzioni, come coloro che i giorni successivi hanno brindato per la respinta dei barbari. Ma se siamo barbari, come si spiega la disperazione feroce che ci ha spinto a partire? Come capire la morte nel cuore di chi è rimasto indietro e non ci vedrà più tornare? Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e i visi amici, siete abbastanza umani da poter rispondere a queste domande?