del Collettivo Militant

LeggeTruffa

[Nel momento in cui una sciagurata modifica della legge elettorale sta per costringere i cittadini a scegliere in futuro tra due sole forze, PD e Forza Italia, ci sembra opportuno proporre due interventi sul tema della rappresentanza apparsi nel sito del collettivo Militant di Roma. Ciò naturalmente non implica una completa adesione della redazione di Carmilla, in cui convivono posizioni e sensibilità diverse. E’ però in sé molto positivo che vi sia chi è disposto a discutere, con intelligenza evidente, degli stravolgimenti che stanno investendo il sistema istituzionale italiano, per iniziativa di minoranze animate da progetti autoritari – in sintonia, a ben vedere, con l’autoritarismo ormai affermato a livello di Unione Europea. L’intero dibattito di Militant è leggibile qui]. (V.E.)

1.

Troppe volte citata, la “crisi della rappresentanza” sta trovando la propria soluzione storica nella scomparsa tout court di ogni sua forma concreta. In questi giorni tale dinamica ha subìto un’accelerazione notevole, sovrapponendo la discussione sulla rappresentanza politica a quella sindacale. Ambiti diversi ma unica direzione: così come immaginata e realizzata effettivamente in questo cinquantennio, la rappresentanza degli interessi di classe, siano essi politici o sindacali, dev’essere rimodellata. Discorso complesso, che abbraccia vari livelli d’analisi, e che però il ceto politico borghese sta risolvendo con l’accetta e in chiave autoritaria come difficilmente sperimentato nel corso di questo secolo. Addirittura durante i regimi fascisti, soprattutto quello italiano, l’autorità del potere aveva dovuto condividere un’architettura istituzionale che garantisse almeno una parvenza di rappresentanza ai vari interessi sociali di cui si componeva la società. Mussolini, infatti, nonostante la sua ovvia tendenza accentratrice, non riuscì né a sopprimere il parlamento, né a impedire la prolificazione di determinate camere d’interessi, volte tutte a rappresentare le molte facce del regime. E a esserne defenestrato proprio da un voto di sfiducia di una di queste.

Discorso lungo, e che però ci aiuta a comprendere a cosa stiamo andando incontro oggi, dopo la resa ideologica che il movimento di classe ha portato avanti su questo terreno. A forza di teorizzare contro ogni possibile rappresentanza, a ragionare sulla sua attuale crisi in vista di proposte credibili di nuova rappresentanza politica, e soprattutto comprensibili alla popolazione, oggi ci ritroviamo di fronte a due (contro)riforme reazionarie sostanzialmente in silenzio, senza argomenti validi dopo anni di attacco concentrico al concetto stesso di rappresentanza. Da una parte il palese processo politico diretto verso il presidenzialismo, la sottrazione di ogni potere effettivo alle camere parlamentari, l’accentramento del potere esecutivo e legislativo nelle mani di una sola carica, e cioè l’esponente politico vincitore delle elezioni, trasformato in “Presidente del Governo” e non più “Primo Ministro”. Dall’altra, il tentativo di Confindustria e dei sindacati confederali di impedire ogni forma di rappresentanza sindacale a chi non superi una determinata soglia di sbarramento e non sia già firmatario di precedenti accordi contrattuali.

Di riforma costituzionale volta a dare maggior potere al Presidente del Consiglio si parla da anni. Anche di riforma elettorale, strumento attraverso il quale si vorrebbe aggirare la forma di governo parlamentare esistente in Italia dando al primo ministro un ruolo che la costituzione non prevede. Ma la discussione inerente alla riforma elettorale ha tracimato ogni pudore. Qualsiasi riforma alla fine verrà approvata, questa renderà perfettamente superfluo il momento elettorale, visto che i voti non verranno più contati, ma pesati. Quelli destinati ai due partiti principali verranno prima conteggiati poi moltiplicati: a chi vince, anche di poco, anche di un voto, verrà elargito un premio di maggioranza che in confronto la legge truffa del 1953 era un invito a condividere il potere col PCI; quelli destinati a tutto il resto dell’offerta politica verranno cestinati: da una parte, chi non supererà una certa soglia (probabilmente il 5%), verrà escluso da ogni possibile rappresentanza nel parlamento; dall’altra, chi supererà tale soglia dovrà dividersi in maniera proporzionale il 40% dei seggi concessi, e da questi dovrà ulteriormente scartare gli eletti del partito arrivato secondo. In pratica, se il PD prendesse il 30% e il PDL il 29%, al PD andrebbero il 60% dei seggi; al PDL il 29%; il restante campo degli sfigati dovrebbero dividersi in maniera proporzionale quell’11% di seggi rimasti liberi. E’ solo un esempio, e magari la realtà si incaricherà ancora una volta di contraddire le ipotesi dei tecnici di governo. Ma è l’esempio più discusso sui giornali, e nessuno trova da dire qualcosa in merito. Nella nostra parte del campo, il silenzio più assoluto. Nel campo nemico, l’ipotesi è addirittura criticata per la sua certa dose d’imprevedibilità: nonostante in tale modo il risultato non solo potrà essere conosciuto la sera stessa del voto, ma probabilmente i giorni prima del voto, rendendo ulteriormente inutile ogni retorica elettorale, questo potrebbe non garantire la tanto agognata governabilità. Dunque, va ulteriormente raffinato, cioè impedito a variabili impazzite di rovinare l’esito previsto. Hai visto mai che il risultato il giorno dopo il voto non sia quello augurato dai “mercati” il giorno prima.

Stessa dinamica concerne in questi mesi la discussione intorno alla rappresentanza sindacale. Non a caso, sul tema si sono ritrovati tutti, dalla Confindustria alla FIOM; anche quel Landini che per qualcuno era il nuovo faro della sinistra. In sintesi, le uniche organizzazioni legalmente riconosciute a rappresentare i diritti dei lavoratori sono solo quelle firmatarie tale accordo (quello del 31 maggio 2013); oltretutto, “la rappresentanza viene determinata dalla media semplice delle percentuali relative dei voti nelle elezioni della RSU per i soli sindacati firmatari dell’accordo” [da Wikipedia]. Chi non si adegua non solo perde la possibilità di rappresentanza, ma anche la legalità. Infatti, per legge, i lavoratori devono adeguarsi agli accordi presi dai sindacati confederali, senza neanche poter legalmente scioperare e demandando a commissioni ispettrici la regolamentazione delle sanzioni. Tralasciamo gli aspetti economici e sociali di tale accordo, come la limitazione del diritto di sciopero, la dichiarazione, messa nero su bianco nell’accordo, della “tregua sociale” obbligatoria all’interno delle aziende, l’impossibilità, per chiunque non si senta rappresentato da CgilCislUil, di poter aderire ad altra formazione sindacale se prima non ha firmato tale accordo, ecc… e che possono essere sintetizzati dalla dichiarazione del vicepresidente di Confindustria per le relazioni industriali, Stefano Dolcetta: l’obiettivo a cui tendere è la prevenzione del conflitto. Per ora non possiamo non notare come la volontà esecutiva, anche in ambito sindacale, prevalga su qualsiasi discorso sul concetto di rappresentanza. E come, anche in quest’ambito come in quello politico, la spinta propulsiva parta proprio da quelle formazioni di centrosinistra che hanno funzioni di governo, si chiamino PD, CGIL o FIOM. Su questo, rimandiamo alle precise ed efficaci considerazioni di Senza Soste qui e qua.

La direzione è dunque tracciata. Alla crisi della rappresentanza si è risposto con una drastica riduzione della stessa, in ogni ambito della vita sociale organizzata, e nel silenzio più totale della sinistra antagonista. Dopo aver attaccato per anni il concetto stesso, sostituito di volta in volta con propositi di democrazia diretta, di democrazia telematica, di assemblearismo permanente, oggi ci ritroviamo tutti con meno potere di incidere sulle dinamiche di potere, proprio perché nessuna organizzazione politica ha la forza di rappresentare gli interessi di classe nei vari luoghi in cui questi vengono discussi. Per farla breve, invece di operare una critica sul modo di organizzare la rappresentanza di talune organizzazioni politiche, critica sacrosanta, si è proceduto teorizzando una crisi della stessa, astraendo il concetto, de-storicizzandolo. Inevitabilmente, l’attacco a 360° operato dal capitale alle varie forme in cui si organizza il dissenso politico e sociale ha coinciso pericolosamente con una certa critica proveniente da quel mondo del dissenso, creando quel cortocircuito per cui oggi tutti denigrano le forme storiche di rappresentanza (partiti e sindacati in primo luogo), non rendendosi conto di marciare uniti a chi vuole abbattere quelle forme per abbatterne il significato intrinseco, e cioè la possibilità per le classi subalterne di organizzarsi in funzione dei propri interessi. E se organizzazione significa rappresentanza, attaccare la rappresentanza significa demolire il concetto di organizzazione. Con tutto ciò che ne consegue.

2.

Proprio perché non siamo astensionisti per principio, ma lo siamo in questa determinata fase storica in cui sono assenti organizzazioni politiche da poter votare, ci interessiamo anche del sistema elettorale. In un sistema presidenzialista, maggioritario e magari anche a doppio turno, enormemente deformante la volontà elettorale, una forza politica comunista non avrebbe mai, neppure in teoria, possibilità di crescere elettoralmente. In un sistema proporzionale, e in un sistema istituzionale parlamentare, i margini di rappresentanza di questa forza (che al momento non c’è, ma non è detto che non ci sia per sempre) sarebbero sicuramente maggiori.
Altra questione: le riforme istituzionali/elettorali vagheggiate in questi mesi mirano alla stabilità e alla governabilità. Noi invece dovremmo puntare all’instabilità e all’ingovernabilità. Un sistema bloccato, chiuso, predeterminato, dove i governi vengono decisi sostanzialmente prima del voto da spinte mediatiche e alleanze elettorali determinate dal piano europeo, è decisamente peggio, per noi, di un sistema con le sue falle e i suoi margini di contraddizione interna. Se un sistema politico/istituzionale presenta delle contraddizioni, noi potremmo sfruttarle; se questo sistema tende all’omogeneità e al monolitismo, è più difficile inserirsi nelle crepe.
Per fare un esempio: in un sistema istituzionale/elettorale statunitense, o francese, è praticamente impossibile una visibilità elettorale, o anche solo politica, di forze diverse alle due che il sistema maggioritario premia. Anche in Francia, il Front National, che è di fatto il terzo partito (se non il secondo), non ha mai la possibilità di venire eletto, non conta nulla in sede parlamentare, è perfettamente inutile nelle dinamiche politiche. E questo avendo quasi il 20% dei voti (!). Ora, è il Front National, quindi in questo caso meglio così. Ma se una forza (veramente) comunista avesse il 20% in Italia probabilmente potrebbe spostare determinati equilibri di potere; in Francia, la stessa forza si adatterebbe all’inutilità in cui viene relegata dal sistema istituzionale/elettorale in quel modo organizzato.

Infine, è anche un discorso di prospettive: se l’unico modo in cui immaginiamo il cambiamento radicale dello stato di cose presenti è la rivoluzione violenta, ovviamente questi discorsi potrebbero interessarci poco. Se invece crediamo che ogni strumento è potenzialmente buono per provocare delle rotture rivoluzionarie, allora vanno sfruttati tutti. Anche quei margini che le lotte di classe nel novecento si sono guadagnate, come le elezioni e un sistema più o meno democratico di rappresentanza politica. Problemi sicuramente oggi fuori contesto e inattuali, ma non facciamo l’errore di considerare un particolare momento storico (quello attuale), come inevitabile e cristallizzato. Essendo un momento storico, è in evoluzione, e quello che accadrà fra 1, 5 o 20 anni non è prevedibile guardando solo all’oggi. Insomma, evitiamo di teorizzare scelte politiche definitive in base a come guardiamo la realtà adesso, come se questa non fosse un processo ma una circostanza naturale e indeterminata.