di Valerio Evangelisti

LaRivoluzione.jpgAnarchici.jpg[Questa breve tesimonianza di vita vissuta, già apparsa su A Rivista anarchica, è tratta dal volumetto La rivoluzione è una suora che si spoglia, BSF Edizioni, Pisa, 2009, pp.122, € 12,00; raccolta di testimonianze, a cura della pisana Biblioteca Franco Serantini, di undici scrittori (Abbate, Bertante, Cacucci, Cardinale, Colagrande, Evangelisti, Maggiani, Nori, Philopat, Tassinari, Vighi) che nella loro vita hanno incrociato il movimento anarchico, o per adesione o per affinità.) (V.E.)

In ricordo di Gianni Donati

Nel 1968, dopo avere letto il libro L’anarchia di George Woodcock, fondai nel mio liceo, assieme a due compagni di scuola, il circolo anarchico Bandiera Nera. Per metà si trattò di uno scherzo, per metà no. Distribuimmo un volantino in cinque copie, realizzate con la carta carbone, appendemmo una bandiera nera con la A cerchiata a una finestra della scuola, componemmo persino un inno. Ne ricordo un verso solo: “Un vessillo rosso e nero / Pianterem sul mondo intero / Privilegi, tirannia / Faran posto all’anarchia”.

La faccenda durò circa un mese, e fu la mia sola esperienza di militanza anarchica, totalmente autoinventata. Prima, fra i 14 e i 15 anni, avevo simpatizzato per il PSIUP, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (allora non sapevo che fosse finanziato da Mosca); in seguito avrei militato in formazioni di ispirazione marxista, ma grosso modo “libertarie”, da Lotta Continua all’Autonomia. Continuai però a leggere Umanità Nova e Volontà, e a tenermi alla larga dal comunismo ortodosso. Forse pesava su di me l’eredità di un nonno materno imolese, mai conosciuto, con un fiocco nero al collo (in realtà, pur professandosi anarchico, era un seguace di Andrea Costa); oppure i germi sparsi da Woodcock continuarono a produrre i loro effetti.
Non lo so. Sta di fatto che, come era naturale tra i militanti della sinistra anti-istituzionale, continuai a frequentare anarchici senza badare alle differenze ideologiche. Con uno di questi coltivai un’amicizia difficile ma prolungata, che culminò nell’episodio curioso che voglio raccontare.
Si chiamava Gianni Donati, bolognese. Quando lo conobbi, nel 1973-74, aveva una sessantina d’anni. Era ai limiti dell’alcolismo, e quando aveva bevuto troppo diventava insopportabile, violentissimo (non con me), fastidioso. Girava sempre con un cane nero. Io lo incontravo quasi tutti i pomeriggi in una birreria del centro di Bologna in cui teneva corte, circondato dagli amici più disparati, in genere ottima gente, a volte molto equivoci. Quando non aveva bevuto troppo, in effetti, Donati si mostrava persona intelligente e spiritosa, dotata persino di un pizzico di cultura generale. Venivano a trovarlo libertari tutti d’un pezzo, come Mario Barbani (allievo diretto di Armando Borghi) o Gino Fabbri. Ricordo con molto piacere l’allora giovanissimo Roberto Mander, reduce da una sequela impressionante di traversie giudiziarie (come tutti coloro che furono nel mirino del commissario Calabresi, oggi in via di santificazione), oppure il più vecchio e il più giovane dei Fantazzini, e tanti altri.
Quella birreria (“Lamma”, si chiamava allora) era insomma un crocevia dell’anarchismo, in cui le varie anime del movimento libertario si trovavano a bere con Gianni Donati — il quale, peraltro, beveva più di tutti. L’affiliazione grosso modo marxista mia e di altri era ampiamente tollerata, tra molti brindisi, a parte ricorrenti frecciate. Il premio erano serate divertenti, animate e condite da visite illustri (venne accolto come una specie di papa laico Alfredo Maria Bonanno, grande fautore dell’azione diretta). Il pegno era assistere alle sfuriate di Donati quando aveva ecceduto in alcolici. Di solito se la prendeva con alcuni anziani frequentatori del locale, da lui ritenuti in toto “fascisti” (e magari lo erano, ma di sicuro non dei più pericolosi). Altre volte aveva reazioni incontrollate: morse il suo stesso cane, buono come pochi, e, una sera, sparò vari colpi di pistola, dalla finestra di casa sua, contro la moglie Rina, senza peraltro avere l’intenzione di colpirla sul serio. Donati era fatto così. Però ripeto, da sobrio, era un uomo dotato di arguzia e dignità.
L’amicizia notoria che ci legava ebbe un curioso risvolto elettorale. Finivano gli anni ’70 e iniziavano gli anni ’80. L’estrema sinistra bolognese, su impulso di Diego Benecchi (ex dirigente di Lotta Continua ed ex leader del ’77), formò una propria lista per le elezioni amministrative a Bologna, denominata Lista del Sole. Si trattava di candidare un numero sufficiente di personalità, a supporto degli unici due candidati effettivamente eleggibili: lo stesso Benecchi e un medico di nome Bacci, estremamente popolare per i certificati di malattia che elargiva. Contattato da Benecchi proposi non me stesso, bensì Donati. Ci avrei pensato io a convincerlo. D’altra parte, si trattava di inserire semplicemente in lista un nome qualsiasi, per raggiungere il numero prescritto.
Persuadere l’anarchico Donati non fu troppo difficile. Nella nostra birreria discutemmo degli anarchici che, durante la rivoluzione spagnola, avevano accettato cariche istituzionali. Abbozzammo un programma, che prevedeva una damigiana di vino al giorno per tutti i consiglieri comunali, e altre misure deliranti. Ci accomunava il fatto che la cosa ci divertiva. Donati non credeva nelle elezioni in assoluto, io non credevo nella Lista del Sole. Alla fine lo accompagnai da un notaio (un ex maoista di Servire il Popolo) a registrarsi come candidato.
In teoria, la funzione di Donati avrebbe dovuto concludersi lì. Il suo nome era in realtà un numero — uno degli ultimi — buono a sorreggere i capilista. Benecchi ci diede pacchi di volantini da distribuire nel quartiere in cui Donati abitava, La Dozza, con l’indicazione di votare chi figurava in testa, cioè Benecchi stesso. Oltre a manifesti vari per la Lista del Sole.
Per una notte intera io e l’anarchico fummo impegnati a cancellare dai volantini il nome “Diego Benecchi” per sostituirlo con “Gianni Donati”. Li distribuimmo ovunque, nel quartiere. Poi facemmo stampare, presso una tipografia nata da una costola di Lotta Continua, centinaia di manifesti recanti a grandi lettere la scritta: “Un anarchico in municipio. Gianni Donati!”. A lato il simbolo della Lista del Sole, e sotto slogan che non ricordo. Passai diverse notti ad affiggere quei poster, a volte piegato in due dal ridere.
Quando rividi Diego Benecchi, mi rimproverò non tanto i manifesti, quanto i volantini corretti. Allargai le braccia. «Sai, questi anarchici… Imprevedibili.»
E Gianni Donati imprevedibile lo era davvero, tanto che poco dopo morì di cancro. Penso di essere stato tra gli ultimi a visitarlo. Corpo rinsecchito, testa ridotta a un teschio. La sua mano, tra le mie, tremava. Però gli occhi ridevano o minacciavano ancora, a seconda di ciò che udiva. Aveva sempre oscillato tra euforia e collera. Gli anarchici sono così, anche quando muoiono.
L’avventura elettorale di Donati finì con soli otto voti. Sua moglie Rina rifiutò di votarlo, io mi astenni. Bacci arrivò primo fra i non eletti, Benecchi secondo. In seguito ha fatto un suo sfortunato percorso istituzionale. Un’oscura provvidenza punisce chi rinnega il proprio passato.
Invece l’insopportabile Donati, l’“anarchico in municipio”, l’ubriacone, il violento, il maestro di sarcasmo, tra luci e ombre rimase fedele a ciò che era sempre stato: un libertario. Da uno che non l’ha mai pensata del tutto come lui, tanto di cappello. Mi manca ancora.