di Alessandra Daniele

PhilipKDick“Il vero maestro non è chi fornisce le risposte, ma chi suscita le domande” S.Tommaso

Una sola di quelle idee SF che Philip K. Dick spargeva generosamente a centinaia tra le sue pagine, altri autori la sfrutterebbero (e a volte la sfruttano) per un’intera saga di dodici volumi.
Uno solo dei suoi personaggi, dal terrificante Palmer Eldrich, al tenero Jack Isidore del suo migliore mainstream, Confessioni di un artista di merda (“Confessions of a Crap Artist”, 1957 – pubblicato nel 1975) basterebbe come protagonista d’una serie di successo decennale. Eppure PKD, oggi ormai universalmente apprezzato, fu invece privato in vita di tutto il successo che meritava.
Una vita straordinaria, ma anche tragica, frenetica, logorante. Segnata da grandi dolori, turbolente relazioni affettive, luminosi entusiasmi, e abissale sconforto, coraggioso – e rischioso – radicale antagonismo al sistema di potere politico-economico, e sperimentazioni anfetaminico-lisergiche.

Nessuno sa esattamente quali e quante sostanze abbia provato PKD: c’è chi dice che potesse dare lezioni di chimica a Timothy Leary, e chi invece sostiene che in realtà per avere allucinazioni non avesse bisogno di alcun allucinogeno. La cosa più probabile è che la verità stia a metà strada, e che comunque non fosse l’ LSD ad amplificare le potenzialità della mente di PKD, quanto piuttosto la mente di PKD ad amplificare le potenzialità dell’ LSD. Una mente dimostratasi capace della stessa vulcanica creatività anche senza alcun ausilio chimico.
Più che dalla sua esperienza con le droghe, il dolente capolavoro Un oscuro scrutare (“A Scanner Darkly”, 1977) pervaso da malinconico sarcasmo e struggente compassione, nasce quindi dal suo sofferto bisogno di dare voce agli amici consunti o uccisi dalla tossicodipendenza, e testimonia l’autoanalisi del suo complessivo disagio esistenziale impossibile da “medicalizzare”, da ridurre a una qualsiasi rigida classificazione diagnostica.
Sottopagato e sottostimato in patria, quegli USA dei quali così coraggiosamente ed efficacemente denuncia e prevede le mostruose degenerazioni, è in Francia che PKD riceve per la prima volta il meritato riconoscimento del valore della sua opera. Sarà così alla leggendaria conferenza di Metz del 1977 che parlerà per la prima volta in pubblico del 2/3/74, il suo misterioso episodio di “meta-coscienza” – visioni, premonizioni, xenoglossia, déja vu – del quale scriverà per il resto della sua vita, formulando decine di ipotesi per tentare di spiegarlo, mescolando spesso quelle scientifiche (flashback lisergico, ictus, memoria genetica) e fantascientifiche (telepatia, anomalia temporale) a quelle teologiche (ispirate allo gnosticismo e al panteismo) e alternando momenti di poetico misticismo ad altri di scettica autoironia.
Da questa tormentata e immaginosa ricerca deriva la sua ultima opera, la Trilogia di Valis (1978-81), nella quale la speranza visionaria e l’angoscia metafisica si intrecciano al lancinante rimpianto per le persone care perdute, l’anticonvenzionale vescovo episcopale Pike, morto in Israele sulla strada della propria ricerca spirituale, e la sorella gemella Jane uccisa all’età di cinque settimane dalla denutrizione (e forse dall’incuria materna) fantasma femminile che aleggia — come quello della madre – in tutta la sua narrativa.
Tre romanzi in realtà molto diversi fra loro: surreale meta-sf il primo, Valis , che porta il nome della misteriosa entità alieno-divina che irrompe nella vita del protagonista, e che potrebbe essere una voce dal suo inconscio, come una manifestazione della mente universale di cui tutta l’umanità fa parte.
Urban fantasy il secondo, Divina Invasione (“Divine Invasion”) nel quale due arguti ragazzini, le incarnazioni terrene degli aspetti Maschile e Femminile della divinità, si incontrano e si confrontano in un paio di universi paralleli che ne rispecchiano le caratteristiche, accompagnati da genitori umani riluttanti e scomodi negli inattesi panni di moderna “Sacra Famiglia”.
Il terzo, La trasmigrazione di Timothy Archer (“The Trasmigration of Timothy Archer”) decisamente un mainstream, nel quale, ripercorrendo le tappe della complicata e drammatica esistenza dell’amico James Pike, PKD, nei panni di un inedito e affascinante alter-ego femminile di nome Angel, torna a identificare il divino con il cuore degli esseri umani.
Schegge del 2/3/74 si trovano però anche in tutte le altre sue opere successive all’evento, dal fantasy postatomico Deus Irae (1975) scritto con Roger Zelazny, a Radio libera Albemuth (“Radio Free Albemuth”, pubblicato postumo), e a volte persino in quelle precedenti, sottoforma di sorprendenti sincronicità.
Tutte le visionarie, poetiche, ironiche, geniali cosmologie alternative create da PKD in quegli anni dimostrano comunque che qualsiasi cosa gli fosse successa nel ’74, fu lui a renderla un miracolo, per le stupende pagine che seppe ricavarne.
“In altri tempi m’avrebbero bruciato sul rogo” diceva con la consueta autoironia. Di certo però prima avrebbe fatto impazzire gli inquisitori raccontando a ognuno di loro un’eresia diversa.
Nato con la Golden Age, precursore della New Wave, del Cyberpunk, e persino dell’attuale New Weird, nel campo della letteratura fantastica PKD compendia quasi tutto il meglio di ciò che lo precede, e anticipa quasi tutto il meglio di ciò che lo segue. E la sua rilevanza culturale travalica di molto questo già immenso campo. Non c’è attuale sviluppo sociopolitico che la sua straordinaria narrativa non abbia previsto e sviscerato con decenni di anticipo.
Non a caso Hollywood da anni saccheggia (più o meno esplicitamente) l’opera dickiana, purtroppo però quasi sempre per “riscriverla” falsificandola in chiave action. Se Matrix è valido – ma solo il primo della serie – come rilettura cyberpunk di Tempo fuori sesto (“Time Out of Joint”, 1958) a cui tutto deve anche Truman Show, scempi come Paycheck sono invece avvilenti. Per fortuna gli originali testi dickiani sono ancora continuamente ristampati in tutto il mondo.
L’unica serie a potersi accreditare come autenticamente dickiana, e in particolare Ubikiana, in realtà è la stupenda Life on Mars BBC.
Parallela allo sfruttamento cinematografico è stata la tardiva scoperta di PKD da parte di certa critica letteraria ufficiale che prima lo snobbava, e che adesso ne millanta una profonda conoscenza, continuando ottusamente a disprezzare quasi tutto il resto della SF. Per la critica ufficiale l’unico scrittore di fantascienza buono è lo scrittore di fantascienza morto.
In realtà PKD è ancora oggi molto più vivo di certi soggetti.
Ironico e apocalittico, scettico e visionario, multiforme, contraddittorio, torturato, profetico, ma sempre soprattutto umano di un’umanità struggente e irresistibile. PKD è il nostro Valis. La nostra voce interiore, la nostra appassionata, dolente ma incoercibile speranza in un mondo davvero diverso.

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