di Alessandra Daniele

PKD.jpg“La fantascienza è una forma d’arte sovversiva, che richiede scrittori e lettori con pessime abitudini, come quella di chiedersi perché? Come mai? Chi l’ha deciso?”
Philip K. Dick, 1978

Quando l’impatto delle visioni dickiane ti colpisce, non si ferma mai al livello della semplice affabulazione, ma arriva fino in fondo, a frantumare il nucleo stesso del tuo principio di realtà, liberando l’energia cognitiva imprigionata, come una sorta di rivelazione. Questo non solo per la forza delle sue idee, ma anche perché in PKD la ricerca filosofico-narrativa è sempre fusa con la passione e la sofferenza umana quotidiana da cui nasce. È sincera. È parola incarnata. La grandezza e l’unicità di Philip K. Dick (1928-1982) consistono infatti nell’essere capace di concepire e conciliare le idee più visionarie e rivoluzionarie – oltre i limiti imposti alla fantascienza – con i personaggi più credibili e umanamente complessi – oltre le capacità attribuite al realismo.
Personaggi struggenti, frutto anche di una lacerante, spietata autoanalisi continua, diretta a riconoscere sempre se stesso negli altri, e viceversa. L’empatia come tecnica narrativa: nei personaggi dickiani, persino i più estremi, è impossibile non riconoscere sempre una parte di lui, e insieme anche una parte di noi stessi, magari la più dolente e nascosta. Nelle visioni che come inquietanti e beffarde saette divine li trafiggono, persino nelle più immaginose, è impossibile non riconoscere illuminanti bagliori di quella rivoluzionaria verità interiore che si contrappone alle realtà ingannevoli che ci bloccano in una prigione entropica di degrado fisico e psichico, l’allucinata proiezione della mente d’un Demiurgo cieco e disumano.
L’unica via di fuga da un simile universo è nella capacità psichica ed etica di immaginarne un altro, crederlo possibile.
Metafisica quantistica? Come dimostrano quelli del geniale Scorrete lacrime, disse il poliziotto (“Flow my tears, the policeman said”, 1974) gli universi dickiani non sono mai disciplinatamente paralleli, ma si mescolano, s’intersecano e si confondono in un ipercubismo cosmico che sconvolge tutte le regole, azzerando ogni certezza e spalancando ogni prospettiva.

Per quanto PKD potesse soffrire per l’assurda ghettizzazione culturale subita come scrittore di fantascienza, e desiderare di sperimentare anche altri linguaggi, è evidente dai suoi scritti come in definitiva sapesse bene che nessun altro strumento espressivo se non la SF sarebbe mai potuto essere veramente all’altezza di ciò che voleva e sentiva il bisogno di raccontare. La sua insofferenza per gli stereotipi legati al genere gli dava modo di decostruirli, trasformandoli in beffardi simboli di alienazione cosmica – robot nevrotici e rugginosi, colonie spaziali fallite e fatiscenti, extraterrestri fasulli inventati dalla propaganda, superpoteri inutili — cogliendo così proprio l’essenza della SF: il saper rompere tutti gli schemi, a cominciare dai propri.

L’appassionata storia d’amore-odio fra Philip K. Dick e la SF comincia negli anni della Golden Age con più d’un centinaio di racconti che pur partendo da spunti classici del genere, già pongono le basi della sua rivoluzionaria poetica, anticipando spesso New Wave e Cyberpunk. Nella notevole qualità media spiccano diversi capolavori come Impostore (“Impostor”, 1953) una fulminante rilettura in chiave meta-psicanalitica del mito di Medusa; Mercato prigioniero (“Captive Market”, 1954) un’analisi spietata e perfetta del rapporto simbiotico fra capitalismo e guerra; Umano è (“Human is”, 1953) che ribalta lo stereotipo dell’”Ultracorpo” invasore raccontando d’un alieno molto migliore per sensibilità – cioè umanità – del gelido terrestre che ha sostituito prendendone le sembianze.
Le necessità espressive (più spazio per approfondire la psicologia dei personaggi) e quelle economiche (compenso striminzito, ma comunque maggiore) spingeranno presto PKD verso il romanzo. Al racconto tornerà ancora qualche volta negli anni successivi, con alcuni capolavori che sono spesso l’intenso distillato di tutta la sua visionaria poetica. Fede dei nostri padri (“Faith of our fathers”, 1967) nel quale, in un crescendo di cosmico disfacimento, un piccolo laido dittatore planetario si rivela l’incarnazione del Male assoluto padrone dell’universo (la più estrema delle Dangerous Visions dell’antologia omonima); Il caso Rautavaara (“Rautavaara’s Case”, 1981) che capovolge l’eucaristia in un terrificante Cristo cannibale; lo struggente Spero di arrivare presto (“I hope I shall arrive soon”, 1981) che può anche essere letto come una “risposta” a Universo (”Universe”, 1941) di Heinlein. Infatti, a RAH che dipinge il nostro mondo come una sorta di ”nave scuola” che ha lo scopo di condurci a una Meta, PKD con malinconica ironia risponde che è invece una galera, e che ce la rende irraggiungibile.
Sempre pressato dalle feroci ristrettezze economiche, sempre tormentato dalla sua sete interiore di risposte cosmologiche, PKD nello spazio d’un paio di decenni scrive quasi quaranta romanzi, a volte al ritmo di quaranta pagine al giorno, sia introducendo fondamentali elementi innovativi, sia riuscendo spesso nel miracolo alchemico di trasformare anche la più logora ferraglia di genere in oro.
Del suo periodo più fecondo — gli anni ’60 — sono alcuni dei suoi capolavori assoluti: La svastica sul sole (“The man in the high castle”, 1962) assurto a simbolo stesso dell’ucronia allegorica per come descrive un mondo parallelo dominato da nazifascisti e imperialisti giapponesi usciti vittoriosi dalla Seconda Guerra Mondiale, svelandone le inquietanti analogie col nostro mondo.
Le tre stimmate di Palmer Eldritch (“The three stigmata of Palmer Eldritch”, 1965) che propone in chiave SF la più estrema delle eresie postulando la malvagità assoluta di Dio, attraverso l’avvento d’un terribile Demiurgo deciso a trasformare tutti gli esseri umani in zombie a sua immagine e somiglianza.
Il cacciatore di androidi (“Do androids dream of electric sheep?”, 1966) sofferta indagine sulla natura umana – e sulla natura del Male – estremamente più profonda e complessa del pur affascinante cult-movie Blade Runner a essa ispirato. “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare” dice l’androide di Blade Runner, “Voi androidi non avete idea di quello che noi umani possiamo immaginare” può rispondergli chiunque abbia avuto la fortuna di leggere l’originale dickiano, con la sua dolente ricerca dell’unica qualità che davvero distingua l’uomo dalla macchina: l’empatia, e i suoi laceranti paradossi.
Ubik (1969) che lega la vita e la morte, questo mondo e l’altro, in un patafisico nodo di Moebius, abitato da una divinità enigmatica e beffarda che parla agli uomini attraverso “pizzini” e spot pubblicitari, mentre la realtà che li circonda regredisce agli anni ’30, e cade a pezzi come un vecchio scenario di cartapesta.
Accanto a questi e agli altri capolavori, una galassia di opere “minori” eppure traboccanti di idee geniali, personaggi affascinanti, intuizioni profetiche, taglienti allegorie. Come la guerra virtuale messa in scena dalle élite de La penultima verità (“The Penultimate Truth”, 1964) per controllare le masse con la propaganda, la paura, la menzogna sistematica. O le società costituite in base alla comune variante di psicosi dagli ex pazienti d’un satellite adibito a manicomio, in Follia per sette clan (“Clans of Alphane moon”, 1964) fra il realismo magico e la satira socio-politica.
Tutti quanti tasselli, insieme ai racconti e ai saggi, di un unico, articolato, immaginoso e potente ipertesto multidimensionale.

(CONTINUA)

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