di Danilo Arona

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1) Da qualche mese c’è un dibattito, tutto italiano e tutto sotterraneo, che riguarda le antologie di “genere” e la forma racconto. Si tratta di una discussione che al momento passa più trasversalmente fra gli addetti ai lavori che fra il pubblico vero e proprio. Ciò non toglie che sarà proprio il pubblico a deciderne le sorti, a stabilire chi ha ragione oppure torto o se si tratti, in ultima analisi, di una stucchevole disputa per intellettuali disoccupati.

Cercherò di raccontare la storia dal mio punto di vista, informando chi mi legge che io non sono esattamente neutrale, avendo scritto negli ultimi mesi quattro racconti su richiesta specifica e, buona ultima, una postfazione per una pregevole antologia, ALIA — L’arcipelago del fantastico, edita dalla Cooperativa Studi Editrice di Torino. Però provengo anche da una stagione nella quale, essendomi fatto portavoce di iniziative antologiche presso editori noti anche per “osare”, mi sono sentito dire troppo spesso che il grande pubblico non le ama e non le compra. Insomma, mi si consigliava di lasciar perdere. Lasciamo stare i nomi. Ma una storia che vi siete persi, ampiamente menzionabile, è quella di “7”, un collective project dedicato ai sette peccati capitali e alla loro influenza su spietati assassini e potenziali vittime. Ovvio, ispirato al celebre film di Fincher, ma ambientato nell’oscura provincia italiana, sul limen tra noir e horror, tra degradazione urbana e Vecchio Testamento. Un autore ogni peccato capitale con la squadra già formata. Per la cronaca i sette peccatori erano Joe Arden, Edoardo Rosati, Lucarelli, io, Andrea G. Colombo, Stefano Massaron e Andrea G. Pinketts. Tutti d’accordo e tutti entusiasti, al di là delle rampogne che i vari agenti dei succitati avrebbero poi fatto nascere se il progetto fosse andato avanti. Sempre per la cronaca, Lucarelli aveva preteso il peccato di gola e io scrissi il racconto in due giorni, talmente la storia m’imbufaliva. Poi finì lì, perché ci arenammo sulle secche dei diversi dinieghi editoriali (“antologia no, brutto momento”) e ognuno poi nutriva, com’è logico, progetti più personali per cui l’entusiasmo scemò subito. Ancora per la cronaca e poi basta — lo giuro, dal mio racconto abbinato all’invidia scaturì un lungo romanzo che in qualche modo è anche un’antologia dal titolo Palo Mayombe, ma questa è un’altra storia che appartiene ad un futuro quasi prossimo.
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Tutto questo per ricordare che l’antologia e il racconto sono in ogni caso e sempre scelte coraggiose tanto da parte degli editori che dagli scrittori. A nome di questi ultimi, posso testimoniare senza tema di smentita che, quando hai un bel racconto da partorire e ci perdi tempo, sonno e altro, non hai la benché minima garanzia del suo piazzamento. E’ di sicuro più facile vendere un romanzo, al di là del presupposto “genere” di pertinenza. A nome degli editori non posso di certo parlare, soprattutto se sono quelli che hanno affossato l’operazione “7”. Per tutti gli altri, Dario Flaccovio in testa, cito quanto affermato nel 2002 da Valerio Evangelisti in una sua prefazione ad un’antologia dello scrittore Gaetano Mistretta, che definisce “barzelletta” il luogo comune secondo il quale gli italiani non leggono racconti.
“Se da parte dei lettori una propensione al romanzo è assodata è inevitabile (ciò che piace si vorrebbe che durasse)” — scrive Valerio con il solito acume — “il loro rigetto della narrativa breve è molto meno radicato di quanto si pensi. Mentre scrivo, è in testa alle classifiche delle vendite un’antologia di Philip K. Dick. Rimanendo nel campo dell’horror, esistono ben quattro edizioni diverse delle opere complete di Lovecraft, che in vita sua non ha scritto altro che racconti. Le antologie di Richard Matheson, di Robert Bloch e di Clive Barker si continuano a vendere come il pane. E molti nomi illustri della letteratura italiana hanno scritto racconti, tuttora periodicamente ristampati. Dire che i lettori italiani sono allergici al racconto è quanto meno impreciso.”
Se ci posso aggiungere del mio, come non ricordare le memorabili Le meraviglie del possibile che Einaudi pubblicò nel 1959 sotto la raffinata consulenza di Sergio Solmi e Carlo Fruttero e che ebbe il merito di divulgare la fantascienza al di là dell’edicola di stazione nella quale la si voleva a tutti i costi relegare, o in tempi più recenti, Gioventù cannibale, la famosa e discussa “prima” antologia nostrana dell’horror estremo a cura di Daniele Brolli? Per non dire di operazioni squisitamente americane, che sono in seguito assurte al rango di veri e propri “manifesti”, quali Mirrorshades, The Cyberpunk Anthology, a cura di Bruce Sterling per il cyberpunk nel 1986, e Book of the Dead, curato da Skipp & Spector per lo splatterpunk nel 1989, ambedue pubblicate in Italia con buon successo.
Non è tanto in ogni caso suggerire qui una giusta difesa d’ufficio del prodotto “antologia”, quanto ricordare, se ve fosse il caso, che è stata proprio l’arte del racconto a testimoniare le grandi sterzate, tematiche e strutturali, dei generi trattati. Sterzate che hanno compromesso scientemente il concetto di purezza di categoria narrativa. Ed eccoci al nocciolo, la contaminazione.

2) Anni fa, mi capitò di organizzare per Chiaroscuro ad Asti un convegno assai allettante che s’intitolava “Chimera, la Maschera: nuovi virus, nuovi thriller”. Come in ogni cosa che faccio, c’infilai dentro più o meno consciamente le mie ossessioni, i miei gusti e le mie (insane) passioni. All’apparenza avremmo dovuto argomentare di “medical thriller”. In realtà, mentre dibattevamo, ci rendemmo tutti conto (tutti eravamo io, Roberto Marchesini, Edo Rosati, Luigi Rainero Fassati, Mariano Bizzarri e Alessandro Defilippi) che la questione stava “oltre” e che il medical thriller non era che un aspetto del problema, forse il più infimo. Provo a spiegarmi: partendo da un presupposto mitologico, quello della Chimera, “maschera” mostruosa per eccellenza e summa delle ibridazioni pensabili (corpo e testa di leone, una seconda testa di capra sorgente dalla schiena e coda da serpente — di lì sarei giunto a pensare ad un libro “impossibile” sul demone sumero Pazuzu, ma ancora non lo sapevo…), proposi ai miei ospiti l’ipotesi del corrispettivo microbiologico — il cosiddetto “virus-chimera” ottenuto in laboratorio dalla miscelazione di materiale genetico da virus diversi — quale incarnazione letteraria (oggi purtroppo non più relegabile al solo mondo della fiction) del subdolo nemico che incarna l’Apocalisse, non riconoscibile in quanto malattia da poter sconfiggere. In buona sostanza, un “nuovo” mostro che in modo silenzioso — perché sotto mentite spoglie — riusciva a catturare il mimetismo mitologico dei mostri antichi, disegnando scenari tanto inquietanti quanto possibili. Così, mentre nessuno si poteva ancora immaginare SARS e antrace come possibili problemi quotidiani con i quali far conti, si discuteva sui vari dubbi mai sciolti in verità a proposito delle comparse dell’AIDS e del virus Ebola, citando i vari Robin Cook, Richard Preston, Patrick Lynch e John Case come profeti un po’ menagrami del contagio di massa. Perché di quello gli scrittori parlavano. Qualcuno, credo Defilippi, alzò il tiro, appurando che tutti i convegnisti erano medici, in qualche modo personaggi “contaminati” professionalmente, tra professione ed esercizio letterario, curiosità che in parte poteva spiegare la parallela contaminazione letteraria tra il gotico di antica memoria (il serbatoio del mito e dei mostri) e l’avveniristico, ma non così fantastico, “medical thriller”. Da lì, quel convegno, unico a suo modo, proseguì come un gioco di scatole cinesi. I generi diventavano virus e s’interfacciavano, ibridandosi. Lo psycho-noir con i suoi nuovi vilains alla Hannibal aveva distrutto dall’interno, come un organismo ospite, il gotico draculesco di Stoker, cambiandone i connotati e disgregandone il mondo cellulare. Topoi fissi del poliziesco da anni dovevano vedersela con stereotipi altrettanto fissi dell’horror, poliziotti contro demoni in un gioco di fusioni di linguaggi che riguardava allo stesso modo tanto il William Peter Blatty de L’esorcista che l’italiano Nerozzi. Lo stesso Mariano Bizzarri, oncologo alla Sapienza di Roma, che con il suo romanzo Il caso del 238, cronaca di una devastante forma tumorale contagiosa, ibridava al proprio interno la fantascienza apocalittica, “costringendo” alla sua pubblicazione il più purista fra gli editori nostrani di fantascienza, Ugo Malaguti per Perseo. Insomma, mi sembra chiaro: quella sera, forse un pizzico in anticipo sui tempi, tutti ebbero la stessa idea, quella della letteratura di genere come “Maschera” per eccellenza delle categorie del narrare e sintesi chimerica di ogni ipotizzabile ibridazione.
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Ed eccoci allora a Duri a morire. Che resta per inteso un’antologia di noir, se il solo titolo potesse alludervi. Ma quante coraggiose provocazioni al suo interno, quanto consapevole sconfinare, quanta coscienza da parte di ciascun autore della debolezza di una frontiera narrativa che ai tempi di Scerbanenco suggeva linfa dalla cronaca nel tentativo di superarla e che oggi resta in angolo ispirativo tanto la cronaca e la Storia sembrano le schegge impazzite di un William Burroughs telecatodicizzato e fuori controllo. E, massima fra le con-fusioni, queste undici ipotesi “al maschile” di un mondo inesorabile e spietato, dove i duri ballano per non morire, ci vengono introdotte non da un “macho alter ego” che attesti, con il suo essere James Ellroy super partes, della bontà e dei criteri dell’operazione. No, gli undici duri del mucchio selvaggio hanno l’onore, rimarcato da qualche rigurgito freudiano, di una prefazione di una “dura”, una donna, vera e non di carta, quale Alda Teodorani, la dark lady dell’horror italiano che mi ha personalmente fatto scoprire il concetto a me sconosciuto d’insonnia, costringendomi nel contempo a guardare mia moglie con occhio diverso. Un bel colpo alle convenzioni, all’educazione ipocrita, alla letteratura scolastica e per bene. Del resto è noir. Anche.

AA.VV., Duri a morire, Gialloteca 5, Dario Flaccovio editore, Palermo 2003.