di Severino Cesari

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Questo articolo è apparso sul n. 407, del marzo 2002, del Magazine Littéraire, in coincidenza con l’edizione del Salon du Livre di Parigi che aveva l’Italia quale ospite d’onore. Severino Cesari, oltre che critico letterario, è uno dei più noti direttori editoriali italiani.

La letteratura italiana finì, not with a whisper but with a bang, non con un sussurro ma con un bel botto, al contrario di come avrebbe suggerito il poeta T. S. Eliot, profeta di morbide, apocalittiche sventure. Era il 1996, e il bianco libretto tascabile di appena duecento pagine, con la costola più gialla che arancione, cominciò ad essere spacciato tra vecchi ragazzi elettrici desiderosi di un nuovo inizio, studentesse in metropolitana, nobildonne in esilio permanente e giovani famelici solitari urbani, ancora in cerca di una tribù: in un inedito, per la letteratura, mix di suggestioni underground (noi veniamo ancora una volta dalle cantine, dal sottosuolo, dall’inconfessabile) e sfolgoranti, nel loro piccolo, luci della ribalta (noi siamo e saremo di successo, e ce ne strabattiamo di voi).

Comunque sia, accadde quello che non era mai accaduto: che una antologia (una antologia!) di racconti (di racconti! il genere meno letto in Italia. Lei ha un libro di racconti?Bello. Ripassi con un romanzo, dicevano gli editori) venisse amata e odiata, impugnata come una bandiera, vendesse negli anni quasi cinquantamila copie, dopo aver riempito di prodotti succedanei (interviste, polemiche, stroncature, recensioni) tutti i giornali: e che in definitiva, per dirlo in una parola, diventasse un marchio. Con grande fastidio di quasi tutti gli autori antologizzati. Niccolò Ammaniti e Aldo Nove (ma nell’antologia c’erano anche Luisa Brancaccio, Alda Teodorani, Daniele Luttazzi, Andrea G. Pinketts, Massimiliano Governi, Matteo Curtoni, Matteo Galiazzo, Stefano Massaron, Paolo Caredda) sono stati, a torto o a ragione, più degli altri identificati come “cannibali”, per l’energia provocatoria e allegra dei loro testi, e il loro percorso successivo di scrittori ha sofferto (e, insieme, forse, un po’ goduto) di questa etichetta. Anzi, dicevamo: di questo marchio.
Ecco una prima, interessante questione: perché una antologia di scrittori, scrittrici, comici-scrittori già famosi (Luttazzi), registi tv (Caredda), in media sui trent’anni, quasi nessuno esordiente, in genere con uno-due libri alle spalle, è diventato un marchio in Italia, nell’anno di grazia 1996? Perché, sia pure con tutte le esagerazioni del caso, si è cominciato a dividere la scena italiana (almeno, sia chiaro, in quella parte della letteratura chiamata a volte “nuova scena letteraria ”, che dio solo sa cosa vuol dire) in un “prima” e un “dopo” Gioventù cannibale? Perché un supplemento letterario nel 2002 può permettersi, per esempio, di titolare in un corpo discretamente grande “I postcannibali”, sicuro che il lettore qualcosa intuisca?

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Era notte, una bella notte di primavera, ed eravamo un po’ in affanno, nella redazione romana Einaudi, quando arrivò al computer l’elenco di titoli proposto da Daniele Brolli (scrittore, critico, disegnatore, ex gruppo Valvoline, con Igort Carpinteri Mattotti) per la sua antologia. Era tempo di chiudere il libro. Daniele – gli avevamo chiesto noi di Stile libero, Paolo Repetti e io – forse è il momento giusto, prepara, tu che sai, tu che conosci, una antologia dell’orrore estremo. Era nato dunque così il progetto: come antologia italiana di genere. Poi, a forza di discutere e litigare, di togliere e inserire autori (Daniele all’inizio era un po’ sospettoso di Ammaniti, per esempio, poi se ne innamorò), l’antologia prese forma, e fu sempre più cosa comune. Il genere era sempre meno importante, importante era la forza genuina, l’energia dei testi. Alla fine, la sentivamo. Sentivamo il libro come una creatura viva. Ma si chiamava ancora… Spaghetti splatter. Questo era il titolo di prenotazione, quello che gli eventuali storici delle minime cose editoriali troveranno nei “copertinari” Einaudi. Non ci piaceva tanto, ma sapevamo che un titolo sarebbe venuto. In genere, arrivano all’ultimo minuto. E quella notte arrivò, con gli altri proposti da Daniele. Quando leggemmo ad alta voce Giovani cannibali, Gioventù cannibale, ci guardammo: era lui. Chiudemmo il libro così. Non sapevamo che cosa sarebbe accaduto, ma eravamo assolutamente certi che non sarebbe accaduto nulla, con Spaghetti splatter. (Che poi quell’aggettivo, cannibale, venisse da lontano, dagli anni e dai fumetti di Andrea Pazienza – siamo una generazione cannibale – è anche possibile).

I “cannibali” sono solo una invenzione dei media? O una “abile operazione di vendita”? Ma in nome di dio, i giornali hanno mai inventato qualcosa? Sì, perché invenio vuol dire, in latino, “trovare”, e allora si può dire che i media hanno trovato ciò che cercavano: una parola-immagine che desse l’idea di uno spartiacque, una linea di faglia o di frontiera tanto precisa nell’affermazione di sé quanto (in una certa misura) sfuggente nei contenuti. Ma proprio questa era l’intenzione. Nella quarta di copertina di Gioventù cannibale si legge: “Una covata di narratori italiani giovani o giovanissimi getta scompiglio nei vicoli della cittadella letteraria… Sfuggono a qualunque tentativo di incasellarli… Scrivono senza complessi di colpa verso cinema, tv e i nuovi media, perché li conoscono molto bene e di essi, come di molte altre cose, la loro scrittura si nutre in modo naturale…”
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Aldilà dei nomi degli scrittori antologizzati, Gioventù cannibale indica un clima, una geografia, un paesaggio cambiati. Dopo il tempo della povertà e della solitudine, gli scrittori sono di nuovo orgogliosi (e disperati, naturalmente) di scrivere, sentono di avere un pubblico, minoritario ma reale, e di nuovo sono in sintonia con un lettore perché sono sulla stessa lunghezza d’onda, ne parlano la stessa lingua. O meglio, le tante lingue. La loro scrittura eccede la scrittura tradizionale, si arricchisce di tutti i sapori eccessivi, volendo con ciò intendere: del senso in più che gira nei linguaggi dei generi, delle arti, del fumetto, del cinema, e che però solo la scrittura letteraria è in grado di “contenere” criticamente, nel suo stesso nervo, nelle sue ossa, come una sorta di superlingua nella quale può riconoscersi una nuova comunità ribalda, di marginali forse, ma onnivori (o cannibali, appunto, divoratori di tutto, e di corpi anche) e onniscienti.
La spietata distruzione dell’universo psichico televisivo operata da Aldo Nove, l’allegra commedia horror di Ammaniti che incorpora nella velocità delle situazioni e del ritmo la fisiologia e l’anima dei videogiochi, ma diventa anche una forma originale di commedia trans-genere, che mescola e reinventa i generi, sono appena a un passo dal lavoro di parecchi altri loro fratelli e compagni di strada, non presenti in Gioventù cannibale ma nati anch’essi aldiqua della linea di faglia, destinati a rinnovare a loro volta la famigerata “scena letteraria”, a disegnare altri pezzi di mappa di un vasto nuovo “realismo psichico”, come vorrei provvisoriamente chiamarlo in mancanza d’altro, che accomuna scrittori e scrittrici dalla personalità diversissima, e sempre più netta, più definita.

L’anno letterario che è appena finito è stato segnato, in Italia, dal romanzo ultimo di Niccolò Ammaniti; Io non ho paura ha superato le centoventimila copie, è in classifica ormai da trentacinque settimane al momento in cui scrivo. Una storia tesa, compatta, lineare che pure rivela a un lettore attento una quantità impressionante di stratificazioni, di lingua e di senso. Un Presepe di campagna si rivela terra di combattimento tra un Eroe e un Drago, e il Drago non è là dove tu pensi che sia. Tutta la sapienza di Niccolò riversata in una forma semplice. Ma nell’anno precedente Aldo Nove aveva scritto Amore mio infinito, un titolo bellissimo per la più toccante autobiografia sentimentale scritta in questi anni in Italia: la rivelazione, nella lingua, del mondo quando era ancora nascente. Simona Vinci, coetanea dei due ex-cannibali, attraverso le prove di Dei bambini non si sa niente e di In tutti i sensi come l’amore disegna l’equivalente, in letteratura, degli artisti visivi più estremi, inventando una lingua scarnificata fino all’essenziale eppure misteriosamente piena di vibrazioni, pronta per prove di più distesa narrazione.

Non sono, si intende, gli unici “nuovi”. Se Carlo Lucarelli ha scelto il genere noir come grande metafora, o metalinguaggio capace di raccontare ciò che egli definisce “il lato oscuro”, o, alla Stephen King, la “metà oscura”, e questo gli permette, nel rispetto delle attese del lettore, una quasi sconcertante, e benvenuta, felicità narrativa, sempre in lui piegata a una caparbia volontà cognitiva, Valerio Evangelisti ha imposto a ogni scettico, anch’egli partendo trionfalmente dal “genere” (la fantascienza, nel suo caso) e superandolo, la necessità narrativa della sua saga di Eymerich, l’inquisitore: un universo in espansione realmente capace, come quello di Borges, di corrodere e sgretolare l’universo “reale”. Nei romanzi di Evangelisti non ci si intrattiene, si abita, come in un castello o una galassia. Ma al tempo stesso le sue robuste strutture narrative urlano contro l’intolleranza e l’asfissia della nuda ragione, in una accanita ricognizione delle nostre storture psichiche. Mentre su un universo parallelo al nostro, anche la factory, o i quattro scrittori che si chiamarono Luther Blissett (e ora, in cinque, si chiamano invece Wu Ming, ovvero “nessun nome”) portano a conseguenze coerenti la dissoluzione del concetto di “autore”, introducendo nella narrativa l’equivalente della rivoluzione industriale in economia. E hanno prodotto, con Q e il prossimo 1954, simil-mondi di eccellenza, veicolo per forti battaglie di idee, capacità di affresco storico quasi impensabili in Italia.
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La “realtà”, ovvero gli aggregati psichici attraverso cui noi la conosciamo, il continuo vaglio critico dei “modelli di conoscenza” attraverso lingua e narrazione sono anche, a mio avviso, il punto di partenza di esperimenti in apparenza assai lontani da questi, come in Antonio Pascale (La città distratta) Roberto Alajmo (Notizie del disastro, tra gli altri) e Diego De Silva. E Giulio Mozzi (che è anche, ed è un merito, un instancabile indagatore di scritture altrui). E Tiziano Scarpa, originale figura di narratore e critico (suo uno dei libri di critica più belli e provocatori di questi anni, dal titolo goldoniano Cos’è questo fracasso, il più deciso nell’indagare, ed eroticamente stimolare, le ragioni del «corpo» nelle pieghe della scrittura. Serialità e noir tornano in Sandrone Dazieri, il cui dinamismo narrativo non è fine a se stesso, ma è funzionale alla autorappresentazione di una realtà frantumata e scissa in perenne (e cialtrone) movimento, la cui spia è la divisione stessa del protagonista della serie del Gorilla in due: c’è anche il Socio. La schizofrenia come chiave della realtà scissa.
Paradossale punto di partenza, perfino nel più metafisico e poetico di tutti, il cantore astrale dei sentimenti impossibili, parallelo letterario alle creature androidi di Philip Dick il cui pathos è l’impossibilità di provare vere emozioni, è ancora una volta il genere: il letteratissimo Tomamso Pincio arriva, dalla fantascienza (e percorrendo tutte le miglior scritture americane di oggi) a una stupefacente naturalità, composta totalmente, si direbbe, per via intellettuale.
Isolato da tutti, ma con i piedi sullo stesso terreno, titanico nello sforzo anarchico di mettere in scena anch’egli in modo seriale un unico personaggio, di fronte a cui lo scrittore si ritrae totalmente per trasformarsi in cronista dell’universo psichico del personaggio, in una lingua smagliante e flessibile che asseconda ogni piega mentale, ogni umore ogni dolore ogni acredime ogni gioia di Learco Ferrari, in perenne dialogo e scontro con mondi ultraterreni di voci che gli parlano in testa, è Paolo Nori, erede ultimo di una vitalissima “linea padana”, che sembra emblematico nel porre il limite ultimo della resistenza umana in un mondo ormai di “puri spiriti”, in un universo, appunto, ancora una volta esclusivamente psichico. (Eppure, con la lingua che ha forgiato, anche Paolo Nori sembrerebbe pronto a trasferire il suo “realismo psichico”… all’esterno di Learco Ferrari. Staremo a vedere).
Non sono certo gli unici: il terreno è seminato, i frutti sorprenderanno.

Una nuova fioritura dopo le rovine, quasi di gruppo, ma senza mai definirsi tale, in rapporto cauto e interlocutorio con le singole figure di scrittori dell’età precedente, quelli di prima del disastro, e che hanno saputo attraversarlo. Spiando gli altri e le altre con atteggiamento a volte amoroso a volte risentito e sprezzante, ma sempre intuendone la vicinanza, il calcare la stessa scena, affrontare lo stesso comune ignoto. Come ronin, guerrieri samurai rimasti senza padrone, ma non senza onore. Tutti, senza rimedio, aldiqua della linea di confine, in ordine sparso. La linea che, senza necessariamente averne merito, i cosiddetti cannibali attraversarono per primi.

Si ringrazia il Magazine Littéraire.