La Sinistra Negata e gli Anni ’90
A cura di Nico Maccentelli
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Le puntate precedenti le trovate nei link a piè di pagina.
(Questa prima parte del redazionale dedicata agli Anni ‘90 è divisa in due puntate)
Parte prima: quale sinistra rivoluzionaria?
1. UN’ESPRESSIONE SCOMODA.
È difficile negare che l’uso dell’espressione “sinistra rivoluzionaria” susciti oggi un certo imbarazzo. Di solito, chi oggettivamente si colloca nella “sinistra rivoluzionaria” preferisce usare termini come “movimento”, “movimento antagonista”, “movimento comunista”, e cosi via.
Noi stessi lo preferiamo. Questa rivista si è però proposta, fin dal primo numero, di scrollarsi di dosso tabù e reticenze, verificando nell’intreccio fra passato e presente (che è il nostro modo di intendere la “storia”) la validità di concetti cui non intendiamo rinunciare solo perché il potere lo vorrebbe.
Uno di questi concetti è appunto quello di “sinistra rivoluzionaria”. Tentiamo, allora, di esaminarlo con franchezza, evitando soprattutto di rapportarlo a un grumo ideologico o a una sequela di dogmi.
Nei punti precedenti de La sinistra negata abbiamo già precisato, in riferimento al passato, quale sia l’unica “sinistra rivoluzionaria” che riteniamo abbia saputo autenticamente radicarsi nella società italiana, incidendo profondamente nel suo tessuto e conferendo al marxismo un volto inedito e “moderno”: quella che nasce dalla nuova composizione di classe degli anni Sessanta, trova un’espressione teorica d’alto livello nei Quaderni Rossi, cresce nelle lotte operaie e studentesche del 1968-71, si consolida nei gruppi extraparlamentari della prima metà degli anni ’70, intuisce e precorre l’emergenza di un nuovo proletariato precario, e giunge al proprio momento massimo di scontro e di rottura col movimento del ’77.
Altre “sinistre rivoluzionarie” sono esistite intorno a questo filone, oscillando però tra il grottesco (con la pletora dei vari partitini “marxisti-leninisti”, uno più caricaturale dell’altro), la tragedia (con l’epopea dapprima truce, poi solo vergognosa delle BR) e la più totale confusione (con la “lunga marcia dentro le istituzioni” di DP, finita in un punto più arretrato di quello da cui aveva preso le mosse).
No. Solo la “sinistra rivoluzionaria” cui alludiamo seppe mobilitare centinaia di migliaia di giovani, creare fratture tra società e potere, attaccare le istituzioni totali (esercito, carcere, scuola, manicomio), indurre generali modifiche dei rapporti di forza a favore del proletariato, conquistare legittimità culturale e legittimità sociale.
Sopprimerla divenne, per il potere e per la sinistra istituzionale, un dovere quasi rabbioso, da attuare nelle forme spietate da noi descritte nella parte della Sinistra Negata Ancora sugli anni Ottanta. Che cosa si intende dunque per “sinistra rivoluzionaria”?
2. L’IPOTESI “CILENA”
Il significato corrente dell’espressione “sinistra rivoluzionaria” è quello letterale. Una sinistra, di ispirazione maoista, che aspira a rovesciare il capitalismo e ad instaurare una società comunista attraverso una rivoluzione sociale. Detto questo, non si è però ancora detto nulla. Quale “rivoluzione”? Quale “comunismo”? Una volta di più, è nella storia dell’ultimo ventennio che dobbiamo cercare una soluzione.
Alla prima delle due domande, la sinistra rivoluzionaria italiana diede, nel periodo della sua massima espansione, almeno tre diverse risposte. Le potremmo sintetizzare in tre definizioni chiaramente inadeguate, ma utili:
1) l’ipotesi “cilena”; 2) l’ipotesi del “Palazzo d’Inverno”: 3) l’ipotesi delle “aree liberate”. Vediamole una ad una.
L’ipotesi che abbiamo definito “cilena” caratterizzò anzitutto il più consistente gruppo della sinistra rivoluzionaria, Lotta Continua, dopo il 1973 (in precedenza, LC faceva propria l’ipotesi del “Palazzo d’Inverno”) e venne di fatto abbandonata solo un paio d’anni dopo, quando il gruppo, ormai prossimo allo scioglimento, iniziò a delirare su possibili colpi di Stato militari “di sinistra” ricalcati sul modello portoghese – sintomo sicuro di un’agonia in fase avanzata.
Perché “cilena”? Perché traeva ispirazione dall’esperienza del MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria) cileno durante il governo de Unidad Popular. Quando, nel 1970, la coalizione di sinistra guidata da Salvador Allende salì al governo vincendo le elezioni, il MIR, gruppo clandestino a larga composizione studentesca, assunse una posizione dialettica. Pur desistendo provvisoriamente dalla lotta armata, non volle integrarsi nella coalizione di Unidad Popular, ma preferì sollecitarla dall’esterno a radicalizzare il proprio programma e ad adottare una linea di scontro con la borghesia. Così, ad esempio, mentre il governo Allende tentennava nel varare una riforma agraria di vasta portata, il Movimiento Campesino Revolucionario, espressione del MIR nelle campagne, guidava i braccianti ad occupare i latifondi; mentre il governo tentava di ingraziarsi l’esercito, il MIR premeva per la costituzione di milizie popolari e così via.
La prima considerazione che viene spontanea, riflettendo su questo schema, concerne la sua stessa genesi. Traendo ispirazione dal Cile, LC si ispirava in realtà ad un modello che era fallito, e fallito tragicamente. Il MIR – rimasto, si badi, gruppo minoritario anche negli anni di massimo fulgore – era stato travolto dagli eventi tanto quanto quella sinistra istituzionale che aveva troppo esitato a spezzare gli artigli della borghesia.
Ma una seconda considerazione sottrae credibilità al progetto di LC, che pure, sulla carta, a suo tempo poteva sembrare discretamente razionale. L’esperienza italiana (e non solo italiana: vedi Francia, Spagna, ecc.) ha ampiamente dimostrato che, nella propria marcia di avvicinamento per via elettorale alle leve del potere, la sinistra istituzionale non rimane uguale a se stessa, ma tende ad “istituzionalizzarsi” ulteriormente. Tende cioè ad assumere forme sempre più compatibili col sistema, rinunciando ai propri fini originari, rivolgendosi ad un soggetto sociale indifferenziato, smussando la portata delle proprie proposte.
Ciò, appunto, per il fatto che la via elettorale implica la conquista di maggioranze superficialmente politicizzate e poco inclini al cambiamento radicale, nel quadro di meccanismi che divaricano sempre più politica e società.
L’esito del processo è una sinistra istituzionale che, lungi dall’aprire spazi alle ali estreme, assume, dalle sue nuove posizioni di potere, un ruolo attivamente repressivo nei confronti del rivoluzionari. Lo si è visto, con tutta evidenza, nell’azione del PCI durante la rivolta di Bologna del marzo ’77 e negli anni della cosiddetta “emergenza”.
L’ipotesi “cilena”, insomma non regge, poggiata com’è su forze che possono giungere al governo di una società borghese solo modificando se stesse in quello stesso senso.
3. IL PALAZZO D’INVERNO.
L’ipotesi che chiameremo “del Palazzo d’Inverno” è quella più tradizionale, e più direttamente legata alla storia del movimento operaio. Prevede che, raggiunto un certo livello di tensioni sociali, il malcontento precipiti in un’aperta insurrezione popolare, che l’organizzazione rivoluzionaria di classe può ispirare, organizzare, guidare e condurre, a determinati fini.
L’ipotesi, che così formulata in termini generali è stata comune a buona parte della sinistra rivoluzionaria dalla fine degli anni Sessanta fino a tutti gli anni Settanta, conta numerose varianti. Si va dall’insurrezionalismo” vero e proprio, in cui largo peso hanno la spontaneità delle masse e il suo rapporto dialettico con l’organizzazione, alla “lotta di lunga durata, che prevede un graduale alzo di tiro e un passaggio da forme di lotta legali o modestamente illegali alla conflittualità armata, per arrivare alla “guerriglia partigiana”, in cui avanguardie sorrette da un consenso generalizzato danno vita ad embrioni di esercito, destinati, in un futuro più o meno prossimo, a trasformarsi in un’armata rossa e a scendere in guerra contro i poteri dello Stato.
Nel passato decennio circolarono manualetti che illustravano le modalità pratiche per attuare l’una o l’altra delle soluzioni. L’editore Savelli pubblicò ad esempio due volumi della Ligue Communiste Révolutionnaire francese – La rivoluzione in Francia e Maggio 68: una prova generale – in cui l’ipotesi “insurrezionalista” era illustrata nei minimi dettagli: dal canto loro le Brigate Rosse, più di altri gruppi armati, non furono avare di parole (né di fatti) per chiarire l’ipotesi di “guerriglia partigiana” da loro sostenuta, teorizzata anche nel volumetto di George Jackson Col sangue agli occhi.
Più spesso, tuttavia, la soluzione del “Palazzo d’Inverno” era fatta propria dai militanti della sinistra rivoluzionaria, estranei alle forme clandestine, solo tacitamente, né si avvertiva la necessità di menzionarla se non in termini estremamente vaghi, quale compito futuro più o meno inevitabile su cui era superfluo interrogarsi prematuramente. Non così i gruppi armati, convinti che la rivoluzione fosse già avviata e si concretizzasse nelle loro azioni – senza soffermarsi troppo sulla distanza che separa una serie di uccisioni individuali (più o meno “illustri”) dall’abbattimento di uno Stato e dalla presa del potere da parte delle classi subalterne.
Tanta approssimazione è comprensibile se si riflette sulle condizioni che l’ipotesi del “Palazzo d’Inverno” necessariamente richiede, così sintetizzabili:
1) Fratture insanabili, sia oggettive che soggettive, all’interno della società, dovute ad una situazione fattasi assolutamente intollerabile per ampi strati sociali. Non è un caso se la maggior parte delle rivoluzioni remote o recenti si colloca in concomitanza di una guerra o di altre situazioni di crisi gravissima; oppure se è rivolta contro una dittatura inaccettabile ai più. La semplice ideologia ha prodotto nella storia molte sommosse anche estese, ma nessuna rivoluzione autentica.
2) Un ampio consenso attorno alle avanguardie rivoluzionarie o ai gruppi di insorti. Non occorre, naturalmente, che si tratti di un consenso maggioritario, quasi “elettorale”; occorre però che sia diffuso nel settori chiave della società, là dove ogni scossa ha sul resto del corpo sociale gli effetti di un sommovimento tellurico. E non deve trattarsi di un semplice consenso passivo: è necessario che buona parte degli strati coinvolti sia disposta a scendere in campo a fianco delle avanguardie.
3) Una sostanziale neutralità dei ceti medi, venata da simpatie (con episodi di partecipazione attiva) nei confronti dei rivoluzionari. Mai, in nessuna parte del mondo, il proletariato ha attuato una rivoluzione e conquistato il potere da solo. Non è un caso che quasi tutti i movimenti di liberazione assumano la denominazione di “Fronte”.
4) Un esercito debole, una parte del quale sia contagiato da simpatie per i rivoluzionari. Si tratta di un punto che non necessita spiegazioni.
5) La vigenza di un sistema di alleanze che non consenta, o procrastini nel tempo, un intervento di eserciti alleati al governo in carica. A questo fine, occorre anche che l’atto insurrezionale sia sufficientemente rapido da anticipare l’intervento esterno e, più ancora, che gli eserciti potenzialmente in grado di intervenire siano impegnati in altri quadranti.
Altre condizioni sono elencabili – tra cui la presenza di avanguardie determinate e unite negli obiettivi di fondo – ma quelle enunciate sono quelle essenziali. Tanto essenziali che è sufficiente che una sola di esse non venga soddisfatta perché la pretesa insurrezionale si traduca in pura velleità,
Ora, è abbastanza evidente che nel corso degli anni Settanta, inclusi i momenti più “caldi” e le situazioni più avanzate, la maggior parte delle condizioni del nostro elenco non si poneva.
Con l’inizio degli anni Ottanta, anche quelle che in certa misura sussistevano sono venute meno. L’ipotesi del “Palazzo d’Inverno” non regge perché, salvo eventualità davvero imprevedibili, non ha alcuna possibilità d’attuazione. Inutile coltivare illusioni in questo senso. Il tempo dei sogni è tramontato.
4. LE “ZONE LIBERATE”.
L’ipotesi che chiamiamo “delle zone liberate” andrebbe meglio definita “del contropotere”. Le assegnamo quel nome, circolante attorno al ’77, solo ad indicare una fase in cui il contropotere si sia abbastanza generalizzato da produrre situazioni di dualismo e da dar luogo a momenti di scontro preinsurrezionale.
Si tratta, in sostanza, dell’ipotesi che già illustrammo nella seconda parte de La sinistra negata, in riferimento alle tesi sostenute dall’area dell’autonomia”. Giunta a determinati livelli di forza, la classe operaia innesca la transizione all’interno stesso della società capitalistica, esercitando capillarmente il proprio potere nel sociale e rendendo la sovrastruttura politica sempre più simile ad un vuoto involucro.
La rottura rivoluzionaria si colloca nella fase più matura di questo processo, ed è un atto praticamente solo formale, dal momento che le classi subalterne hanno già sovrapposto alla società del capitale la propria controsocietà, perfettamente funzionante.
L’espressione “aree liberate” (diffusa nel Movimento, ma non specifica dell’area dell’autonomia) stava appunto ad indicare quel settori del sociale in cui il contropotere – esercitato attraverso la rete dei comitati giovanili, di fabbrica, di quartiere, ecc. – era più diffuso, tanto da aver preso quasi completamente il luogo del potere statale. Sembrava possibile, allora, a chi viveva in simili situazioni di punta, dare una spallata definitiva relativamente indolore, vista l’apparente latitanza del sistema.
Lo schema era in fondo simile a quello adottato da diversi movimenti di liberazione (Irlanda, Corsica, Salvador, ecc.) impegnati a costituire nuove forme di società nelle aree sottoposte al loro controllo. L’accento era però posto non tanto sullo scontro armato risolutivo, quanto su forme articolate e diffuse di conflitto, violento e non, indirizzate appunto ad estendere e consolidare il contropotere.
Abbiamo già scritto che, a paragone di altre ipotesi, quest’ultima appariva più realistica, anche perché corrispondente ad una serie di situazioni di fatto. Ciò non toglie che, con l’inizio degli anni Ottanta e con l’opera di repressione-restaurazione ampiamente illustrata dalle puntate precedenti della Sinistra Negata, siano venuti interamente meno tutti i momenti di contropotere precedentemente instaurati dal Movimento, e carceri, scuole, caserme, ospedali, istituzioni psichiatriche siano tornati nelle mani dei padroni di sempre.
Ci si può chiedere se ciò sia dipeso da debolezze intrinseche al progetto, che ha sostanzialmente lasciato immutato il fulcro dei rapporti di forza nella società; di fatto possiamo affermare che l’operazione di riconquista delle posizioni perdute è indubitabilmente fallita a causa di un contesto di motivazioni, non ultima la profonda modificazione del contesto sociale del paese. Anche l’ipotesi delle “aree liberate” ha espresso per tutto il decennio passato tutti i suoi limiti.
Ciò significa forse dover rinunciare al concetto stesso di “sinistra rivoluzionaria”, e aderire alle regole del gioco imposte dal sistema? Oppure dedicarsi alla sola tematica ecologica, vista come condensato di tutte le contraddizioni? Crediamo di no. E cercheremo di spiegare perché.
5. MEZZI E FINI.
Cominciamo sgomberando il campo da un equivoco, cui noi stessi ci siamo assoggettati nelle righe precedenti. La nozione di “sinistra rivoluzionaria”, o il semplice aggettivo “rivoluzionario”, sono collegati ai fini oltre che ai mezzi. Ciò deve essere molto chiaro, trattandosi di un nodo teorico fondamentale. Grosso modo, chiameremo quindi “sinistra rivoluzionaria” un movimento che punta alla soppressione completa del capitalismo, inteso sia come sistema economico che come sistema di dominio politico-sociale, all’introduzione di forme sempre più estese di democrazia diretta e, tendenzialmente, all’abolizione delle classi e all’instaurazione di una società comunista. E che non è disposto a transigere su questi obiettivi di fondo, pur potendo di volta in volta adottare metodologie diverse per la sua attuazione.
Stabilita questa definizione, tutto diviene più chiaro: dal fatto che l’interesse esclusivo o quasi per tematiche parziali colloca oggettivamente chi lo coltiva al di fuori del campo della sinistra rivoluzionaria, fino al fatto decisivo ai fini del nostro discorso che all’interno della SR le soluzioni tattiche hanno un peso assolutamente secondario rispetto agli scopi strategici, dipendendo dalla configurazione del sociale e potendo mutare con essa.
In passato, su questo tema si è ingenerata notevole confusione. Si è, ad esempio, ritenuto più “a sinistra” chi adottava metodi più “violenti”, tanto che molti hanno rinunciato ad autodefinirsi come appartenenti alla sinistra rivoluzionaria quando le circostanze hanno imposto un parziale cambiamento dei mezzi da impiegare nella nuova fase. Ancor oggi, qualche idiota ritiene che distruggere una macchina qualsiasi durante un corteo elevi la qualità politica di quest’ultimo. Un’impostazione del genere deriva da un pregiudizio assurdo, in virtù del quale per fare un esempio paradossale – i social- rivoluzionari russi sarebbero stati più “a sinistra” dei bolscevichi, visto che i primi praticavano il terrorismo individuale ed i secondi no, o non sempre.
È tempo di sbarazzarsi di queste sciocchezze. Ciò che ha sempre connotato i rivoluzionari di ogni paese, Italia compresa, è stata un’assoluta duttilità nell’adozione dei mezzi, ferma restando l’intransigenza sugli obiettivi di fondo e sulla necessità di raggiungerli ad ogni costo. Storicamente, invece, l’idolatria dei mezzi ha caratterizzato a sinistra (una sinistra intesa in senso lato) due sole forze: i socialdemocratici, da Bernstein in poi («il movimento è tutto, il fine è niente»), e gli anarchici individualisti. Superfluo esprimere un qualsiasi giudizio su costoro.
“Sinistra rivoluzionaria” è dunque quella sinistra che non adotta sistematicamente né la violenza né la non-violenza per il conseguimento dei propri fini, ma è pronta ad impiegare i mezzi che la realtà le detta. “Sinistra rivoluzionaria” è quella sinistra che non rifiuta per principio le riforme, ma che non le chiede, e se eccezionalmente le chiede, lo fa in vista di scopi che trascendono il sistema vigente. “Sinistra rivoluzionaria” è soprattutto quella sinistra che intende farla finita col capitalismo, e che in vista di questo obiettivo agisce in forma di movimento nel sociale, evitando le gabbie istituzionali. “Sinistra rivoluzionaria” è, insomma, quella sinistra che ritiene che il movimento sia tutto, e il fine sia tutto.
Tutto ciò può sembrare ambiguo, ideologico o astratto. In realtà, la definizione trova preciso riscontro nella storia del movimento antagonista italiano degli ultimi decenni. Si è visto il contropotere articolarsi in momenti di urto frontale, come gli scontri di piazza, le “ronde” contro l’eroina o il lavo- ro nero, le occupazioni, gli espropri, ma anche in momenti di significato simbolico (come i vecchi “mercatini rossi” di Lotta Continua), di valore politico culturale (come le feste del pro- letariato giovanile, il cinema militante, ecc.) o di proposta alternativa (come le colazioni per i bambini proletari, gli ambulatori autogestiti, i centri sociali, ecc.). L’immagine dell'”autonomo” con la spranga (o la pistola) sempre in pugno e con benzina al posto del cervello appartiene tutta al nemico, non alla memoria del movimento antagonista (e tantomeno al suo presente).
Insomma, quanto più ci soffermiamo sul passato, tanto più scorgiamo un movimento duttile nelle sue forme d’azione, la cui natura rivoluzionaria era affidata alla determinazione con cui affrontava il sistema strappandogli il sociale con tutti i mezzi a propria disposizione, pacifici o violenti che fossero. Poi vennero i gruppi clandestini, che spostarono tutto sul terreno politico-militare, ma questo è un discorso che abbiamo già affrontato.
Sta di fatto che è in quella nozione, mobile eppure coerente, di sinistra rivoluzionaria (questa volta senza virgolette) che si risolve il problema di identità per chi oggi, in condizioni tanto più difficili, intende continuare quel cammino.
(Ne La Sinistra Negata 08 seguirà la seconda puntata della Prima parte: quale sinistra rivoluzionaria?)
Le puntate precedenti le trovate: 01 qui, 02 qui, 03 qui, 04 qui, 05 qui e 06 qui





