di Neil Novello

Liliana Cavani, Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura, a cura di Fabio Francione, Mimesis, Milano-Udine 2025, 14,00 euro.

All’origine dell’impegno cinematografico di Liliana Cavani sulla biografia di Simone Weil gravano un mistero e una lettura sconvolgente, cioè un ricordo imprecisabile e un’esperienza decisiva. Nella Conversazione con Liliana Cavani, curata da Fabio Francione e Roberto Revello, istruttivo documento di soglia a Simone Weil. Lettere dall’interno. Una sceneggiatura (Mimesis, 2025, già Einaudi, 1974), la regista di Milarepa confessa genericamente di «aver letto qualcosa su Simone Weil» sul «finire degli anni Sessanta». In seguito, menzionando un’imprecisata «testimonianza» di carattere autobiografico riferita alla pensatrice francese e relativa alla sua esperienza in fabbrica, implicitamente cita il celebre Diario di fabbrica, dolorosamente vissuto e scritto da Simone Weil alla metà degli anni Trenta del Novecento. Così l’autoritratto di Simone Weil operaia in fabbrica, in Liliana Cavani agisce come una struttura di risveglio, qualcosa che ricorda addirittura «Francesco», il santo di Assisi cui la regista di Carpi dedica il film televisivo del 1966 e il lungometraggio del 1989.

Come Francesco, così la pensa Liliana Cavani, Simone Weil «partecipa con tutta sé stessa» alle cose del mondo, rapita nel suo più spontaneo, reale atteggiamento di donna in medias res, di creatura calata «dentro la vita sociale», nella realtà. E ciò tocca un vertice nel momento in cui le due linee biografiche, quello della mistica e quella del poverello, si ‘incontrano’ proprio ad Assisi, il luogo in cui Simone Weil finalmente si reca a «trovare un fratello naturale». Di Simone Weil, di una tale «persona eccezionale» e della sua inclinazione umana, la sceneggiatura che Cavani scrive con Italo Moscati racconta la storia. È la vicenda esistenziale di una donna di passioni totali, una donna «che vuole vedere e capire», che «vuole partecipare» alla vita dell’inerme, del sofferente, del debole, dell’«indifeso», e che desidera, in realtà, conoscere il «vissuto» umano dall’interno, incardinata, ripiegata essa stessa proprio in quel concetto di interno equivalente a un’esperienza dal vero: il lavoro in fabbrica, e dunque il lavoro in campagna. E c’è anche altro. Per utilizzare due categorie care a Richard Sennet nell’Uomo artigiano, per Simone Weil si tratta di attraversare la linea di senso che corre da un modo all’altro di abitare il mondo del lavoro, il modo dell’homo faber e quello dell’animal laborans.

Così la sceneggiatura per un film mai realizzato su Simone Weil appare la descrizione di un «vissuto» totale, la ricerca di tracce in una travagliata, splendida biografia i cui salienti rimandano l’immagine di una figura grandiosa, di una pensatrice ritratta, tra le varie, radicali esperienze esistenziali, in un unico possibile luogo, inalterabile, sempre uguale a se stesso, nel cuore profondo dell’umano.

Così nelle aule del Liceo di Puy come per le strade della cittadina francese, tra la lezione scolastica e il lavoro di attacchinaggio notturno, la prima immagine di Simone Weil risponde a quella di una creatura alacremente all’opera. Ma tale opera non è solo impegno, è anche analisi, interpretazione, scrittura, pedagogia, cioè la disponibilità intelligente per l’altro, per la sua coscienza culturale, politica. La pensatrice si fa così testimone, o meglio «messaggera del vangelo marxista», secondo la definizione datane da un poliziotto, in sceneggiatura fissata nel suo colloquio con un commissario. È, questa, una prova evidente dell’engagement in Simone Weil. Esso emerge, già nella parte iniziale della sceneggiatura, nel corso di una «riunione dei professori» del Liceo Puy. Qui troviamo una prova relativa al suo metodo di pensiero, alla visione diretta e non tradita dei «reali problemi», insomma al mestiere di intellettuale impegnato e disorganico, cioè qualcosa che restituisce, forse più trivialmente, l’epiteto pronunciato dal bidello del Puy per indicare Simone Weil come una «Sporca marxista!».

La sceneggiatura di Cavani, la cui cifra strutturale e formale è fondata sull’interpellazione dello spettatore, dunque sull’intervista a più testimoni, dal compagno operaio all’infermiera del sanatorio britannico, in Simone Weil ritrae una voce aperta, a sua volta interpellante, un’intervistatrice inattuale, una voce che indaga, domanda, denuncia e al potere chiede risposte, come accade nella visita alle Fonderie Bernard. Qui la professoressa, per la prima volta intuisce la necessità di un’esperienza operaia personale, poiché avverte la parzialità di ogni giudizio sul lavoro se il lavoro non è svolto, vissuto sul campo. Il tracciato biografico di Cavani, infatti, espone la vita di fabbrica di Simone Weil alle Officine Lecourbe, nell’inferno del «lavoro alla pressa», aggiogata all’oggetto di una tortura interminabile, il «pezzo», e nell’affannoso tormento di una mostruosa «cadenza»: realizzare ottocento pezzi l’ora.

A tale riguardo, agli amici sindacalisti Claudius Vidal e Paul Simone Weil confessa di voler «conoscere sulla pelle» l’esperienza di operaia alla catena, e in segreto scrive il diario, tra inclinazione scientifica e indagine antropologica, di un martirio. È quindi rappresentata la condizione inumana di chi, tra la pressa e, in seguito, l’altoforno, sa che dovrà «smettere di pensare» per diventare essa stessa la macchina davanti a sé, mutando così la propria identità intellettuale in quella di una anonima «schiava». A Claudius Vidal, che idealmente l’ascolta in una sua meditazione solitaria, Simone Weil confessa che «davanti alla macchina si deve uccidere la propria anima per nove ore al giorno». L’esito più catastrofico del lavoro in fabbrica, cui la sceneggiatura di Cavani dedica il corpo centrale, è la perdita della «spensieratezza», lo stato di un’anima che finalmente si ritiene perduta al «termine» di una logorante esperienza.

Dopo aver richiesto e ottenuto un congedo bimestrale dal Liceo di Bourget, dove insegna dopo l’estenuante parentesi di operaia in fabbrica, Simone Weil è in viaggio. La memoria culturale, umana, del periodo di lavoro, in sé informa anche l’altra grande decisione della sua vita: «combattere» in Spagna contro i «falangisti». Ma la guerra di Simone Weil, nella sceneggiatura di Cavani non è una guerra, anzi è la sintesi di un’esperienza ridotta a un aneddoto, la ferita provocata dalla caduta di olio bollente sul «piede destro», e l’inaccettabile consapevolezza di «non essere un buon soldato». Al pari del significato ‘eterodosso’ del lavoro in fabbrica, l’altro grande capitolo, sia per le implicazioni umane sia per quella più propriamente spirituale, riguarda il menzionato lavoro in campagna. È un periodo di vendemmia, che Simone Weil trascorre presso il filosofo-contadino Gustave Thibon, nella sceneggiatura Marcel Thibon. «La sua idea era di mettersi a lavorare qui, in campagna, nella mia campagna. Aveva fatto l’operaia, ora voleva fare la contadina» dichiara Thibon. La «contadina», infatti, pensa proprio come l’«operaia», e ciò perché possiede una «vocazione speciale» per le «condizioni che la gente definisce “basse”».

Al momento dell’occupazione tedesca di Parigi, Lettere dall’interno fornisce un saggio letterario, quasi alla maniera ariostesca, di montaggio incrociato tra le sequenze sulla capitale occupata dai tedeschi e le sessioni di lavoro, da parte di Simone Weil, nella terra di Thibon. In altre parole, l’avvento dell’occupante pone il problema tra l’ebraismo di Simone Weil e il nazismo. Ciò determina la fuga della pensatrice, una fuga strumentale dapprima a New York, in seguito, e solo per ricongiungersi con la «Resistenza francese», a Londra, presso il Commissariato d’azione per la Francia. L’ultima tappa del «cervellone», che non esclude di ritornare in Francia per compiere più decisive azioni di «sabotaggio» o «spionaggio», è appunto cadenzata tra il Commissariato e la casa a pigione di Mrs Francis. Qui Simone Weil scrive a lungo sul tema dello «sradicamento», e più in generale lavora a La prima radice, vi lavora prima di essere ricoverata, dopo un inatteso sbocco di sangue, presso di Grosvenor Sanatorium ad Ashford, il luogo della sua morte.

Il momento più descrittivo della sceneggiatura ripercorre circa l’ultimo decennio della vita di Simone Weil. Tuttavia, essa racconta una vicenda umana esemplare, unica. Nell’apparente variazione del tracciato esistenziale (liceo, fabbrica, Spagna, campagna, religiosità, resistenza, Londra), in Simone Weil persiste e dura un’idea di vita come esclusiva esperienza reale, qualcosa che misura il nome stesso dell’esistenza in ciò che è radicalmente umano, in una sorta di permanente, ostinata discesa verso quel ‘basso’, quel limite inferiore in cui chi pensa, chi è chiamato a pensare, da Diogene di Sinope a Simone Weil, pensa al solo scopo di cercare l’uomo.