di Mario Coglitore
“In fondo il Negro non ha vita piena e autonoma: è un oggetto bizzarro: è ridotto a una funzione parassitaria, quella di distrarre gli uomini bianchi con il suo barocchismo vagamente minaccioso […].”
Roland Barthes, Miti d’oggi
Nel centenario della nascita di Franz Fanon, si celebra quest’anno la figura dello psichiatra antillano, famoso per il saggio I dannati della terra, scritto in punto di morte, o per il lavoro di qualche anno prima, Pelle nera maschere bianche (Cfr. Franz Fanon, I dannati della terra, a cura di Liliana Ellena, Torino, Einaudi, 2007; id., Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’altro, Milano, Marco Tropea, 1996, ed. or. 1952), un altro indiscusso capolavoro della tenace resistenza anti-coloniale dell’epoca. A Fanon viene molto spesso affiancato il conterraneo Aimé Césaire, conosciutissimo autore del Discorso sul colonialismo1, assieme a Léopold Senghor, poeta senegalese per vent’anni presidente del suo Paese d’origine.
Raramente, per non dire mai, il pensiero corre a Suzanne Roussi (1915-1966) – compagna di vita per molti anni dello stesso Césaire – il cui ricordo sfuma in una sorta di “rimozione di genere” tipica del pensiero declinato al maschile non soltanto nella cultura occidentale. Su di lei, una riflessione attenta diventa quasi un obbligo.
Roussi, straordinario esempio di donna e intellettuale dall’esistenza troppo breve, ha tentato, e prima di molti altri, utilizzando un registro culturale tipicamente femminile e “materno”, di sovvertire l’ordine colonialista che nella sua terra d’origine, la Martinica, segnava l’esistenza di donne e uomini condannati all’impietoso destino della subalternità. In quel contesto di forte contrapposizione sociale e culturale, la négritude2 veniva riaffermata come mezzo identitario di liberazione dal senso di continua “insufficienza” attraverso l’orgogliosa rivendicazione delle qualità peculiari dei neri. In una geografia interamente adagiata sul mare, e scossa non di rado dai cicloni che seminavano venti impetuosi devastando interi paesaggi, le Antille si dispiegavano nella loro purezza femminile suggerendo la liberazione da una schiavitù plurisecolare che passava per prima cosa attraverso il corpo delle donne.
Non c’è in Roussi un esplicito riferimento a una cultura propriamente di “genere” da recuperare e sulla quale articolare il processo di emancipazione dal sistema di dominio coloniale, perché con ogni probabilità il “feminino”, concetto a cui volentieri la nostra protagonista si rifà, più che il femminile, è un aspetto della struttura antropologica degli umani che travalica gli aspetti specificamente legati alla differenza sessuale e biologica. La nozione di paideuma elaborata da Leo Frobenius3, di cui Suzanne è stata appassionata lettrice, ci aiuta a capire meglio.
Lo studio delle manifestazioni del Paideuma costituisce una scienza nuova che Frobenius definisce la Morfologia delle culture. Morfologia delle culture che non è né storia primitiva, né preistoria, né storia moderna. Essa non accumula una serie di fatti e di date. Essa non è nemmeno archeologia – così come non è neanche etnologia o etnografia. No. Ciò che questa scienza vuole è studiare “l’essere organico” della civiltà4.
È la stessa forza che attraversa la Martinica, “sensuale, raggomitolata, estesa, distesa nei Caraibi”5. Un movimento delle coscienze che si fa storia e che va colto nel suo dispiegarsi inarrestabile, tra i tormenti interiori degli antillani che fanno i conti, devono fare i conti, con le loro “maschere bianche”. Leggiamo ancora:
[…] la trama dei desideri inappagati ha preso in trappola le Antille e l’America. A partire dall’arrivo dei conquistadores e dallo sviluppo delle loro tecniche (a cominciare da quelle delle armi da fuoco), le terre d’oltre-Atlantico non hanno solamente mutato d’aspetto, ma sono state prese dalla paura. Paura di venire superate da coloro che restavano in Europa, già armati ed equipaggiati, paura che venisse fatta loro concorrenza da parte delle popolazioni di colore che ci si affrettava a dichiarare inferiori per meglio vessarle6.
La ricostruzione storica che propone Roussi è di una esemplare limpidezza: i colonizzatori volevano creare una società “americana” più ricca e più potente per distinguerla da quella europea, abbandonata dopo la partenza verso altri lidi e nello stesso momento nostalgicamente rimpianta; a qualunque prezzo, anche a quello della spregevole tratta dei negri. Così le colonie divennero l’inferno che sono state, invase da “demoni avventurieri”, avanzi di galera, “penitenti e utopisti”. Dopo tre secoli la tragica epopea coloniale continuava a mietere le sue vittime, i popoli sottomessi non riuscivano, nonostante sanguinose guerre per l’indipendenza, a rompere le catene imposte dal Vecchio continente, e i nativi non smettevano di comportarsi in modo spesso “infantile e romantico”.
Di nuovo, richiamando una metafora sul corpo, Suzanne Roussi taglia il “nodo di Gordio” di questa lacerante contraddizione che nega all’assoggettata/o la possibilità di dichiarare la sua impellente voglia di libertà. E parrebbe questo, quasi, il “corpo della storia”, una plurisecolare sudditanza incistata nel profondo della psicologia del subalterno che le/gli impedisce di trovare la pace dell’emancipazione.
Bisogna avere il coraggio di mostrare, sul volto della Francia, illuminata dall’implacabile luce dei fatti, la macchia antillana, dal momento che parecchi anche tra i Francesi sembrano determinati a non tollerare su di esso alcuna ombra7.
Soltanto così si rivelerà la totale inconsistenza dell’Europa che si autoproclama origine culturale assoluta e che arretrando per una volta dentro i suoi confini, dopo decenni di conquista implacabile, lascerà spazio finalmente alla voce dell’“altra/o”.
La “planetarietà”, in qualche misura, cioè la capacità del messaggio di ribellione di valere per tutti gli oppressi e contro tutti gli oppressori, apparteneva già al sogno antillano rinfocolato nel paideuma, attraverso la riappropriazione concreta, fisica, delle proprie radici, della propria lingua e dei propri costumi, dell’ethos in una parola, all’interno di una dimensione universale che abbraccia il mondo intero. Per fermare il processo di decadenza umana innescato dalla colonizzazione, Roussi invocava la luce delle Antille che, offuscata dall’incapacità nelle donne e negli uomini di quel mondo in declino di ritrovare in sé stessi il germe della propria liberazione morale e psicologica, poteva ancora risplendere. Il “grande camuffamento” assopiva le coscienze, “con la fame, con le paure, con gli odii, con la ferocia che bruciano nella cavità delle montagne”8.
Lei, giovane martinicana, al crepuscolo della seconda guerra mondiale e nell’alba incerta del mondo, più che post-, neo-coloniale, rivendicava l’energica consapevolezza della donna di colore in lotta contro la follia della scienza, della tecnica e delle macchine che aveva partorito il “pensiero imperialista” responsabile dell’assedio del pianeta, per diventare finalmente padroni di un nuovo destino9.
Se qualcosa di noi sopravvive dopo la morte, lo troveremo certamente nel ricordo di chi resta. Con le parole della figlia Ina, affidiamo quest’ultima nostalgia di Suzanne Roussi alla nostra memoria:
Mia madre che credeva più alle lotte che alle lacrime, mia madre dallo humor che colpiva nel segno, dalla gioia velata di malinconia, dalla salute fragile, ma dall’infaticabile tenacia. La mia indimenticabile madre, che non ha potuto invecchiare. Suzanne Césaire, nata Roussi. Maman Souzy. É così che noi la chiamavamo10.
(Il presente intervento è frutto della rielaborazione di alcune pagine, dedicate a Suzanne Roussi, del mio saggio Viaggi coloniali. Politica, letteratura e tecnologia in movmento tra Ottocento e Novecento, edito da Il Poligrafo, Padova, 2020.)
Cfr. Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Roma, Edizioni Lilith, 1999 (ed or. 1955). ↩
Il termine négritude venne usato per la prima volta da Aimé Césaire nel 1935, nel terzo numero della rivista “L’Etudiant Noir”. Césaire rivendicava l’identità e la cultura nera contro quelle francesi, adoperate come strumento di oppressione da parte dell’amministrazione coloniale. Il concetto fu poi a lungo ripreso da altri. ↩
Frobenius (1873-1938), noto etnologo tedesco, si interessò a lungo di culture africane svelandone agli europei il valore. Il concetto di paideuma è centrale nei suoi studi: il paideuma è la capacità di apprendere che un individuo o un gruppo omogeneo manifestano; gli esseri umani e più estesamente le società vengono determinati e caratterizzati da un insieme di valori lungo le linee direttive di una civiltà. Si veda Leo Frobenius, Paideuma. Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell’anima, a cura di Luciano Arcella, Milano, Mimesis 2017. ↩
Suzanne Césaire, Leo Frobenius e il problema della civiltà, in ead., Il grande camuffamento, Scritti di dissidenza (1941-1945), Milano, Jaca Book 2011 (ed. or. 2009), p. 28. Articolo comparso nella rivista “Tropiques”, n. 1, 1941. ↩
Suzanne Césaire, Il grande camuffamento, in ead. Il grande camuffamento, cit., p. 75. Articolo comparso nella rivista “Tropiques”, nn. 13-14, 1945 ↩
Ivi, p. 75. ↩
S. Césaire, Il grande camuffamento, cit., p. 76. ↩
S. Césaire, Il grande camuffamento, cit., p. 80. ↩
S. Césaire, Leo Frobenius e il problema della civiltà, cit., pp. 34-35. ↩
Ina Césaire, Suzanne Césaire, mia madre, in S. Césaire, Il grande camuffamento, Scritti di dissidenza (1941-1945), cit., p. 109. ↩