di Franco Pezzini

(Qui la prima puntata).

The Perils of Pauliska

“Tale dottrina assurda e barbara è quella di una setta recentemente stabilitasi a Torino. Ad ogni buon conto le signore sono invitate a tralasciare tutto questo paragrafo”. Suona così una delle rare note dell’autore, barone Jacques-Antoine de Révérony Saint-Cir (o Saint-Cyr, 1767-1829) al romanzo Pauliska o la perversità moderna (1798), terzo dei titoli trattati nel volume critico Viaggi al termine del desiderio che stiamo esaminando. Per il Piemonte l’autore francese, letterato versatile e ufficiale del genio di grande cultura, attivo sotto Luigi XVI e Napoleone, non sembra avere molta simpatia: basti dire che il loschissimo italiano membro di una banda di falsari a Buda – si chiama Falso, nomen omen – viene detto esprimersi “nel suo brutto piemontese”, probabilmente un francese imbastardito rispetto all’elegante lingua internazionale; e nello stesso gruppo figura un “certo Gervasio, piemontese, [che] era una specie di tigre feroce assetata solo di sangue e di crudeltà”.

Sull’onda della criptica nota succitata ci spostiamo dunque idealmente dagli ariosi spazi verdissimi dall’Inghilterra meridionale allo scacchiere di palazzi sei-settecenteschi (strade strette e ombrose, cortili, edicole sacre, innumerevoli chiese barocche, e stemmi più o meno irriconoscibili) del centro storico di Torino. Parecchi dei palazzi – può dedurlo anche il turista distratto – appartenevano a vecchie famiglie aristocratiche o agli innumerevoli ordini religiosi poi colpiti dalle leggi Siccardi: ormai decaduti, vedranno la grande immigrazione dal Mezzogiorno occuparne i labirinti alla Escher tra spazi scale corridoi anditi, in un confronto col nucleo popolare indigeno che porterà a mescidare dialetti e culture. E più avanti, a colpi di costose ristrutturazioni, fenomeni di gentrificazione o un diretto passaggio a grandi banche & assicurazioni, mentre a piano terra e nei vicoli ferve la movida.

Se però studiamo con attenzione gli atri di questi palazzi (magari soprattutto quelli polverosi e scrostati), il fiorire di colonne e scalinate patrizie, persino certi sfiati sui marciapiedi dalle cantine – particolari i cosiddetti occhi del diavolo, per la strana forma delle fessure –, non è impossibile cogliere qualcosa dei fantasmi culturali di una Torino lontana. La città del Settecento contraddittoriamente bacchettona e vivace, nota come luogo di passaggio internazionale e di sosta, tra carrozze e facchini, prima o dopo il varco delle Alpi: dove riposare, giocare, mangiar bene, eventualmente amare bene – parola di Casanova qui presente sette volte, che lamenta però la piaga del brulicare di spie e poliziotti – e con un po’ di frisson recato ai benestanti dalle massonerie. Il misterioso riferimento della nota qui citata (certamente romanzesco, forse satirico), alla setta che a Torino praticherebbe una certa “dottrina assurda e barbara” può costituire una frecciata proprio a qualche gruppo massonico subalpino, razionalista e scientista. Peraltro forse nell’ambito di una polemica che vedrebbe nelle grandi rivoluzioni settecentesche contro le Sacratissime Monarchie il burattinaggio delle Logge.

Della terza pala del trittico Viaggi al termine del desiderio – o piuttosto polittico, vedremo perché – si occupa Francesca Pagani nel contributo Una stagione all’inferno: Pauliska ou la perversité moderne: un esame attento su questo testo strano e poco noto, cui è possibile accostarsi tramite l’edizione italiana apparsa nel 1991 per Le Lettere (Révéroni Saint-Cir, Pauliska o la perversità moderna, a cura di Elena Del Panta, nella bella collana “Biblioteca del Settecento Europeo”).

A tirar fuori dal dimenticatoio Pauliska ou la Perversité moderne; Mémoires récents d’une Polonaise, omesso dai repertori classici del gotico – tecnicamente è un roman noir, ma torniamo alla problematicità di etichette in qualche modo sovrapponibili – è solo Michel Foucault (Un si cruel savoir, «Critique», n. 182, luglio 1962, poi ripreso in Dits et écrits, 1954-1988, Quarto Gallimard, 2001) e a quel punto gli studi si susseguono, evocando Laclos e Sade. In effetti sembra difficile che Révéroni Saint-Cir non abbia letto almeno Justine: pur considerando che la damsel in distress è una figura ultracanonizzata, qui sembra proprio di vedere un influsso diretto, che tuttavia conduce in una direzione un po’ diversa.

Certo, procedendo entro il dedalo del romanzo siamo tentati di immaginarcelo letto da Paolo Poli, a far esplodere dall’interno tutte le implausibilità melodrammatiche. Resta però, nota Pagani, la

 

straordinaria ricchezza degli spunti forniti da questo testo singolare, in grado di risultare estremamente problematico nel suo porsi quale sintesi di tutta una tradizione, quella del romanzo gotico, che ha improntato di sé tanta parte della letteratura europea di fine Settecento e, al contempo, nella sua capacità di anticipare componenti significative dell’immaginario novecentesco, ciò che ne determina la non certo casuale empatia con i suoi critici,

 

Foucault in prima linea.

La trama. La contessa Pauliska è una “rifugiata polacca [a richiamare insomma alle terre di Jan Potocki] celebre per la sua bellezza e per le sue sventure”, che l’editore del volume incontrerebbe a Losanna: la esorta a pubblicare le memorie da lei scritte, e dopo iniziali resistenze la Nostra acconsente.

Il quadro storico è quello delle lacerazioni della Polonia a fine Settecento, tra la cosiddetta seconda spartizione, decisa da Russia e Prussia nel 1793, e la terza da Russia, Austria e Prussia nel 1795, con tutto ciò che intercorre in mezzo (rivolta nazionale guidata da Tadeusz Kościuszko, repressione da parte dalle truppe russe del generalissimo Aleksandr Vasil’evič Suvorov e prussiane, intervento anche dell’Austria eccetera). Dopo un’irruzione di soldataglie russe nella sua proprietà a tre leghe da Cracovia, l’appena venticinquenne vedova Pauliska è costretta a fuggire con il figlio di otto anni Edvinski e il giovane temerario cavaliere di Malta Ernest Pradislas – fotocopia degli insipidi classici innamorati delle eroine gotiche, e di cui infatti la Nostra puntualmente s’innamora. Tra penose vicissitudini, arriva come altri rifugiati in territorio ungherese, presso l’indigeno barone di Olnitz, e si crede al sicuro: ma mentre Ernest temporaneamente svapora (preda del gioco la delude, e alla fine si allontana col corpo militare in cui è stato pronto ad arruolarsi) lo spiacevole barone si rivela una presenza sempre più ingombrante. Quando un “acuto dolore a un braccio” ridesta Pauliska dallo svenimento per l’addio di Ernest, il barone giustifica il tutto – vecchia storia – col malore attivo (“Avete avuto uno spaventoso attacco di nervi […] e vi siete morsa orribilmente nonostante i miei sforzi”); ma solo dopo una settimana di prostrazione e medicazioni al braccio, una notte la Nostra riceve una visita inaspettata. Attraverso un passaggio segreto dietro lo specchio vede infatti comparire zitta zitta la brava governante Madame Gerboski, che in assoluto silenzio porge a Pauliska un messaggio scritto. Quanto avviene nella stanza, riporta, è sorvegliato:

 

Sappiate che il barone è uno spaventoso maniaco, ateo, chimico di grande scienza, naturalista delirante che fa esperimenti su delle sventurate abbastanza insensate da credergli. Temete la sua eloquenza, il potere del magnetismo di cui fa uso e soprattutto le sue composizioni chimiche. Egli ha dei segreti inauditi… Tremate!

 

Insomma la Nostra si scopre prigioniera di un mad doctor, che per sovrapprezzo la separa dal bambino, intendendo crescerlo secondo i dettami della sua setta… Alle nefandezze del barone torneremo, per ora limitiamoci a dire che madre e figlio vengono fatti evadere dalla buona signore Gerboski.

In seguito, sintetizzando al massimo, Pauliska incontra in una grotta un’adunanza di altri profughi polacchi; assiste alla rotta delle truppe che avrebbero potuto portarli in salvo; giunta a Buda impoverita, risponde a un’offerta di lavoro e si ritrova in un covo sotto il Danubio, prigioniera di un’organizzazione criminale internazionale al soldo della perfida Albione, che apparecchia assassini e documenti falsi per danneggiare la Francia. In quell’occasione rischia lo stupro, e viene persino costretta a manovrare il bilanciere d’un torchio strangolando – senza saperlo – un altro giovane prigioniero, Durand, con cui progettava la fuga (ma niente paura, più avanti scopriremo che non è morto). Liberata da un’irruzione di guardie che è riuscita a richiamare fortunosamente, scopre che il figlio è stato sottratto dal solito barone; e ritrova il bell’Ernest, che le racconta la propria avventura tra le grinfie della setta delle Misantrofile, ostili al maschio, quindi le melodrammatiche vicende con una fuoriuscita della setta stessa, la bella Julie, che si trova ahinoi costretto a sposare: si tratta di un primo ampio racconto incluso.

Allora la Nostra desolata tenta il suicidio ma è salvata da Ernest, suscitando la gelosia inferocita di Julie, che la spedisce via nottetempo; giunta a Bologna riconosce nell’immagine dipinta di un Gesù Bambino i tratti del figlio, risale al pittore – tal Paolo Guardia – e tra innumerevoli difficoltà ritrova il piccolo; apprende poi da lui come sia stato oggetto di contesa tra Guardia, deciso a cederlo quale voce bianca al Cardinale Legato (anzi un certo frate Tagliantino, sorta di orrido mieloso ghoul, sta già preparando i ferri) e il fratello del pittore, agente del barone, che intende riportarvelo per attirar lì la preziosa Pauliska – e proprio a tal fine ha disseminato l’Europa di quadri con il bimbo quale modello. Questo del piccolo Edvinski è un secondo lungo racconto incluso (in realtà ce n’era stato un altro, molto più breve, di Durand); e le pagine su di lui tra le mani degli aspiranti castratori – da cui ha cercato di salvarlo la pedofila Zefirina, sorella del pittore – sono tra le più tese del romanzo. Comunque i cattivi sembrano in apparenza messi in grado di non nuocere e la verità viene proclamata in tribunale.

Pauliska decide dunque di trovare rifugio a Roma, ma qui rincontra il barone e viene rapita nuovamente: anzi il mad doctor coi suoi esperimenti sull’aria celeste risulta persino migliore di un altro personaggio che ora conosciamo, di grado più alto nell’organizzazione della setta, “il celebre avvocato Salviati […] famoso magnetizzatore e Illuminato”, che per produrre il suo fluido magnetico utilizza bambini e giovani donne (ovviamente Pauliska) vincolandoli a strane macchine. In compenso la Nostra ritrova rocambolescamente Durand, che credeva di aver strangolato a Buda e che aveva solo finto di morire (nuovo racconto incluso); ed è lui a condurre la retata che libera Pauliska, solo per determinarne l’accidentale incarcerazione quale sospetta complice della setta. Un’incarcerazione che durerà un lungo anno, e solo dopo molte pressioni degli amici si avrà il processo… Ma dopo ulteriori complicazioni che si risparmiano qui al lettore, Salviati farà scatenare un’esplosione nel carcere: la pedofila Zefirina mostruosamente ustionata (la scena è da horror) salva Edvinski restituendolo a Pauliska, Salviati resta vittima della sua trovata e al salvataggio della contessa giunge lo stesso Ernest felicemente vedovo, visto che la moglie si è spenta uccisa dalla sua stessa gelosia. E finalmente Ernest può sposare Pauliska in un happy end che, se non cancella tutte le amarezze, almeno restituisce un po’ di pace.

La lanterna magica di questo riassunto può aver causato giramenti di testa, ma sembrava necessaria per offrire almeno una vaga idea del vorticoso tipo di storia. Assai più fitta di meraviglie di quanto qui reso: a parte il respiro internazionale di piani criminali alla Spectre, il senso di minaccia costante e il costante tentativo di approfittare della protagonista (e in generale dei deboli) per lucro piacere scienza, Pauliska o la perversità moderna è un tripudio di gabbie che si sollevano a imprigionare, porte segrete e meccanismi rotanti nei muri, poltrone che serrano improvvisamente chi sta seduto, botole che s’aprono sotto la sedia, automi in funzione erotica, trovate chimiche o magnetiche recanti improbabili effetti… Basti dire che la filiale di Berlino delle Misantrofile teorizza di usare il metodo di Spallanzani, che “ha dimostrato la possibilità di procreare senza che vi sia rapporto col sesso maschile” (nota esplicativa dell’autore) e invia casse di “amanti portatili”: manichini cioè richiamanti immagini classiche – o se preferiamo neoclassiche alla Canova, quel certo Apollo, quel determinato Enea – in cui infondere un calore artificiale, e dotate (bontà loro) di un “moderno accessorio […] in grado di produrre tutti i fenomeni e i risultati dell’amore”. Inevitabile pensare all’automa femminile Olimpia dello Spalanzani di Hoffmann (L’uomo della sabbia, 1815), che ci si può chiedere se avesse letto questo romanzo di diciassette anni prima.

In Pauliska tutti si travestono, a varcare barriere sociali (la Contessa si traveste da contadina), di sesso (Julie si veste da uomo su un set di guerra, Ernest da donna per un diverso tipo di battaglia con la zia di lei e un abate furfante) o comunque d’identità (Edvinski è usato quale modello a interpretare una serie di personaggi di quadri). Indicativo è che l’oggetto virtualmente rivelatore d’identità, lo specchio della stanza-cella dell’eroina nel palazzo del barone, copra in realtà il passaggio segreto di un continuo andirivieni di buoni e cattivi, a disvelare una realtà molto diversa da quella riflessa: cela in sostanza l’accesso all’alterità. E del resto Pauliska è un vorticoso, continuo cambiar panni narrativi, un meraviglioso punto di snodo tra i più vari filoni già noti – dal gotico al romanzo filosofico e utopistico al pamphlet antirivoluzionario (una serie di scandali che sgretolano la credibilità dell’establishment francese sono presentati come frutto della dezinformatsiya dell’Inghilterra) – e altri filoni che arriveranno, come il feuilleton.

Pagani esplora poi altri temi, per esempio il ruolo curioso – in quella che in fondo è la storia di una damsel in distress – delle giovani figure maschili di continuo martirizzate persino più di lei: uomini-racconto (Ernest, Edvinski, lo stesso Durand in misura più ridotta) che offrono testimonianza diretta delle proprie penose traversie. Ma a subire vessazioni non sono solo singole persone: attraverso le peripezie di una Pauliska dal nome quasi assonante, la Pologne/Polonia assurge a paradigma della terra violentata dai giochi di potere dell’età moderna. Opportunamente Pagani abbina l’inizio di questo romanzo a quello del Candide, con “il castello di Thunder-ten-tronckh invaso e distrutto dai Bulgari e Cunegonda violentata e gravemente ferita: è l’inizio di una sequenza di sventure che costituiscono la sua iniziazione” tra “incessanti spostamenti di truppe”, eco in fondo dell’esperienza militare dell’autore. Ma insieme con un richiamo indiretto alla “violenza rivoluzionaria che ha spazzato via la vecchia Europa. […] Un vento panico passa sul continente, minacciando gli individui e le istituzioni” (M. Delon, Préface a Pauliska ou la perversité moderne, Desjonquères, 1991): anche se, badiamo, “l’oggetto del romanzo non è direttamente politico. Lo diventa nella misura in cui trascrive le inquietudini e le angosce dell’epoca” (ibidem). Pauliska è fitto di scontri militari – con le loro brutture, gli orridi caporioni, i disastri della guerra – e di continue fughe, di carrozze che attraversano l’Europa come un unico crocevia, di separazioni e inseguimenti.

 

I protagonisti sono quelli consueti del romanzo gotico: banditi,  monaci, aristocratici viziosi, sette segrete, talvolta composte da sole donne, e l’ambientazione, a sua volta, ripropone spazi collaudati, vale a dire foreste, grotte, castelli, percorsi impervi fra montagne con pareti a strapiombo e torrenti minacciosi […] Le descrizioni, tuttavia, sono così inconsuete da anticipare le immagini di artisti come William Turner e John Martin, e da risultare persino pre-filmiche […] La scenografia dominante, in cui si svolgono gli episodi più signifi cativi, è quella del mondo sotterraneo, consegnato all’oscurità: è questo il caso dell’antro dove Pauliska trova rifugio fra gli emigrati polacchi. Ancora una volta, è possibile constatare il carattere innovativo del testo di Révéroni: infatti, pur avvalendosi di topoi assai ricorrenti quali, per l’appunto, quello della grotta, egli ne offre una rielaborazione secondo un immaginario che, probabilmente, è debitore degli spettacoli, assai alla moda in quel periodo, delle fantasmagorie […] La tappa successiva vede, con una invenzione assolutamente sorprendente, Pauliska prigioniera nel sotterraneo di un convento presidiato da una banda di falsari e collocato sotto le acque del Danubio.

 

Un ruolo peculiare ha però un personaggio, il losco barone di Olnitz, e in particolare l’episodio nel suo palazzo solleva interessanti questioni.

Eccolo anzitutto comunicare a Pauliska che prenderà alcune misure nei suoi confronti finché lei non sentirà “il desiderio ardente” di iniziarsi ai “nostri misteri sacri”: per cui le fa giungere manoscritti che permettano di meditare sulle scienze profonde che sperimenteranno assieme. Prima di congedarsi le morde leggermente l’avambraccio e le taglia alcuni capelli; e un paio d’ore più tardi un meccanismo nel muro fa apparire un pasto leggero e carte “scritte in rosso” dove la poverina nota questo paragrafo:

 

“L’amore è una rabbia, e come tale malattia può essere inoculato con il morso”. In margine era scritto: “(Dieta). Ossa di tortora incenerite, canfora e pelle di serpente. (Operazioni). Morsi reiterati”.

“Così tutto è fisico!” esclamai indignata; le virtù, i talenti, tutto ciò che tocca l’anima non è che illusione… Sfogliai qualche pagina con sdegno e capitai su questa strana prescrizione:

“Poiché l’amore è l’unione fisica di due esseri, affinché le masse si confondano date impulso agli atomi. Provocate un’irritazione sulle fibre con cenere di capelli e ciglia dell’operatore. Forte inspirazione attraverso i pori: frizione ripetuta sulla pelle. Come bevanda, l’operatore darà il suo alito convertito in fluido”.

Da quel momento guardai con orrore il cibo che mi veniva presentato.

 

Più avanti, basta che lui le applichi al petto una mano impregnata d’una certa polvere bianca per farle sentire il cuore turbato e un “calore indicibile” in tutto il corpo, strappandole forse un involontario “sguardo di tenerezza”; e una successiva toccatina lo fa sembrare munito di “tutte le grazie della bellezza e della gioventù”. Anche più peculiare è il procedimento che chiama inoculazione: prima le asporta dalla gamba con un morso un lembo di pelle che provvede a bruciare e ingerire; quindi a sua volta si rimuove con il bisturi un tocchetto di pelle, lo brucia assieme a un ciuffo dei propri capelli versandovi alcune gocce del proprio alito trasformato in fluido, e applica il tutto tramite una garza sulla ferita di lei. Mentre la linfa della medesima l’applica alla propria ferita… eccetera.

Dove il procedimento concettuale del barone si rivela forse meno semplicistico di quanto possa apparire di primo acchito. Più che attraverso la semplice inoculazione di un composto afrodisiaco, il desiderio viene creato artificialmente attraverso un’assimilazione, un assorbimento metabolico in chiave sim-patica che richiama a un equilibrio complesso: assistendo all’incinerazione di piccoli frammenti di pelle e all’assunzione in varie forme di quella cenere, è inevitabile pensare alla rosa di Paracelso che appunto dalla cenere torna a risorgere, e a tutto un immaginario alchemico che ancora in ambienti rosicruciani troverà spazio. Anche ciò che impatta più immediatamente sulle reazioni erotiche di Pauliska, la descritta polvere bianca, non si esaurisce nel classico afrodisiaco chimico (e, a dispetto del tipo di consistenza, difficilmente guarda a un fronte lisergico): si tratta di una polvere magnetica, suscita vapori ed effervescenza in un gioco di fluidi.

Ma il barone non vuole profittare delle “repentine convulsioni del desiderio”, bensì vedere Pauliska convinta, in sostanza educarne il desiderio lentamente:

 

Bisogna che io faccia passare in voi tutto l’amore che mi trasporta, e da voi a me una parte della vostra amabilità e della vostra freddezza. Occorre che tra noi due si stabilisca l’equilibrio. Non ricorrerò alla trasfusione di sangue, che spaventerebbe un animo ancora debole [ovviamente si accenna alle trasfusioni sperimentalissime che la medicina andava tentando con risultati ancora poco promettenti]; e d’altra parte, con la mia inventiva, ho escogitato modi assai più ingegnosi e meno rivoltanti per praticare l’inoculazione dei desideri, e anche di quelle qualità che voi chiamate morali e che, come i desideri, sono solo il prodotto degli impulsi fisici, un gioco di ingranaggi che si può modificare a volontà.

 

Quando poi Pauliska prova la curiosità “di sapere su quali basi quell’uomo aveva potuto fondare il suo atroce sistema”, ecco inserita la nota sulla presunta setta di Torino, che invita le signore a tralasciare il paragrafo seguente. Tralasciarlo forse per la sua aridità dottrinale ma soprattutto per le sue scandalose implicazioni: in preteso linguaggio scientifico si disserta infatti di un fluido dalle caratteristiche estreme, “l’aria celeste, massimo incanto della vita e base di ogni godimento”, cioè fondante il meccanismo del piacere. E lo sdegno manifestato da Pauliska per i danni recati alla sua integrità fisica o psicologica sembra persino minore del suo scandalo per questa derubricazione di un intero orizzonte di desideri ed emozioni a fatto meramente materiale: “‘Così tutto è fisico!’ esclamai indignata”.

Sulle modalità degli esperimenti, come ovvio, l’autore gioca al paradosso. Ma occorre ricordare che la chimica delle streghe aveva per secoli fatto ricorso a particelle fisiche (capelli, fluidi, umori…) e lo stesso occultismo moderno ne giustifica dottrinalmente l’uso rituale: l’ascrizione qui di alcune pratiche a un contesto materialista/scientista parla il linguaggio di quella fase tra Sette e Ottocento in cui in un unico calderone culturale sobbollono residui (riletti ma ben riconoscibili) di pratiche magiche, e in generale di credenze esoteriche non più perseguitate e riemergenti, assieme a nuove istanze filosofiche “razionaliste” – con o senza virgolette. La dialettica terminologica tra quei Lumières che traduciamo illuminismo e il quasi omonimo ma diversissimo illuminisme – la traduzione come illuminatismo dice forse troppo, ma già suggerisce un certo sentire teosofico che avvicina Boehme, Swedenborg, de Pasqually, Willermoz, de Saint-Martin e parecchi altri, in qualche modo fino a Blake e oltre – richiama indicativamente due poli estremi, ma la realtà del secolo è ben più varia, ambigua e sincretica. Gli stessi gruppi massonici conoscono una tendenziale polarizzazione tra quelli a impianto razionalista e altri di tipo magico/mistico, pur attraverso comuni connotazioni esoteriche sul piano della comunicazione simbolica. Del resto nel dialogo più avanti tra il pittore e il fratello si accenna esplicitamente che “Il barone passa per un Illuminato [illuminé], per un settario antipapista”: a contrapporre un tipo di vilain a un altro (quel clero che castra bambini per aver voci bianche), richiamando nella definizione un soggetto-mattatore dell’immaginario tardosettecentesco, il famigerato Ordine degli Illuminati di Baviera. Più avanti anche Salviati sarà definito “Illuminato” e il nome verrà applicato al suo giro di complici, anche se è plausibile che nel romanzo la definizione richiami in senso generico ed estensivo membri di una setta pericolosa, materialistica e atea, latrice di arcani misteri.

La storia è nota: il gelido professor Adam Weishaupt (in arte Spartacus, 1748-1830) aveva inventato a tavolino un gruppo in grado di rivaleggiare e poi infiltrare la stessa Massoneria, partito con qualche goffaggine tra pochi studenti e in poco tempo dilagato ben oltre i confini bavaresi, ad aggregare professionisti e aristocratici malati di mistero; e al netto di tanto romanticismo poi versato sul tema, i documenti – molti, e pubblicati da tempo – rivelano tra le sue pieghe un caso di manipolazione immaginale con teatralissimi rituali e un impressionante sistema di spionaggio dell’anima, in primo luogo degli affiliati. A cavalcioni tra verità simboliche e vere menzogne, l’ossessione per la segretezza sparigliava tra i livelli gerarchici dell’Ordine letture profondamente diverse sul senso dell’iniziazione (con idee religiose e politiche radicali solo per gli alti gradi: panteismo ateistico e una sorta di comunismo), rendendo ancor più confusi i confini d’epoca tra illuminazioni razionalistiche ed esoterico/misticheggianti. Del profilo tortuoso di Weishaupt (lettere, testimonianze) e delle sgradevoli connotazioni manipolatorie della sua utopia si può virtualmente ravvisare qualche traccia negli appunti del barone, che constata algido in Pauliska “Rimpianti troppo prolungati, da sopprimere. Indebolire l’immaginazione. Estinguere i ricordi, affinché il desiderio prevalga”.

La parabola dell’Ordine bavarese è breve (1776-1786), fino allo scioglimento e a una repressione piuttosto blanda, ma resta di incredibile potenza mitopoietica, innervando gli odierni cospirazionismi web. Ampie le risonanze anche letterarie, e uno dei Northanger horrid novels, lì ricordato con il titolo inglese The Horrid Mysteries. A Story From the German Of The Marquis Of Grosse ma in realtà traduzione (di Peter Will, 1796) del romanzo tedesco Der Genius, Aus den Papieren des Marquis C* von G** vede il protagonista confrontarsi con una cattivissima setta comunista che sono sostanzialmente gli Illuminati. Se poi quelli “originali” di Baviera non coltivavano in quanto gruppo attività chimiche, queste trovavano attenzione in giri (ideologicamente parecchio diversi, ma) culturalmente non distanti, come certe realtà rosicruciane; e comunque il mito degli Illuminati inciderà sulla saga di corpi del Frankenstein, per cui il nesso con le pratiche qui descritte non stupisce.

Come non stupisce neppure che, partita idealmente la persecuzione di Pauliska in quella medesima Mitteleuropa, lo sviluppo simbolico la conduca tra le ombre dell’altro polo di vilain, una Roma gotica:

 

una città in piena decadenza come la descriverà qualche anno dopo Chateaubriand […] Qui verrà imprigionata nei sotterra nei di Castel Sant’Angelo, un mondo piranesiano tutto consegnato all’orrore, in una creazione di straordinaria efficacia. Révéroni, anticipando la sensibilità romantica, quella dell’Adolphe (1816) di Benjamin Constant, istituirà un rapporto fra lo stato d’animo e l’ambiente.

 

Sul filo della provocazione esaminata in incipit, legittimo a questo punto domandarsi se un gruppo del genere esistesse a Torino, tra gli antichi palazzi da cui siamo partiti. In realtà non ne esistono tracce note, e l’ipotesi di uno strale satirico sembra la più plausibile. Tanto più che – come detto – a Torino risulta fin dal Settecento una presenza significativa della Massoneria, e la Privata società di giovani intellettuali costituita nel 1757 da Luigi de La Grange, Giovanni Cigna e Giuseppe Angelo Saluzzo di Monesiglio (con altre personalità della cultura piemontese-savoiarda e dell’Illuminismo francese come d’Alembert e Condorcet) poi eretta nel 1783 da Vittorio Amedeo III in Reale Accademia delle Scienze, sembra nata come espressione pubblica di una loggia massonica. Aggiungiamo che, divenuta Reale Accademia con funzioni di consulenza al re, si vede assegnato l’ex collegio dei Nobili, ospitante fin dal 1824 anche le collezioni del Museo Egizio: e considerata la potenza simbolica dei riferimenti egizi nella cultura massonica, il terreno sembra insomma fertile di suggestioni. D’altra parte la Reale Accademia delle Scienze coi suoi contatti internazionali nasce nel 1783, quando gli Illuminati sono attivissimi: e insomma un po’ di materiale per uno spunto fantasioso Révéroni può ben trovarlo, se non qualche soffiata su storie che però non possiamo confermare.

A sottostare comunque alle trovate del barone è tutto un discorso sul desiderio: desiderio che, nel romanzo,

 

è innanzitutto volto al possesso e al controllo, di qui gli incatenamenti, le gabbie e le prigioni di ogni sorta. Gli obiettivi del barone sono tesi a inoculare la passione o a stimolarla tramite il fluido elettrico nella sua vittima, affinché quest’ultima sia prigioniera del suo stesso desiderio per il proprio carnefice. Come l’elettricità che può generarlo, il desiderio è un fluido, che produce l’effetto di una reciprocità – l’essere a propria volta desiderati – e, per le modalità con cui può essere attivato, va a tradursi in una sorta di vampirismo o cannibalismo: la pelle viene strappata a morsi e divorata, il respiro assorbito. Ma questo desiderio è talmente pervasivo e totalizzante da porsi, all’interno di una visione puramente materialistica, come l’unica forma di trascendenza.

 

Questa dimensione vampiresca del desiderio, al termine di un secolo in cui non si sentiva parlare che di vampiri (parola di Voltaire), trova un’icona eccellente nel barone, rincontrato con effetto shock da Pauliska a Roma come Dracula da Harker a Londra:

 

improvvisamente scorsi, sotto il lampione che illuminava la scala principale, un uomo alto e allampanato: uno spettro non avrebbe potuto spaventarmi di più. Quell’essere, dagli occhi scintillanti nel volto livido, mi fissa, si porta l’indice alla fronte come per evocare un ricordo minaccioso, poi tutt’a un  tratto appoggia sul proprio avambraccio tre lunghi, spaventevoli denti… fedele immagine di una tigre insaziabile!… Riconobbi immediatamente il barone d’Olnitz, credetti di sentire di nuovo il suo morso che mi penetrava fino al midollo e rimasi come annientata dal suo sguardo di basilisco.

 

Un vampiresco, anziano ma capace a tratti di ringiovanire, alto aristocratico ungherese, vestito di nero, con occhi scintillanti nel volto livido che quasi paralizzano, un tipo che morde e inocula una peculiare intossicazione, in un contesto dove oltretutto si parla anche di trasfusioni, non può che richiamare il lettore odierno al conte Dracula (in realtà senza nessi fondati, sembra improbabile che Stoker conosca questo romanzo). Ma è un fatto che il mondo immaginale retrostante Pauliska – magmatico di suggestioni e mitemi, di correnti culturali ora provocatoriamente emergenti e ora del tutto sotterranee – influenzerà con potenza la letteratura fantastica, fino a infinite ricadute nella mitopoiesi cinematografica.

Torniamo però al desiderio:

 

Il romanzo si costituisce come una singolare proliferazione di desideri eterogenei – passione, possesso, erotismo – che si dispiegano nei modi più disparati, ma che la narrazione si preoccupa di reprimere e contenere, incessantemente: di qui, come fa osservare Foucault, l’importanza, anche simbolica, dell’ossessiva presenza degli spazi chiusi, delle prigioni, delle caverne. Il desiderio è in costante stato d’assedio, condizione da cui verosimilmente trae ulteriore alimento, come dimostra la perversa gestione delle appartenenti alla setta delle Misantrophiles; tuttavia, come si evince anche dal funzionamento dei vari congegni e pratiche che possono suscitarlo, non può essere governato.

 

Dove il nesso tra imprigionamento in spazi chiusi e congegni ci richiama all’immaginario di un’epoca, al brulicare per esempio di macchine minacciose e strambe nelle Carceri piranesiane: per cui non ci stupiamo troppo che nei luoghi di reclusione di Pauliska la tecnologia riveli un volto perverso. Come le stanze sotto il Danubio dove il torchio da stampa diviene macchina di supplizio per il povero Durand che la protagonista in apparenza strangola, stampandogli addosso al contempo un foglio recante le parole “morte e dannazione per i traditori!” (Pagani: “Inevitabile, a posteriori, risulta il rinvio a Nella colonia penale […] di Kafka, dove la vittima è anche il carnefice di se stesso: immesso nella macchina destinata ad ucciderlo, questa incide automaticamente sul suo corpo la sentenza per la sua colpa”). O come il palazzo romano dove sono installate la campana pneumatica del barone e la strana attrezzatura magnetica di Salviati che ricorda certe macchine di Sade (vi vengono legati prima due bambini, poi Pauliska stessa con Zefirina).

Per non parlare degli altri usi non convenzionali della scienza, come gli effetti speciali scatenati negli anditi labirintici e goticissimi di Castel Sant’Angelo da Salviati – mix ideale di Cagliostro e Giuseppe Francesco Borri (1627-1695, morto in prigionia proprio lì) – in un vertiginoso intreccio di richiami. Quando anzi Salviati, esibitosi in alcuni roboanti prodigi a base di calamite e composti chimici, se ne esce con “Così la folgore punisce i profani!” finisce con l’evocare un duplice richiamo ai lettori: cioè a quel fulmine che aveva accidentalmente ammazzato un associato agli Illuminati, permettendo l’inopinato emergere dei loro documenti segreti (evento poi interpretato come epifania di giustizia divina contro i blasfemi); e insieme all’altro fulmine, ora letterario, cui Sade attribuisce beffardo la morte dell’arcivirtuosa Justine. Anche se poi lo stesso Salviati finirà ucciso – ennesima folgore – dalle sue trovate esplosive.

 

Non è certo infrequente imbattersi, nei romanzi settecenteschi, in macchine di varia natura, ma Pauliska è forse il primo esempio di un’opera che articola la sua narrazione essenzialmente attorno a delle invenzioni meccaniche, ovvero delle apparecchiature scientifiche, inaugurando un percorso che avrà nell’Ottocento le sue esemplificazioni più significative, dal Frankenstein (1818) di Mary Shelley all’Ève future (1886) di Villiers de l’Isle-Adam, dal Doctor Jakyll and Mister Hyde (1886) di Stevenson al Château des Carpathes (1892) di Jules Verne. Con Révéroni Saint-Cyr sono il magnetismo e l’elettricità a costituire lo spunto fondamentale dell’immaginario scientifico, che si avvale per l’appunto dei ritrovati di Franz Anton Mesmer e degli esprimenti di Luigi Galvani e di Lazzaro Spallanzani, il quale aveva dichiarato fra l’altro che il corpo animale è una bottiglia di Leida organica. La “pompe à feu” di Chaillot è del 1781, Lazare Carnot, inventore della termodinamica, pubblica il suo Essai sur les machines en général nel 1784, il 14 maggio 1796 Edward Jenner vaccina per la prima volta un bambino. Al pittore Joseph Wrigth of Derby si deve l’illustrazione quanto mai suggestiva proprio della prima esperienza scientifica che prelude a quelle del barone d’Olnitz, effettuata da Robert Boyle nel 1659: si trattava dell’utilizzo della pompa pneumatica per creare il vuoto e produrre un graduale processo di asfissia su un volatile. Nel caso del dipinto di Wright of Derby, L’esperienza della pompa pneumatica (1768), la cavia-vittima è un piccolo pappagallo.

 

Ma se la vera novità ravvisabile nell’opera può essere costituita da questo “attingere al sapere scientifico, ciò che popola la narrazione da una profusione di oggetti inconsueti, destinati a divenire sempre più frequentemente sfondo, e talvolta soggetto, della produzione romanzesca successiva”, il secondo nodo-chiave e filo conduttore riguarda proprio la seconda parte del titolo, la perversità moderna. Presentata in forma diversa e più inquieta, ben più incerta di quanto Sade stia impostando (fin da Justine). Così, nell’introduzione, alla richiesta di pubblicare le memorie, Pauliska risponde:

 

Lo vedete bene, tutto ciò che i romanzieri moderni hanno ideato in quanto a spettri, a fantasmi raccapriccianti, a perversità immaginarie [pensa a Sade?] non si avvicina neppure alla funesta realtà degli eventi di cui sono stata la vittima e che mi fanno credere alla fatalità.

 

Del resto, tranne qualche cattivo principale che muore (quel vecchio maniaco del barone che alla fine Pauliska compiange, e soprattutto Salviati), gli altri escono di scena con condanne lievi o nulle, attraverso un sistema di protezioni ramificatissimo e losco: l’autore non si fa illusioni sulla giustizia del mondo. In effetti, continua Pagani:

 

Poco dopo, e sempre in questa pagina introduttiva, ritroviamo un riferimento alle maximes perverses che caratterizzano la modernità e che, come le perversités imaginaires, rinviano ad una concezione più che ad uno specifico comportamento. L’epoca moderna sembrerebbe volgere ogni comportamento nel proprio contrario: Pauliska, onesta, si trova a dover stampare della moneta falsa, lei, innocente, causa lo strangolamento di una vittima pure senza colpa, lei, che detesta il proprio persecutore, viene messa nella condizione di provare sensazioni di piacere nei suoi confronti e di constatare l’impossibilità di sottrarsi ad un sentimento di cui prova vergogna, ancora, costantemente preoccupata di custodire il proprio pudore, viene fatta spogliare nuda dal perfido Salviati per i suoi esperimenti. Tutto sembra funzionare alla rovescia nel mondo praticato da Pauliska, senza che ce ne sia la “ragion sufficiente”, proprio come in Candide. Qui però l’ironia dimostrativa di Voltaire è sostituita da un’angoscia esistenziale.

 

Se Pauliska alla fine può riflettere dove conduce la pretesa di “un primo passo verso l’immortalità” – riducendo tutto come Salviati a un materialismo egoistico, derubricando ogni principio a chimera, associandosi con scellerati – anche in fondo per l’autore

 

la perversité moderne risiede […] non solo e non tanto nello stravolgimento dei valori e dei princìpi, ciò che si limiterebbe a fotografare l’allineamento dello scrittore alla società e all’epoca che gli sono proprie, ma, e secondo una prospettiva squisitamente peculiare, nella sovversione di quel portato della cultura scientifica che troverà, nel secolo successivo, un’ampia condivisione.

 

Ritiratosi dall’esercito nel 1814, col grado di tenente colonnello del genio, Révérony continua a scrivere come ha fatto tutta la vita, lasciando  un’ampia produzione tra romanzi, commedie e libretti d’opera (tra i quali guarda caso un Cagliostro, ou les Illuminés, opera comica in tre atti, 1810), testi scientifici e storici. Sforzandosi forse troppo, dice qualcuno, fino a subire vari attacchi di apoplessia: le sue condizioni mentali precipitano e alla fine viene internato in una casa di cura a Parigi, dove muore il 19 marzo 1829. Difficile dire quanto i turbamenti delle pagine di Pauliska, quelli su una perversità peculiare che – forse non a torto – gli pareva soffiare sul mondo moderno, potessero ancora angosciarlo.

[2-continua]