di Gioacchino Toni

Paola Nicita (testi), Emanuele Lo Cascio (fotografie), Centro senza centro. Le periferie di Marc Augé con un’intervista inedita sullo Zen di Palermo, Mimesis, Milano-Udine, 2025, pp. 152, € 15,00

«Cambiare il punto di vista teorico, e di conseguenza reale, è davvero una priorità necessaria per considerare il mondo nella prospettiva di una giustizia sociale […] Quindi la città contemporanea dovrà compiere una scelta: se essere costruita con le parole della democrazia o, al contrario, dell’aristocrazia del sapere» Marc Augé

Centro senza centro (Mimesis, 2025) è un volume dedicato allo Zen di Palermo che si compone di testi di Paola Nicita, fotografie di Emanuele Lo Cascio e un’intervista a Marc Augé, studioso che ha dedicato attenzione a quelle periferie delle città di cui, normalmente, politici, amministratori e media sembrano accorgersi soltanto in occasione di episodi di cronaca, unici momenti in cui riaffiorano dall’oblio a cui altrimenti sembrano destinate.

Lo Zen – acronimo di Zona Espansione Nord – è una realtà edificata attraverso stratificazioni di cemento e disgregazioni sociali, segnata da sovra-costruzioni che abitano spazi e architetture per giungere alle vite – sempre quelle degli altri – plasmate in strettoie, disagi, connessioni mancate, che fanno dell’assenza il cuore pulsante del suo stare al mondo. Come del resto accade in tutte le periferie del mondo, l’eco sbiadita e distante di ciò che avviene ai margini, rispetto a un centro che è tale per consacrazione sociale e strutturazione economica, diviene parola chiara solo in occasione di fatti che trovano spazio e narrazioni per lo più connotati da un segno negativo, dove riecheggiano termini come colpa, condanna, delitto (p. 6).

Guardando alle modalità attraverso le quali ha preso forma lo Zen palermitano, Nicita sostiene che il motivo per cui il tentativo progettuale di fornire uno spazio confortevole agli abitanti si è perso per strada «generando caos e incompletezza, mancanza e alienazione», derivi principalmente dal fatto che non è stato «immaginato nel suo contesto reale» (p. 20). La storia dello Zen si può dire prendere il via con le devastazioni della seconda guerra mondiale che crearono necessità abitative a cui occorreva dare risposta che avrebbero poi dato luogo a una lunga serie di mobilitazioni popolari, a interventi politici ufficiali e di base, a occupazioni, a cambiamenti urbanistici che si sono succeduti sino agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso sino a prolungarsi nei progetti del nuovo millennio, incapaci di connettere efficacemente spazio, cittadini e opere urbane.

Lo Zen, puntualizza Augé nel corso dell’intervista, si pone agli antipodi dei non-luoghi, essendo al contrario un luogo dotato di un’identità forte e definita, incentrata sulle relazioni; non ha nulla a che fare con il vuoto e l’incomunicabilità che caratterizza i non-luoghi come le stazioni e gli aeroporti che si ripetono uguali ovunque. Lo studioso francese sottolinea anche la diversa percezione della periferia che hanno coloro che la abitano rispetto a quanti le guardano da fuori. Per quanto modeste possano essere, le abitazioni delle periferie sono pur sempre per chi le abita l’ambiente di vita quotidiana a cui non possono che guardare con orgoglio; è lo sguardo esterno, dalla città, ad osservare negativamente le periferie e chi le abita.

Quando le periferie iniziarono ad essere costruite nel corso degli anni Sessanta, queste erano state pensate come luoghi confortevoli e autosufficienti, destinati a rispondere a tutte le necessità della classe media che avrebbe dovuto abitarle. A riscriverne radicalmente funzioni e destinazione, ricorda Augé, furono i grandi mutamenti sociali che, proprio nel momento in cui prese il via la loro edificazione, cambiarono radicalmente il tessuto sociale, economico e urbano.

«La periferia oggi è una circonferenza senza alcun centro. È un’espressione che definisce un luogo che ha a che fare con il desiderio e la mancanza. Oggi le periferie sono una realtà molto complessa e quella che una volta era la periferia si infiltra nella città, e chiaramente l’opposizione a cui guardiamo adesso non è più geografica, ma essenzialmente sociale» (p. 12). Per quanto siano percepite come del tutto estranee alla città, è in realtà all’interno di queste che si trovano le nuove periferie; la distanza che separa queste ultime dal centro è più di tipo sociale che non fisico.

La meta-città globale, dove apparentemente tutto sembra funzionare alla perfezione, lascia il posto alla città-monumento: una visione contemporanea dettata dalla visibilità, che pone l’urgenza di inventare altri luoghi, immediatamente riconoscibili, costruiti probabilmente da celebri architetti che fanno a gara per realizzare l’edificio più alto. La meta-città è l’ideologia di un sistema, mentre la città-mondo è la verità del sistema: al suo interno, nascosti, ci possono essere rifugiati, clandestini, campi profughi. Il processo di globalizzazione è andato avanti ed è avvenuto un processo di omogeneizzazione, ma anche di esclusione, che vede da una parte la concentrazione del potere nelle mani di pochi, e dall’altra la creazione di una massa di consumatori passivi che sono legati a una crescente povertà. Per questo motivo, occorre tenere sempre presenti i concetti di uguaglianza e disuguaglianza (p. 15).

Nel volume Nicita tratteggia alcune riflessioni che sono state svolte sulle metropoli riguardanti: il concetto di civiltà urbana di cui si sono occupati, sin dagli anni Quaranta del secolo scorso, da Gregory Bateson e Margaret Mead; le distinzioni tra mappa e territorio; il ruolo del capitalismo nella produzione e nella gestione dello spazio urbano indagato da Henri Lefebvre già nel corso degli anni Sessanta; lo spazio come elemento fondante per la riflessione sui luoghi e le relazioni tra essi di cui si è occupato Michel Foucault sempre sul finire dei Sessanta; la distinzione fra spazio percepito e spazio vissuto proposta da Edward Soja negli anni Ottanta; l’inscindibilità tra luoghi e chi li abita che ha condotto Arjun Appadurai a introdurre il concetto di ethnoscapes; l’urgenza di decolonizzare le periferie a cui fa riferimento Sonia Dayan-Herzbrun; il territorio come luogo del simbolico, oltre che del politico al centro delle analisi di Andrés Rodríguez-Pose; lo spazio come elemento non di costruzione, ma di ricostruzione del senso e del riconoscimento sociale, politico e dunque personale e soggettivo su cui insiste Marc Augé.

Nicita ripercorre anche le modalità con cui il cinema italiano ha storicamente narrato le periferie ricordando: le «periferie della città fredda e concettuale» de L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni; le «periferie calde di vite errabonde di umanità» di film come Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) di Pier Paolo Pasolini; le opere «sospese sul crinale tra realtà e sogno» come La dolce vita (1960) e La città delle donne (1980) di Federico Fellini; le narrazioni televisive capaci di spiazzare gli immaginari stereotipati dei palinsesti televisivi di Cinico TV (1987) di Daniele Ciprì e Franco Maresco; gli universi periferici di Gomorra (2008) e L’imbalsamatore (2002) di Matteo Garrone, di Suburra (2015) di Stefano Sollima e de La terra dell’abbastanza (2018) dei fratelli D’Innocenzo.

Restando all’abito audiovisivo, il quartiere Zen lo si ritrova nei documentari CityZen (2015) di Ruggero Gabbai, Un giorno allo Zen di Luca Capponi, nei film di finzione Un destino migliore (2023) di Gaetano Di Lorenzo, Scianèl (2024) di Luciano Accomando, Mery per sempre (1989) e Ragazzi fuori (1990) di Marco Risi, L’ora legale (2017) di Ficarra e Picone, Io sono tempesta (2018) di Daniele Luchetti (2018), oltre che nel cortometraggio Comandare (2005) di Costanza Quatriglio. Tra i limiti di questi sguardi sullo Zen, non si può non notare che, tranne l’ultimo caso, si tratta esclusivamente di sguardi maschili.

Come accade in altre periferie, anche lo Zen di Palermo ha i suoi musicisti: dal collettivo Villa Muerte fondato da Dante LSD e Y.Zeezy, attivi anche individualmente, a Picciotto.

Periferie sonore che fanno riecheggiare una volontà di trovarsi in luoghi da conquistare attraverso musiche invisibili, come questi centri mancati, onde sonore che reclamano spazi e visibilità attraverso voci di protesta, gioco e affermazione, frammentando e sincopando parole e legandole alle immagini di un quartiere che ha urgenza di normalizzarsi anche attraverso forme artistiche nate per sottolineare la protesta. Rap, crew e dialetto palermitano mischiati insieme per dar vita a un gergo internazionale, locale eppure universale, nuovo possibile storytelling per raccontare un quartiere che vuole essere narrato, cantato, vissuto, abbandonando i panni di uno scomodo fantasma (p. 39).

Circa le fotografie di Emanuele Lo Cascio, sempre concordate con i soggetti ritratti, scrive Nicita che «nella loro configurazione, e nel loro essere narratrici-portatrici di storie, costituiscono una sorta di ideale configurazione iconografica degli abitanti di un quartiere, descritto nello svolgersi di una quotidianità che non sembra accusare il peso dei pregiudizi, perché uomini e cose sono osservati senza alcuna modalità a priori: lo sguardo non segue una direzione già tracciata, ma intraprende la strada da percorrere per la prima volta, da scoprire, svelare passo dopo passo» (p. 40).

Lo Cascio evita di sottrarsi dall’universo che fotografa, tenta di eliminare ogni distanza dai soggetti ritratti, siano essi esseri umani, animali, architetture od oggetti. Si può affermare che alle immagini rubate dai media al quartiere in occasione di qualche fatto di cronaca, Lo Cascio contrappone, attraverso la sua fotografia, momenti di incontro.

Nel parlare di una periferia che Emanuele Lo Cascio definisce attraverso le sue fotografie come illimitata, si affrontano i temi del dominio dello sguardo come elemento caratterizzante il giudizio sociale, capace di creare confini e limiti attraverso il suo stesso posizionamento. Immagini che raccontano di una rifondazione possibile degli spazi e delle architetture, che può accadere solo grazie alla necessaria re-visione dei corpi che le abitano, e che viene posta in essere solamente nel momento in cui avviene la rifunzionalizzazione del punto di vista dell’osservatore. È proprio qui che è urgente la zona di espansione, quella della nostra significazione, della sua rielaborazione. Un passaggio necessario, dove lo stare dentro lo spazio assume il significato di stare con i suoi abitanti, recuperando la giusta distanza, quella necessaria per essere umani (p. 9).