di Gioacchino Toni

Pierre Dalla Vigna, Rappresentare l’irrappresentabile. Lo sguardo “obliquo” nel cinema sulla Shoah e in altre catastrofi, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 120, € 14,00

Su come l’arte e il cinema possano o meno trattare l’enormità della Shoah si sono accumulate nel corso del tempo numerose e importanti riflessioni; diverse voci autorevoli hanno messo in guardia dai tentavi di illustrare, trattare, esprimere la Shoah nelle diverse forme artistiche in quanto destinate a dar luogo, loro malgrado, a forme di estetizzazione, banalizzazione, spettacolarizzazione, inverosimiglianza e voyeurismo. L’enormità della Shoah e le riflessioni che si sono generate attorno ad essa la rendono un ambito privilegiato per indagare come le manifestazioni artistiche e, in particolare, l’ambito cinematografico, abbiano finito per far ricorso a “visioni oblique” per affrontare quanto è stato ritenuto non direttamente rappresentabile.

È proprio alle visioni oblique a cui ha fatto ricorso il cinema per affrontare l’Olocausto nazista ed altri orribili crimini, nel tentativo di evitare di scivolare nella spettacolarizzazione e nel voyeurismo della violenza più estrema, che guarda il volume Rappresentare l’irrappresentabile (Mimesis 2025) di Pierre Dalla Vigna. La disamina proposta dallo studioso prende il via con alcune opere che, evitando di affrontare direttamente il genocidio, incentrano la narrazione su eventi che lo precedono ma che al tempo stesso lo fanno percepire come imminente: Il giardino dei Finzi-Contini (1970) di Vittorio De Sica, derivato dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani, a sua volta ispirato a vicende autentiche di una famiglia ferrarese sterminata ad Auschwitz; Cabaret (1972) di Bob Fosse, musical ambientato durante la Repubblica di Weimar in cui lo spettro dell’Olocausto è evocato da personaggi secondari; La nave dei folli (Ship of Fools, 1965) di Stanley Kramer, film in cui viene messo in scena l’atteggiamento vessatorio ed emarginante nei confronti di un ebreo e un nano da parte di un gruppo di tedeschi dalle esplicite simpatie naziste nel corso di una crociera del 1933.

Della Shoah, ricorda Dalla Vigna, esistono alcuni frammenti visivi e si ritrovano nelle fotografie scattate clandestinamente nel 1944 da appartenenti a un Sonderkommando operante ad Auschwitz-Birkenau e in alcune riprese aeree anglo-americane, oltre che nei documentari girati dalle truppe sovietiche e statunitensi al loro arrivo nei campi di sterminio. Proprio questi ultimi materiali visivi sono poi stati utilizzati da Alain Resnais nel suo docu-film Notte e nebbia (Nuit et brouillard, 1956), insieme a materiali audiovisivi dell’epoca nazista e sequenze a colori girate in Polonia sui luoghi che furono teatro dello sterminio con il commento di una voce fuori campo. «Il tutto è di estremo coinvolgimento e conduce il pubblico a ricostruire il genocidio senza spettacolarizzare l’orrore, ma imprimendo nella memoria il senso più profondo dell’evento» (p. 35).

Dalla Vigna si sofferma anche su Un vivo che passa (Un vivant qui passe, 1999) di Claude Lanzman, opera che riflette sull’ottundimento di quanti pur avendo visto qualcosa non sono stati in grado di comprendere quanto visto in riferimento al campo di Theresienstadt, in Boemia, allestito ad arte dai nazisti per mostrare le buone condizioni di prigionia dei detenuti per essere mostrato attraverso immagini documentarie girate dal regime e, in forma diretta, attraverso le visite pianificate per alcuni osservatori internazionali. Il ricorso a operazioni di mascheramento della realtà, che non di rado sfruttano il credito acritico che si tende a concedere alle immagini nonostante la consapevolezza della loro sempre più facile manipolabilità, caratterizza evidentemente anche la contemporaneità più stretta, ma al di là delle messe in scena esplicitamente truffaldine e delle immagini volutamente falsificanti la realtà, resta il difficile rapporto tra testimonianza-documentazione storica e verosimiglianza cinematografica.

Non potevano mancare riflessioni sul controverso Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo, liberamente derivato da Se questo è un uomo scritto da Primo Levi tra il 1945 ed il 1947. Il  film è incentrato su una giovane ebrea francese disposta a tutto pur di sopravvivere al Lager che troverà modo di redimersi sacrificandosi per consentire la fuga di un gruppo di prigionieri. Il ricorso a scene particolarmente crude ha indotto cineasti e critici come Jacques Rivette e Serge Daney ad accusare il film di voyeurismo, ostentazione dell’orrore, estetizzazione della morte, mentre altri, come Alberto Moravia, hanno evidenziato come, a fronte di una corretta ricostruzione scenica, è come se Pontecorvo guardasse più allo spettatore che non al materiale su cui dovrebbe concentrarsi il film. La storia d’amore messa in scena nella seconda parte del film, scrive Dalla Vigna, «costruisce un artificio falsificante che contrasta con una realtà troppo orrorifica per essere rappresentata a freddo. Il divario tra il mettere in mostra l’indicibile di Auschwitz, che rischia di scivolare nel compiacimento dell’orrore, e le necessità di una trama cinematografica consolatoria per rendere più sopportabile l’orrore stesso, ha dunque come risultato una duplice insoddisfazione» (p. 38).

A modalità oblique di affrontare la Shoah ricorrono anche Il pianista (The Pianist, 2003) di Roman Polanski, derivato dall’autobiografia scritta nel 1946 del musicista ebreo-polacco Władysław Władek Szpilman scampato al genocidio, e Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) di László Nemes, che incentra il film su un membro di un Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau alla ricerca di un rabbino che possa recitare la preghiera funebre per il figlio che crede di aver riconosciuto tra i cadaveri. Sullo sfondo della vicenda messa in scena viene mostrato il tentativo di alcuni detenuti del Sonderkommando di lasciare una testimonianza fotografica degli eventi.

Ad essere preso in esame dallo studioso è anche il recente La zona d’interesse (The Zone of Interest, 2023) di Jonathan Glazer, film liberamente tratto dall’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis che mostra l’ostinazione con cui la famiglia del comandante del Lager di Auschwitz desidera vivere come idilliaca la quotidianità che trascorre in una dimora confinante con il campo di sterminio non vedendo e non volendo vedere ciò che accade oltre le mura di cinta. Se la contiguità tra l’idillio della famiglia nazista e i prigionieri condannati alle camere a gas può rimandare alla “zona grigia” dei privilegiati all’interno dei lager di cui parla Primo Levi ne I sommersi e i salvati, scritto nel 1986, tuttavia, sottolinea Dalla Vigna, la “zona d’interesse” è di ben altra natura, essendo situata «nel campo dei carnefici meno consapevoli del proprio ruolo, dei parenti degli esecutori diretti, in diretto rapporto con la banalità del male che Hannah Arendt ha voluto riscontrare persino in uno degli artefici più significativi dell’Olocausto, Adolf Eichmann» (p. 42), tesi contrastata da quanti hanno invece preferito insistere sulla malvagità intrinseca del criminale nazista e sulla sua  spietata consapevolezza genocida. Evidentemente, scrive Dalla Vigna, «risulta più facile accogliere la tesi che vi possa essere un male assoluto, e quasi onnipotente, piuttosto che meditare sulla mediocrità di una malvagità più contraddittoria, ma capace di mostruosità illimitate proprio in ragione della sua miseria» (p. 42).

In L’uomo del banco dei pegni (The Pawnbroker, 1964) di Sidney Lumet, tratto dall’omonimo romanzo scritto da Edward Lewis Wallant nel 1961, l’Olocausto viene evocato indirettamente attraverso i ricordi traumatici dei reduci dei Lager che continuano a manifestarsi anche a distanza di tempo. Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, invece, scrive Dalla Vigna,

può rappresentare in modo paradigmatico un’aporia in cui la verità storica s’infrange nella categoria estetica del bello. Il falso può esser seducente e ammiccante più di una ricostruzione autentica, e questo film, che Primo Levi, in I sommersi e i salvati, definì appunto come “bello e falso”, è una dimostrazione plateale dell’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz, non a causa di un limite estetico, ma proprio a causa della sua piena riuscita. Contro la messa in scena di una fiction sadomasochistica, Levi rivendicava il diritto a definirsi “vittima innocente” e confutava con veemenza l’equazione dell’intercambiabilità dei ruoli di carnefici e vittime (pp. 44-45).

Al film di Liliana Cavani è stato rimproverato di far riferimento all’esperienza dei Lager nazisti come pretesto per affrontare «le complessità dell’attrazione amorosa e delle sue contraddizioni» (p. 45). Susan Sontag individua ne Il portiere di notte una versione “di qualità” di quella erotizzazione dell’estetica nazista a cui fanno ricorso, sin dagli anni Settanta, i film del filone nazi-sploitation.

Dalla Vigna si sofferma su due produzioni hollywoodiane accusate di aver spettacolarizzato la Shoah: la miniserie televisiva Olocausto (Holocaust, 1978) di Marvin J. Chomsky e Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg. A quest’ultimo film può essere contestato, tra le altre cose, anche di non aver concesso, del resto in linea con la tradizione hollywoodiana, il ruolo di protagonista a una vittima, preferendo assegnarlo a un tedesco “buono”.

Se opere come Kapò, Olocausto, Il pianista e Schindler’s List contribuiscono a trasformare la mera conoscenza dei fatti del pubblico in percezione intima, film come La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, Il bambino col pigiama a righe (The Boy in the Striped Pyjamas, 2008) di Mark Herman e Il portiere di notte della Cavani, scrive Dalla Vigna,

introducono un regime del falso del tutto fuorviante, poiché anche nel richiamo producono una cesura di tipo negazionista, incentivando buoni sentimenti che azzerano i problemi, nel profluvio di lacrime, e possono convincere gli spettatori stessi di essere nel giusto e dalla parte del bene. Abbiamo quindi anche nel falso un doppio regime di verità, sotteso tra denuncia e consolazione, che non sempre è nettamente separabile. Per un verso c’è una società dello spettacolo che si sovrappone al reale fino a soffocarlo, come ipotizzava Jean Baudrillard, e che costruisce i simulacri ingannevoli di “un inferno costellato di buone intenzioni”. Dall’altro abbiamo il risveglio di una conoscenza epidermica, fisica, certamente l’invenzione di una rappresentazione, che però richiama alla memoria un evento che merita di essere tramandato per impedirne la ripetizione. Infine, come mediazione originata da percorsi altri ed esterni alla dicotomia, abbiamo la costruzione di mondi narrativi autonomi, che pur ricollegandosi alla storia, si sentono esentati dall’aderirvi (p. 50).

Con il venire meno dei testimoni delle atrocità e di quanti ne hanno raccolto il racconto, le immagini dell’Olocausto, anziché risultare funzionali al ricordo e alla denuncia, sono divenute un bacino da cui attingere liberamente per meri scopi narrativi. Tutto ciò, sottolinea Dalla Vigna, non solo è evidente nel filone nazi-splotation di bassa qualità, ma è ravvisabile anche in opere di maggiore spessore, come nel caso di Fuga da Sobibor (Escape from Sobibor, 1987) di Jack Gold (1987), in cui la specificità totalitaria dell’Olocausto è piegata alle esigenze del genere avventuroso.

In uno scenario in cui presidenti ebrei dirigono brigate naziste, oligarchi russi si proclamano eredi di Stalin o di Piero il grande, e il popolo erede della memoria dell’Olocausto finisce col giustificare o addirittura esaltare una strage di oltre duecentomila civili a Gaza, nel Libano e in Siria, con la complicità di buona parte dell’informazione democratica d’Occidente, ogni fiction, per quanto inverosimile e azzardata, finisce con l’apparire un format credibile (p. 52).

Anche la fantascienza, nelle sue varianti distopiche, fantapolitiche e ucroniche, ha strutturato modalità oblique con cui rappresentare la Shoah. In particolare, concentrandosi sul solo ambito audiovisivo, Dalla Vigna fa riferimento al film Delitto di stato (Fatherland, 1994) di Christopher Menaul, liberamente derivato dall’omonimo romanzo del 1992 di Robert Harris, in cui si ipotizza il compimento della soluzione finale hitleriana. Scenari futuri in cui a trionfare sono state le forze naziste si ritrovano anche nelle serie televisive L’uomo nell’alto castello (The Man in the High Castle, 2015-2019) di Frank Spotnitz, derivata dall’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (titolato inizialmente in italiano La svastica sul sole) e Il complotto contro l’America (The Plot Againist America, 2020) di Minkie Spiro e Thomas Schlamme, serie ispirata all’omonimo romanzo del 2004 di Philip Roth. Mantenendo un finale tutto sommato aperto, le tre opere citate, scrive Dalla Vigna, «malgrado le evidenti differenze di stile, hanno un effetto in qualche modo consolatorio: l’orrore evocato nell’ucronia di una vittoria del male, lascia spazio all’effetto catartico che nella realtà il bene abbia trionfato, ripristinando il corso di una progressione storica positiva» (p. 55).

Se è pur vero che le ucronie citate, proprio in quanto tali, dovrebbero indurre a un sospiro di sollievo, visto che si presentano come l’alternativa che, fortunatamente, non si è data, si potrebbe paradossalmente affermare, scrive Dalla Vigna, che

la vittoria postuma del nazismo, con il suo obiettivo di espellere l’ebraismo dall’Europa, si sia compiuta, infettando le coscienze degli eredi delle vittime, distorcendo la storia e assuefacendo le coscienze occidentali a un crescendo di orrore. Inoltre, com’è stato da più parti sottolineato, la politica di sterminio israeliana, che viene comunque tollerata e sotterraneamente favorita dalle democrazie occidentali, con la fornitura di armi e appoggi diplomatici, produce una ripulsa nel resto del mondo e finirà col provocare nuove ondate di antisemitismo che il movimento sionista voleva combattere (p. 60).

Lo studioso evidenzia come anche la Nakba manifesti problematiche di irrappresentabilità, tanto che il cinema che se ne è occupato lo ha fatto adottando visioni oblique. Tra le diverse produzioni audiovisive che hanno affrontato la questione israelo-palestinese lo studioso ricorda: No Other land (2024), documentario incentrato sulla resistenza araba alle distruzioni dei coloni israeliani realizzato da un collettivo comprendente gli arabi Basel Adra e Hamdan Ballal e gli ebrei Rachel Szor e Yuval Abraham; Israelism (2024), opera documentaria realizzata dai registi ebrei-americani Erin Axelman e Sam Eilertsen che hanno fatto ricorso a interviste di personalità della cultura e attivisti per i diritti umani, diversi dei quali ebrei; Paradise Now (2005) del palestinese cittadino israeliano Hany Abu-Assad, fiction incentrata sulla preparazione di un attentato sucida palestinese che termina prima che questo venga portato a termine lasciando così il dubbio circa la decisione finale presa dal protagonista; Valzer con Bashir (Waltz with Bashir, 2008) di Ari Folman, opera d’animazione che narra delle ferite psichiche di alcuni militari israeliani attivi nei massacri di Sabra e Shatila del 1982; Il giardino dei limoni (Lemon Tree, 2008) dell’israeliano Eran Riklis, film incentrato sulla controversia legale tra le autorità israeliane e una donna palestinese caparbiamente decisa a difendere il suo limoneto sventuratamente confinante con la dimora di un ministro.

A sguardi obliqui hanno fatto ricorso anche i film che hanno voluto occuparsi delle torture statunitensi nella prigione di Abu Ghraib, divenute note grazie alle fotografie scattate e diffuse dai torturatori stessi. Boys of Abu Ghraib (2014) di Luke Moran evita di affrontare direttamente i fatti preferendo imbastire una storia basata su di essi che può dirsi, per certi versi, autoassolutoria. Ne Il collezionista di carte (The Card Counter, 2021) di Paul Schraderi i tragici eventi compaiono a distanza di tempo e in maniera sfumata nei ricordi di chi vi ha preso parte. Anche in questo caso, sottolinea Dalla Vigna, manca il punto di vista delle vittime: che si tratti dello sterminio dei nativi americani o di quello dei vietnamiti, anche le pellicole mosse da sincero spirito di denuncia non mancano di filtrare gli eventi attraverso il punto di vista, per quanto critico possa essere, degli invasori.

Il documentario I fantasmi di Abu Ghraib (Ghosts of Abu Ghraib, 2007) di Rory Kennedy, che ricorre a interviste sia di vittime che di militari implicati nei soprusi, denuncia come le torture siano derivate, oltre che da precise politiche adottate dalle autorità militari e governative, dal clima di caos e paura regnante nella prigione. Per certi versi, scrive Dalla Vigna, il documentario di Kennedy ricalca il cinema di Lanzmann, con la differenza che in questo caso le immagini sono presenti e sono quelle scattate dagli aguzzini.

Abbiamo qui l’autodenuncia dei torturatori, presi dall’enfasi del loro ruolo e divenuti inconsapevolmente, essi stessi, prove provate delle loro atrocità. I segreti che i capi delle SS si sforzavano di nascondere, distruggendo documentazioni, edifici e financo gli ordini di sterminio, nell’epoca della società dello spettacolo globale sono misfatti rivelati in modo plateale, trasformando i più modesti esecutori nelle incarnazioni del male. Naturalmente, i canali d’informazione, per lo meno quelli dei vincitori, cercheranno poi di raccontare la fiaba di poche “mele marce” intorno a un sistema di per sé sano e democratico, occultando le responsabilità dei mandanti e di un intero sistema (pp. 66-67).

La parte finale del volume si concentra su come anche i film che hanno affrontato i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki e più in generale il rischio dell’olocausto nucleare, si siano trovati a fare i conti con le categorie dell’indicibile e dell’irrappresentabile, dunque alla necessità di ricorrere a visioni oblique. Non a caso, sottolinea Dalla Vigna, tra coloro che si sono cimentati sul disastro atomico nipponico, o sul rischio dell’olocausto nucleare, si trovano registi che come Alain Resanis, con il suo Hiroshima mon amour (1959), e Sidney Lumet, con A prova di errore (Fail-Safe, 1964), che si erano precedentemente occupati dei campi di sterminio nazisti. Se Resnais ricorre a una storia d’amore ambientata alcuni decenni dopo la catastrofe nipponica per far affiorare le terribili memorie dell’evento, Lumet mostra come possa generarsi un conflitto nucleare a partire da una serie di fraintendimenti. Se quest’ultimo film rappresenta la versione drammatica di come un conflitto nucleare possa essere generato da un concatenamento di errori, Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) di Stanley Kubrick rappresenta invece la versione comico-grottesca di come si possa giungere al disastro. Entrambi i film, evidenzia Dalla Vigna, trattano l’olocausto nucleare limitandosi ad evocare le vittime senza mostrarle.

A modalità oblique di trattare la tragedia nucleare ricorrono anche i film Vivere nella paura (Ikimono no kiroku, 1955) e Rapsodia in agosto (Hachigatsu no kyōshikyoku, 1991) di Akira Kurosawa. Godzilla (1954) di Ishirō Honda inaugura invece un fortunato filone di b-movie giapponesi e americani incentrato su mostri generati o risvegliati dalle esplosioni nucleari. Riferimenti agli ordigni atomici sul Giappone si ritrovano in L’impero del Sole (Empire of the Sun, 1987) di Steven Spielberg, derivato dall’omonimo romanzo parzialmente autobiografico di James G. Ballard, per poi tornare centrale, dopo un periodo di oblio, nel film Oppenheimer (2023) di Christopher Nolan che, nuovamente, come da tradizione hollywoodiana, evita il punto di vista delle vittime. Dalla Vigna ricorda anche il docu-drama La morte è scesa a Hiroshima (The Beginning or the End, 1947) di Norman Taurog che ricorre all’espediente del ritrovamento di immagini e filmati storici riguardanti la preparazione, l’esplosione e gli effetti degli ordigni. Tornando alle opere di pura fiction, altre modalità oblique di trattare il disastro nucleare si ritrovano in numerosi film hollywoodiani, di qualità decisamente variabile, incentrati sul “dopobomba”, quando davvero i sopravvissuti potrebbero trovarsi a invidiare i morti.