di Jack Orlando

Gli uomini costruirono cattedrali sempre più grandi non per mostrare gratitudine a Dio, ma per svelare a sé stessi la propria grandezza.
L’adagio faceva pressappoco così. Viene da chiedersi se valga la stessa cosa per i monaci che dodici secoli fa iniziarono a scavare la parete di roccia a picco sul punto di confluenza dei tre fiumi di Leshan, ricavando dalla nuda pietra un colosso di settantuno metri d’altezza.
Un gigantesco Buddha seduto con lo sguardo serafico, sorvegliato ai lati da “piccole” statue di soli otto metri che decorano la roccia rossa ai suoi lati. Nello sforzo titanico di lanciare quest’opera verso le ere a venire i monaci si impegnarono anche nel realizzare tutto un sistema di drenaggi e protezioni per evitare che l’erosione da acqua e vento rovinasse il gigante.

Nei nove decenni che richiese l’opera, l’accumulo dei materiali di scarto modificò la navigabilità del tratto di fiume e più d’una generazione di monaci nacque e si spense senza averne visto né l’inizio né la fine; semplicemente spendendo con devozione i propri giorni e le proprie fatiche in un lavoro imperscrutabile e sacro.

Non erano i primi né gli ultimi. Alle spalle del Buddha, tra pagode seminate nella foresta, si snoda un sistema di grotte che entra nelle profondità della montagna da un lato per uscirne dall’altro.
Già dal secondo secolo avanti Cristo le mani dure e dedite degli scavatori iniziarono ad aprire sale e corridoi di dimensioni impressionanti, intagliando pietre mastodontiche per ricavare quelle che chiamano Grotte dei diecimila Buddha; diecimila reincarnazioni riprodotte in una sequela di camere di preghiera.
Ventimila e più occhi che osservano dall’alto in basso chi passa. Che custodiscono nelle loro decine di metri d’altezza la durissima convinzione dei propri creatori, forza che muoveva tecnica nello slancio mistico.

Ora attorno alla testa del Buddha si accalcano i turisti, il petto premuto sulla ringhiera, le mani alzate a scattare foto con lo smartphone; proiettate in assurde pose, per lo più braccia tese che dalla prospettiva del fotografo sembrano toccare la testa del colosso, e dalla posizione di un qualunque altro testimone ricordano l’equivoco segnale di un’adunata neofascista.
Ai piedi del Buddha Farmacista, il primo e più solenne delle grotte, se una manciata di fedeli intona cantilene e agita ritmicamente i tre incensi rituali, l’aria mistica del luogo è irrimediabilmente frantumata dalle luci macchinetta col braccio meccanico per pescare peluche di Labubu, dai suoi jingle ossessivi.

Il turismo per i cinesi non è stato tra le priorità, né un lusso a buon mercato per tutti gli anni in cui lo sforzo collettivo era rivolto all’ammodernamento del paese.
È solo negli ultimi vent’anni che l’emersione di un’enorme classe media ne ha fatto una pratica sociale diffusa.
Quanto a monaci, templi e fedi antiche, il maoismo non si è mai dimostrato troppo tenero. La libertà di culto è garantita dalla costituzione socialista del 1949 ma lo sradicamento di ogni forma di potere relativa all’ancien regime è stato il passaggio obbligato per puntellare le istituzioni nascenti, e al clero venne strappato qualunque gancio lo legasse alla vita politica; con buona pace del Buddha e senza lacrime per le rose.

Tuttora il partito mantiene un variabile grado di controllo su tutte le fedi, sui loro professionisti più che altro, onde evitare che gli venga in mente di sviluppare centri di potere alternativi, con finanziamenti stranieri magari.
Terribile violazione dei diritti umani dirà il liberale europeo, ma che ai prelati venga tolto il privilegio del potere non sembra poi una cosa tanto drammatica.
Questo però non esclude l’uso strumentale della religione dentro processi di integrazione selettiva delle minoranze, come quella uigura nello Xinjiang, dove repressione dell’insorgenza jihadista e sinizzazione dell’islam invece impattano duramente sulle comunità.

I culti tornano in voga ora che la Cina può definirsi una società del benessere, sull’onda di una narrazione di stato che accorda i principi del Buddha e Confucio a quelli del socialismo di mercato; o viceversa.
Si riempiono i templi e i fedeli pregano e posano le loro offerte sui banchi sacri mentre i monaci in tunica rossa-arancio salmodiano chini.
Eppure non c’è silenzio nelle sale della religione, è un viavai di gente, un vociare continuo, un brusio di mascelle che masticano snack, di polmoni che aspirano sigarette e smartphone che scattano foto.
Le persone attraversano i monasteri con un’attitudine che di poco si distanzia da quella con cui andrebbero al mercato, è solo la regola imposta dai monaci nei vari monasteri a mettere un po’ d’ordine nel caos della folla.

La rinascita religiosa si sposa probabilmente anche qui all’ascesa della classe media, come elemento stabilizzante per una soggettività altamente istruita, consumatrice vorace e aspirante a nuove carriere.
L’adesione ai dogmi statali, ma ancora di più alla rigida disciplina etica delle generazioni precedenti, non è scontata per la gioventù cinese. L’aumento dei salari gli ha consegnato una condizione di benessere inimmaginabile fino a pochissimi anni prima e, contemporaneamente, l’esplosione del mercato privato dei servizi ne ha precarizzato la condizione di accesso generando una nuova figura proletaria: meno pane e fabbrica, più bubbletea e partita IVA. Che ovviamente non si chiama partita IVA ma il succo è quello.

Questi giovani non hanno conosciuto la fame e le asperità riservate ai loro connazionali del XX secolo; viceversa la loro condizione di relativo privilegio, con un generalizzato accesso a formazioni di alto profilo – pagate, va detto, con un impegno serratissimo nello studio – cozza con un mercato del lavoro che si fa via via più competitivo nella difficoltà di assorbire una sovrapproduzione di soggetti iperspecializzati, genera forme di ansia e sfruttamento incomprensibili ai più anziani.
Piccoli rivoli di pessimismo si fanno strada a margine del quadro prospero del secolo cinese.

Il culto e la riscoperta della tradizione sembrano quindi diventare in questa congiuntura l’elemento ideologico attraverso cui provare a tenere unito il corpo sociale sotto la pressione centrifuga dell’inarrestabile avanzamento tecnologico in un momento in cui la Cina si trova ad essere il più avanzato attore sullo scenario mondiale.
Il primo della fila perde il beneficio di guardare come si comportano quelli avanti a lui e l’avanzamento, più che analisi sugli stadi di sviluppo altrui, richiede ipotesi speculative.

Ora, se escludiamo i programmi scolastici o quelli di propaganda, culto e tradizione permeano nelle soggettività a questo punto tramite la pratica sociale per eccellenza: il consumo. La Nazione si cementa consumando.
Il passaggio al tempio, la montagna sacra, il mausoleo agli eroi della rivoluzione, sono accessibili nella misura in cui sono attrattivi per investire il tempo libero. Vengono attraversati nella stessa (o quantomeno simile) modalità caotica in cui si attraversano le vie commerciali.

Il piccolo tempio sulla cima del Fangjing Shan è visitabile dopo ore di attesa e solo inserendosi in una processione turistica permanente; ai piedi del suo picco il tempio maggiore sembra qualcosa a metà tra un bivacco e una sagra di paese, un rumore assordante demolisce l’aura sacrale del luogo.
Il parco di Zhangjiajie impone ore di coda all’ingresso prima di godere dei suoi pilastri di roccia, e l’incessante brusio degli smartphone che scattano foto nel mentre.

Ma è negli infiniti labirinti dei mall che si può avere l’idea di cos’è davvero una esperienza di massa. Quel particolare tipo di esperienza che sfuma i contorni individuali fondendo i corpi di ciascuno dentro un’indistinta moltitudine attratta dai medesimi stimoli.
La Huang Xing pedestrian road di Changsha è un teatro perfetto. Uno dei tanti.
Spezza a metà i resti dei quartieri della città vecchia con i loro delicati vicoli tortuosi dividendoli come un fiume e imponendo la geometria spietata del commercio.

Il vialone dritto, incassato tra due ali di palazzi senza finestre si apre ogni tanto in una larga ellisse di piazza, ovunque si giri lo sguardo c’è un negozio, una bottega, un venditore di cibo. L’orizzonte è censurato dalla fitta costellazione di insegne luminose.
Durante la giornata è un luogo mediamente attraversato e l’orografia urbana cinese camuffa certi luoghi nel viavai continuo dentro e fuori dai grattacieli.
Vi si può camminare con due certezze: la prima è che qui si può comprare praticamente qualsiasi cosa, la seconda è che se non si conoscono i meandri del luogo e si cerca qualcosa in particolare non la si troverà mai.
Poi alle certezze si aggiunge il dubbio che in realtà nessuno conosca davvero questo luogo, che non esista la possibilità di entrarci con uno scopo preciso, ma sia pensato per perdercisi dentro.

È alle ore serali che diventa davvero quello che: il Tempio del consumo; e i fedeli accorrono in massa alla funzione. Quando inizia a calare la luce naturale non si accendono le insegne dei negozi, ma mura intere.
I led riversano l’intero caleidoscopio cromatico sul marciapiede e fuori dai negozi appaiono giovani commessi che agitano cartelli, porgono assaggini, gonfiano palloncini, urlano nei microfoni.
Iniziano le prime file agli ingressi, la gente si accalca per prendere enormi pacchi di tofu, anatre sottovuoto; magazzini di ciarpame sono presi d’assalto da teenager che arraffano bigiotteria.

La strada si riempie, attorno alle 18:30 è ora di cena – come è spesso nel mondo fuori dalle coste mediterranee – e le persone affollano i ristoranti, le panchine, i baracchini d’asporto. La strada enorme si fa stretta, i corpi pigiano e scivolano, il passo è bloccato da tredicenni impegnati in un balletto davanti al treppiede con il telefono che le manda in live su tiktok.
La musica dei negozi è altissima, i commessi urlano, le persone urlano, gli onnipresenti megafoni gracchianti urlano. Non è solo la strada a farsi stretta, è un intero cosmo che si va piegando dentro le corsie commerciali. Non è un posto per chi soffre d’ansia.
Si entra in un negozio dal marciapiede e si esce in un corridoio dall’altro lato e sono ancora corpi, ancora merce, si salgono scale e invece di uscire si è un piano rialzato del mall, uno dei tanti piani del mall. E sono ancora corpi, negozi, botteghe, tavole calde; tutto fitto, tutto strabordante, caotico, labirintico. Si imbocca un’uscita laterale per ritrovarsi ancora sulla via principale da cui si è entrati, se non in un altro mall.
I concetti di spazio e di tempo si distorcono in uno stato di coscienza alterato, che sfocia in una specie di trance euforica o in un attacco di panico. Quasi involontariamente ci si trova le tasche piene di ciarpame.

Riemergendo sulle scale del mall si ha una visuale più ampia del viale e la folla è ovunque, sciama dalle laterali, attraversa la pedestrian da un locale all’altro e si muove in una vertigine illeggibile, i volti illuminati da schermi e insegne, le mani serrate sui manici delle buste.
C’è all’angolo esterno una finta pagoda, enorme, interamente dorata dai led; è circondata dal fracasso dei megafoni. All’ingresso i commessi agitano cartelli e incitano il fiume umano che entra ad acquistare; subito sopra di loro un balcone, c’è una ballerina di danza classica che volteggia sullo sfondo di tende rosse; al balcone superiore una donna elegante suona un violino ed è incomprensibile come si faccia a sentire il suo suono giù, tra gli spettatori estasiati che applaudono e riprendono in video.
Letteralmente lo Spettacolo della merce.

C’è da dire che non è tutto consumo, anzi, lo spazio pubblico è per i cinesi la base comune più utilizzata per la vita sociale.
Molto più che nei bar o nei mall, è tra i parchi, le strade, i crocicchi e le piazze che si svolge lo spettacolo dell’interazione umana.
L’investimento nei “parchi del popolo” ha dato vita a grandi aree verdi nel tessuto urbano dove si riversano persone di ogni età per giocare a scacchi, suonare, fare ginnastica.
L’attività travalica questi spazi e grupponi di signore pensionate occupano i marciapiedi per allenarsi sulla base di musica discutibile sparata a tutto volume.
In sostanza lo spazio pubblico non è luogo di attraversamento della metropoli ma un vero e proprio generatore d’aggregazione. È probabilmente l’epifenomeno di una cultura che prima dell’imprinting socialista, poggia le basi su una società di inurbamento recente che mantiene quasi intatte certe forme di socialità comunitaria delle campagne che, unendosi alla dimensione generalmente modesta delle abitazioni, si riversa nelle strade per darsi in tutta la sua vitalità.
È singolare che l’espressione che utilizzano i cinesi per vedersi, stare insieme e passare il tempo, venga tradotta come il nostro “giocare”. Termine che abbiamo relegato all’infanzia e alla ludopatia.
“Vieni a giocare”. Suona strano se lo dice un cinquantenne.
Strano e rivelatore di un approccio altro al mondo assai lontano dagli stereotipi di disciplina produttivista che scioccamente gli abbiamo cucito addosso.

Con tutta probabilità la Cina collettivista che sognava Mao era tutt’altro che questo, eppure non si può negare che la lotta alla povertà abbia raccolto i suoi frutti.
Piuttosto sembra averci visto lungo il presidente Deng Xiaoping, nel mezzo di una polemica tra una destra estera che denunciava la poca attenzione ai diritti civili e una sinistra interna che recriminava le aperture al libero mercato, con una frase, difficile da verificare come la maggioranza delle citazioni, per cui “la libertà, è un paio di scarpe nuove”.
Il metodo è la contraddizione.

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