di Francesco Gallo
Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta. Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana, pp. 264, € 20, Blackie, Milano 2025.
1.
Tra le più importanti espressioni di quel “revival magico” che tra gli anni Sessanta e Settanta ebbe luogo nel nostro Paese – un rinnovato interesse verso l’occulto in espressioni tanto “artistiche” quanto “reali”: da un lato, opere di finzione come il film Giulietta degli spiriti (1965) di Federico Fellini, il best seller Non è terrestre (1969) di Peter Kolosimo, lo sceneggiato Il segno del comando (1971) di Daniele Danza; dall’altro, la proliferazione di medium, cartomanti e sedicenti parapsicologi come, per esempio, il sensitivo Gustavo Rol – occorre menzionare, sicuramente, “I misteri d’Italia” di Dino Buzzati: un insieme di pezzi giornalistici, commissionati e pubblicati sul “Corriere della sera” nel 1965, pubblicati da Mondadori nel 1978.
Con l’obiettivo di narrare alcuni dei personaggi più strani, originali, stravaganti, e, perché no, anticonformisti che popolavano, e, in certi casi, popolano ancora (per fortuna e per sfortuna, dipende dai casi), il nostro Paese, l’esponente più autorevole del fantastico italiano (assieme a Italo Calvino e Tommaso Landolfi) traccia i contorni di uno spettacolo che, nei suoi momenti migliori, possiede la precisione fantasmatica dei paesaggi delle fiabe.
La penna di Buzzati – sempre distante da qualsiasi intellettualismo – passeggia in mezzo alle figure talvolta bizzarre, talvolta strampalate, del suo vastissimo diorama letterario, portandoci a fare la conoscenza, tra gli altri, di: Giuseppe Maria Abbate fu Carmelo, un barbiere siciliano che, trasferitosi a «Nuovaiorche», afferma «di avere abitato su Marte e di essere un Messaggero Celeste presso gli uomini»; Melissa, la «strega del Gran Sasso», la quale vive in un borgo sperduto «tra boschi, ripidi prati e magri campi» e di se stessa, affranta, racconta: «Pianse la mamma quando io nacqui, per giorni e notti mi hanno detto che pianse, e morì pochi mesi dopo, credo che morì proprio per questo, perché ero nata io figlia maledetta. […] Settima femmina di una famiglia senza maschi, nata al settimo mese avvolta nella placenta, sette e sette, numero della malasorte. Chi mai nacque più strega di me?».
Detto ciò, a una prima occhiata, ma, attenzione: soltanto a una prima occhiata, potremmo essere portati a sistemare accanto a “I misteri d’Italia” di Dino Buzzati anche questo ultimo lavoro di Ivan Carozzi, Cronache dall’Italia nascosta (Blakie Edizioni), dotato di un sottotitolo che recita: Storie incredibili, celebrità inaspettate, luoghi curiosi e altri miracoli della provincia italiana.
2.
Già autore di programmi televisivi (Le invasioni barbariche, Dilemmi), libri (Figli delle stelle, Teneri violenti, L’età della tigre) e podcast (tra i tanti, La torre e il borgo fantasma, la storia di alcune delle più importanti colonie estive del Novecento: è bellissimo), Ivan Carozzi da qualche anno porta avanti, assieme al giornalista Enrico Deaglio (che di Cronache dall’Italia nascosta firma una pregevolissima prefazione), la stesura di una serie di volumi di storia – C’era una volta in Italia, si chiamano – di cui, per il momento, sono stati pubblicati: Gli anni sessanta (Feltrinelli, 2023) e Gli anni settanta (Feltrinelli 2024).
Forte di un approccio dichiaratamente “pop”, istruttivo e curioso (apprezzato sia da chi le decadi in questione le ha vissute sulla propria pelle e sia da chi le ha studiate tra le pagine dei sussidiari), la narrazione, impreziosita da un vastissimo apparato iconografico dalle scelte mai scontate, ripercorre una selezione significativa degli eventi, tra fatti noti e meno noti, che hanno contrassegnato l’arco temporale che va dal cosiddetto miracolo economico italiano (siamo alla fine degli anni ’50) agli attentati dell’11 settembre 2001. (Non a caso, la serie dovrebbe concludersi con Gli anni Duemila.)
Sarebbe facile, a questo punto, cadere nella convinzione che tra i mille e mille fatti (e Fattacci, per dirla con un bel libro di Vincenzo Cerami) raccolti da Deaglio e Carozzi – una über narrazione che tiene insieme la crescita vertiginosa dell’industria, la contestazione giovanile, la strategia della tensione, gli “anni di piombo” e le tante riforme sociali ed economiche vissute e subite dal Paese – ce ne siano stati alcuni che sono stati esclusi. Per una ragione o per l’altra.
In un caso, Cronache dall’Italia nascosta sarebbe da considerare una raccolta di postille, di chiose, di paralipomeni. Un’appendice, al massimo. Una parte qualitativamente simile a C’era una volta in Italia ma aggiunta a mo’ di aggiornamento, o completamento, in un secondo momento.
Nient’affatto, però.
3.
Il volume – che beneficia della bella copertina di Cristóbal Fortúnez e di una meritevole confezione grafica a cura di Luis Paadín e Tiziana Bonanni, che è uno dei marchi di fabbrica delle Blackie edizioni – è suddiviso in venti sezioni. Tante quante sono le regioni d’Italia.
Ogni sezione è introdotta da una Carta d’identità sentimentale che in breve riporta: il numero degli abitanti (così con stupore si apprende che in Sardegna vivono più persone che in Liguria), il reddito medio pro capite (che in Calabria è meno della metà di quello in Trentino Alto Adige), i cognomi tipici – Sabbatini nelle Marche (!), Magnani in Toscana (!), Proietti in Umbria (!) –, gli edifici e luoghi simbolo (Castel del Monte, in Puglia, che ha ispirato a Umberto Eco la pianta della biblioteca ne Il nome della rosa), le espressioni peculiari («Tasi e tira», tradotto: «Taci e continua a marciare» in Veneto), le scene madri (la camminata di Delia, vestita di un abito rosso leggero, ne L’amore molesto di Mario Martone, in Campania), lo spirito guida (Robert De Niro che cinquant’anni fa in segreto visitò il paese dei suoi bisnonni, Ferrazzano, in Molise, all’epoca in cui girò Novecento di Bernardo Bertolucci) e, per finire, gli alberi degni di nota (il S’Ozzastru, un olivo selvatico alto quattordici metri, in provincia di Sassari, in Sardegna, con un’età stimata tra i tremila e i quattromila anni).
La varietà tematica mostrata ribadisce il talento di Carozzi in quanto esploratore infaticabile di archivi. Nella prefazione, Deaglio lo definisce: «un Indiana Jones della celluloide, oltre che del rotocalco». La passione per la scrittura, invece, testimoniata da una successione di incipit sempre efficaci, dalla scelta di punti di vista capaci di valorizzare la materia trattata, dal desiderio di non spiegare sempre ogni cosa ma di lasciare a chi legge il compito (la libertà) di interpretare; tutto questo, ecco, testimonia la bravura di Ivan Carozzi in quanto scrittore tout court. Scongiura, inoltre, il pericolo che queste Cronache terminino la loro corsa editoriale in mezzo a quei volumi – interessanti, ma destinati a un altro pubblico – come l’Atlas Obscura di Joshua Foer e Dylan Thuras (Mondadori) oppure l’Atlante delle zone extraterrestri di Bruno Fuligni (L’Ippocampo).
Perché ci pare di cogliere in filigrana, come spiando le nervature di una foglia in controluce, uno stile che, nei suoi aspetti più sognanti, sa rendere omaggio al Dino Buzzati de “I misteri d’Italia” e de Le cronache terrestri («Lo stile di Jacques Couëlle, architetto autodidatta che lavorò in Costa Smeralda, potrebbe sembrare un furto ai danni del bizzarro mondo neolitico di Bedrock, il villaggio dove i protagonisti del cartone animato The Flintstones si spostano tra banche, aeroporti e centri commerciali fatti di grandi pietre megalitiche.»), mentre nelle sue capacità analitiche più riuscite («Se l’habitat naturale di una biglia è il quadretto vivace della spiaggia, con gli ombrelloni, le sedie sdraio e il suono cullante e ASMR della risacca, qui la biglia è collocata in uno spazio alieno: un brandello di sprawl padano, con tanto di affaccio sulla A14.») richiama le contaminazioni del Luciano Bianciardi de La vita agra (1962).
4.
La lettura di Cronache dall’Italia nascosta procede in maniera spedita e leggera, comunque. L’offerta delle storie è abbondante. (Ottantatré in totale.) Non annoiano e non saziano. Mai. Nonostante Carozzi neppure una volta sacrifichi, laddove lo ritiene opportuno, la possibilità di un approfondimento, oppure la convenienza di una digressione. (Anche perché, in un libro come questo, distinguere tra le due cose è piuttosto difficile.)
Ecco di seguito qualche esempio.
In Piemonte conosciamo Elva, uno dei comuni più poveri della Penisola, dotato di una popolazione stimata di 77 abitanti e di un’economia (conservata fino agli inizi del XX secolo) legata alla compravendita dei capelli. Merito delle persone che lavorano come «cavié», come «pellassier»: «[…] si spostano dalla montagna verso le valli e poi nelle campagne e nelle città della pianura, a Cremona, a Parma, a Reggio Emilia, in Friuli e in Veneto, per acquistare capelli, meglio se pettinati in lunghe trecce. Dormono dove capita, in fienili, stalle e granai. Una volta sforbiciati, i capelli finiscono in fondo a un sacco di iuta e quando i sacchi sono pieni, i “cavié” risalgono a Elva.»
In Basilicata, durante una serie di spedizioni, l’antropologo e filosofo Ernesto de Martino finisce per cadere sotto l’effetto (l’incantesimo?) di un paesino – Valsinni, vicino Colobraro, in provincia di Matera – con la fama di portare sfortuna: «[…] l’équipe aveva fissato un appuntamento con uno zampognaro, che de Martino avrebbe dovuto intervistare e registrare. Peccato che quando arrivarono in paese vennero informati di una tragica notizia: lo zampognaro era morto lungo il tragitto, in seguito a un incidente stradale. Il giorno dopo de Martino si presentò in casa dell’uomo per fare le proprie condoglianze e registrare su magnetofono il lamento funebre. Raccolte intorno alla bara, le donne e la moglie del defunto salmodiavano: “Sei caduto in mezzo alla via con la tua zampogna, sei caduto in mezzo alla via con la tua zampogna”. Come l’antropologo mise piede nella stanza, le donne modificarono il canto: “Ecco il forestiero biondo che è venuto a salutarti, ecco il forestiero biondo che è venuto a salutarti”. De Martino, a disagio, decise di andarsene e rinunciare alla registrazione.»
Nell’avvicendarsi di queste Cronache, tuttavia, la presenza di elementi, non certo di tipo sovrannaturale, ci mancherebbe, ma, per dire più correttamente, di tipo onirico, non mancano.
Nel Lazio, a Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo, c’è la Torre di Chia, «l’ultimo rifugio» di Pier Paolo Pasolini: «[…] 42 metri di altezza, pianta pentagonale e mura merlate in stile ghibellino. […] Basta guardare qualche foto per provare il desiderio d’infilarsi prima o poi in quei luoghi, magari in un mattino di novembre, con le foglie fradicie che scricchiolano sotto le scarpe.» Dopo l’assassinio del Poeta, nel 1975, gli eredi di Pasolini non erano più stati in grado di pagarne le spese di manutenzione. Venne acquistata da un attore, Gabriele Gallinari: «[…] solo dopo aver fatto, disse, un sogno: “Forse era anche giusto che la casa diventasse un bene pubblico. Per un mese non ci ho quasi pensato più, fino a quando una notte non ho sognato di stare seduto in una casa di vetro e di vedere passare Pasolini che sorrideva a bordo della sua Alfa Romeo. Ho considerato quel suo sogno come il nulla osta di cui avevo bisogno.”»
5.
Lo spirito guida che aleggia tra le pagine di queste Cronache, tuttavia, non è quello di Luciano Bianciardi e non è quello di Dino Buzzati – che pure appare, in queste Cronache dall’Italia nascosta, a San Pellegrino, in provincia di Belluno, in Veneto, mentre, da una delle finestre della casa avita, osserva, nel gruppo montuoso delle Dolomiti, la sua montagna preferita, la Schiara, che ha il potere di trasformare, in una fantasia pittorica dello scrittore intitolata La piazza del Duomo di Milano, l’oscura cattedrale meneghina: «[…] in un bianco massiccio gotico-dolomitico, di fronte al quale non ci sono passanti, lampioni, colombi, automobili che si fanno largo a colpi di clacson, ma un sereno prato verde, tutto scaldato dal sole, con tanto di alberelli, covoni di fieno e contadini intenti a falciare l’erba in bucolica solitudine». Invece di apparire in un pentacolo tracciato sulle assi scricchiolanti di una polverosa soffitta, lo spirito guida di queste Cronache si manifesta tra le strade anguste di una piccola città situata nelle Marche: Ascoli Piceno. Risponde al nome di Giorgio Manganelli.
Tra il 1980 e il 1995, lo scrittore Clio Pizzingrilli diresse una misconosciuta rivista: Marka. Un giorno, tramite l’invio di una lettera, Pizzingrilli chiese a Manganelli un contributo. Un contributo breve; due, tre cartelle al massimo. A proposito di una città di periferia: Ascoli Piceno, appunto. Dove Clio Pizzingrilli era nato. Dove la rivista, Marka, veniva stampata e pubblicata. Dove Manganelli, però, non sapeva o non ricordava di essere stato mai. La sua risposta fu uno strabiliante trucco di magia. Spalancando le porte della scrittura al gusto dell’incertezza, del sospetto e della titubanza, e affidandosi a un totale scetticismo nei confronti della “realtà”, Manganelli mise in dubbio l’esistenza stessa di Ascoli Piceno. Siccome: «[…] nessun ricordo dà la certezza che qualcosa sia veramente accaduto. […] se Ascoli Piceno esistesse, e quindi potrebbe, niente più che potrebbe, esistere una rivista, e se questa rivista mi chiedesse un racconto di due-tre cartelle, io risponderei positivamente? Non credo. Io non scrivo facilmente, non scrivo se me lo chiedono, la mia fantasia è pigra e viziosa, sono di cattivo carattere e sebbene troppo vigliacco per essere litigioso, sono certamente rancoroso.»
Quanto Carozzi scrive a proposito di Manganelli – il quale: «[…] offre un ritratto della società […] e della sua borghesia professionale» – ci sentiamo di poterlo scrivere noi a proposito di queste Cronache dall’Italia nascosta.
6.
Esiste l’Italia?, pare chiedersi Carozzi. E risponde: sì, certo. Assolutamente sì! Questo suo racconto (dei racconti) ne scopre, e recupera, alcune delle storie, dei luoghi e dei personaggi più straordinari; rimossi, censurati, abbandonati. Grattando lo strato di ruggine che impedisce di scorgere l’essenza intima delle cose, Carozzi tenta la sistematizzazione di un mosaico che, sebbene il più delle volte si mostri ai nostri occhi in una forma irriconoscibile per colpa della sua secolare bruttezza, incivile e criminale, certe altre riesce ancora, attraverso la sua effimera bellezza, ad abbagliarci e a colmarci di meraviglia.



