di Jack Orlando
M. Di Donato; Hezbollah. Storia del partito di Dio; Mimesis; Sesto San Giovanni 2025; 301 pp. 24€
Appena il governo di Beirut ha deciso il disarmo di Hezbollah, immediatamente nella capitale sono scoppiate proteste e cortei, non solo opera del partito sciita, ma di molti altri partiti e semplici cittadini.
È una mossa che agli occhi dei libanesi, vagli a dar torto, è un regalo all’asse USA/Israele, che infatti continua a spingere per questo; soprattutto è uno schiaffo a quel sud che da mesi è sotto i bombardamenti e le incursioni delle IDF che persistono a mietere vittime in un continuo violare gli accordi di cessate il fuoco (cui viceversa Hezbollah, come rilevato da diversi osservatori internazionali, si è attenuto scrupolosamente).
Ora le proteste si sono fermate, su indicazione del Partito di Dio, così come in stallo sembrano le manovre per la requisizione di armi. Uno stallo alla messicana con il serio rischio di far deflagrare il paese.
La verità è che Hezbollah è stato, ed in buona parte ancora è, lo scudo che tiene il Libano relativamente al sicuro dalle tentazioni imperiali di Tel Aviv. Scudo che evidentemente non è cruccio per una classe politica che ha sempre fatto del clientelismo, dell’interesse fazioso, della grassa malversazione la sua ragion d’essere. Una politica servile e prona agli interessi del padrone di turno che, fatta salva la natura di mosaico confessionale del Libano, ricorda molto quella del Bel Paese.
Hezbollah, in una parabola quarantennale è cresciuta proprio in opposizione a questa modalità: resistenza armata ad Israele, resistenza politica all’oppressione, emancipazione sociale ai subalterni. Tuttora, nonostante un forte calo di consenso che non l’ha risparmiato dalle grandi proteste del 2019, c’è una larghissima fetta del popolo libanese (e non solo) che gli tributa un ruolo di primo piano nella difesa e l’avanzamento dei popoli arabi e, soprattutto, delle loro fasce più deboli.
Eppure, dalle nostre latitudini (Non fosse che ci è toccata la sorte di abitanti d’Europa, probabilmente ormai faremmo anche a meno di occuparcene) persiste una venefica supponenza che, anche nei cortei per la Palestina, fa storcere il naso alle anime belle quando compare una bandiera gialla con l’inconfondibile mitra verde. Arroganza tipicamente occidentale di poter pensare quale siano le forme della resistenza legittime, senza considerare che a dato contesto corrisponde data politica, che processi storici diversi generano categorie e modus diversi.
Il volume di Marco Di Donato, aggiornato a dieci anni dalla sua prima edizione, è allora un validissimo strumento per arieggiare la stanza e approfondire la storia di un’organizzazione che, nata nelle temperie di una guerra civile di cui ha rifiutato gli scannamenti interconfessionali, è riuscita a imporre il ritiro dell’esercito israeliano in una ventennale e sfiancante opera di guerriglia, per poi costruire una propria agenda politica e modello di sviluppo.
Comprendere Hezbollah per comprendere il Libano e l’area MENA di oggi, ma anche allenare le capacità d’analisi dei fenomeni politici. È qui che, nonostante il registro e la genesi accademiche del libro, si può parlare di uno strumento di validità politica.
Di Donato risale alla genesi del Partito di Dio nella convergenza tra l’attivismo della comunità sciita, la più emarginata della società libanese, nel contesto della guerra civile con l’esperimento della rivoluzione iraniana del ’79 con cui Khomeini aveva rotto lo storico quietismo della shi’a trasformandolo in un elemento di rottura.
Hezbollah nasce quindi sia come risposta all’occupazione israeliana del sud che come prodotto d’esportazione della rivoluzione iraniana.
Un rapporto di filiazione che segna sì l’identità (nonché le catene di approvvigionamento, la formazione dei quadri e la “garanzia ideologica”) ma che non ne compromette il carattere di movimento autonomo e assolutamente libanese.
Da quando è pubblicata la “Lettera aperta agli oppressi del Libano e del mondo”, la Risālat al-maftuḥa del 1985, viene rivendicato sì il precedente della Repubblica Islamica, ma si invoca la libera scelta popolare per un modello politico che sappia garantire equilibrio e giustizia per tutte le componenti confessionali del paese. Il fulcro è piuttosto la liberazione dall’occupazione israeliana come base per l’emancipazione dai piani imperialisti americani, di cui il sionismo è la punta di lancia.
Ancora di più, al centro vi è l’appello agli oppressi del mondo affinchè si organizzino per liberare sé stessi e le proprie terre da padroni interni e esterni. Un programma di resistenza che travalica l’aspetto confessionale e rilancia un piano emancipatorio di cui l’ormai moribonda URSS aveva smesso di fornire il faro e che echeggia, pur senza mai citarla, la lezione di Fanon.
La Resistenza è quindi la promessa di Hezbollah, la sua proposta, il suo obbiettivo e il suo metodo.
Se l’aspetto militare è predominante nei primi anni e finirà per costringere Israele al ritiro nel 2000 e ancora nel 2006; già dalla fine degli ’80 quella che va profilandosi è l’idea di una Società della resistenza: una fittissima rete di iniziative e associazioni locali che intervengono sui territori fornendo assistenza sanitaria, scolastica, abitativa, sviluppo del lavoro e ripristino degli ecosistemi.
Hezbollah crea nel tempo un vero e proprio stato virtuale in cui a donne e giovani viene consegnato un ruolo di primo piano, dove cristiani e sunniti vengono integrati nella progettualità e la rettitudine morale è una sorta di biglietto da visita imposto ai quadri dirigenti.
Questa dimensione, ancor più della lotta armata, fa di Hezbollah un attore politico fondamentale dell’arena libanese, in grado di far eleggere propri sindaci e deputati e partecipare a una coalizione di governo, pur senza mai dismettere la propria attitudine militare. Qualcosa di assolutamente lontano dall’immagine di gruppo terrorista portata avanti dai nostri media.
Ora, nonostante l’assassinio del leader storico Sayeed Hassan Nasrallah (in cui Israele non si è fatto scrupoli a tirare giù un intero isolato abitato per eliminarlo), il dissanguamento della propria ala militare in due anni di conflitto riaperto e la parziale disarticolazione dell’Asse della resistenza, il fatto che una schiera di avvoltoi internazionali (che coinvolge pienamente parte dei paesi arabi a dispetto delle loro retoriche pan-arabiste) spinga per lo smantellamento dell’arsenale del Partito di Dio è un segnale inequivocabile.
Come sciacalli attorno a una bestia ferita, quelli che aspirano a ridisegnare l’Asia Occidentale ancora una volta secondo i propri desiderata, cercano di eliminare Hezbollah nel momento in cui è più fragile, testimoniando però di riflesso, la profonda forza di cui ancora gode. E non sembra curarsi la presidenza Aoun del rischio di rinnovare una spaccatura sociale in un territorio su cui non si è ancora dissolto lo spettro della guerra civile.
Ed è tutto da vedere se questo tentativo andrà in porto, e a che prezzo, o piuttosto finirà per rafforzare un movimento di resistenza che, come è tipico di queste realtà finisce per ritrovare ossigeno proprio nei momenti di scontro maggiore.
Quel che è sicuro e dimostrato dalla storia di Hezbollah non è solo che questo è un attore inaggirabile per il futuro della regione ma che ancora, a dispetto di tutto e fuor di retorica, l’unica possibilità d’esistenza politica dei subalterni sta nell’organizzazione della forza.