di Sandro Moiso
Raoul Dalmasso, Storia dei Quaranta. La verissima storia de li quaranta banditi di Amandola che se ne andarono a menar guerra al Turco, Edizioni Malamente, Urbino 2024, pp. 150, 14 euro
I banniti sono una moltitudine sulle montagne della Marca. Gente di ogni tipo, venuta fuori da ogni fosso, stamberga o villaggio e salita sui monti a protezione della propria vita. Alcuni di loro sono homini di mala sorta, di mestiere latroni e di vocazione homicidiarii. Molto più spesso sono solo gente minuta: senzaterra e quartifigli, scavatori di fossi e raccoglitori di sterco, erbaticanti e serpari. Sono figli del popolo delle montagne che si sono fatti banditi perché lasciarsi morir di fame mentre il ricco mangia troppo è cosa insopportabile. (Raoul Dalmasso, Storia dei Quaranta)
Potrebbe essere di per sé un magnifico romanzo di avventura quello che l’autore finge di aver ricevuto dalle mani di un conoscente che l’avrebbe ritrovato fortunosamente tra antiche carte nascoste in una nicchia precedentemente murata. In realtà, però, il libro di Raoul Dalmasso, pubblicato nell’autunno dello scorso anno dalle edizioni Malamente di Urbino nella collana «Voci», costituisce un ottimo esempio di nuova Storia che sa far buon uso delle cronache tardo medievali quanto della scuola delle Annales, dell’opera di Fernand Braudel oppure delle ricerche di storia locale.
Come ci rivela, infatti, la ricca bibliografia contenuta nelle pagine finali l’autore (classe 1984), antropologo e ricercatore indipendente che vive nei luoghi in cui si svolge una parte non secondaria delle vicende narrate, ha saputo perfettamente ricollegare tra di loro i fattori soggettivi della Storia con quelli oggettivi, senza però mai tralasciare il punto di vista e l’azione ribelle delle classi soggette al dominio di classe. Sia che questo fosse esercitato da un papa e dai suoi sgherri dello Stato Pontificio quanto dalla Serenissima repubblica di Venezia oppure, ancora, dalle mire espansionistiche del Gran Turco, fuori e dentro i confini del suo sterminato impero.
Storia e non romanzo si diceva prima, perché l’abilità di Dalmasso consiste proprio nel sapere mescolare alto e basso della cultura e della società dell’epoca, mettendo a nudo tutti gli aspetti, spesso crudeli e disumani, che accompagnano concetti dati troppo spesso per scontati e universali, quali ad esempio quello di onore.
Un concetto che se per le classi abbienti e nobiliari ha un significato utile a garantirne censo, ruolo politico e sociale e, talvolta, la stessa possibilità di sopravvivenza, per la miriade degli umili, uomini e donne, guerrieri e contadini, schiavi e servi, spesso non rappresenta altro che una giustificazione per mandarli al massacro e al macello in nome di più alti ideali che certo non possono appartenere loro. Soprattutto in occasione di guerre sanguinose come quelle che si svolsero per mare e per terra nel decennio narrato (1565- 1575) oppure ancora, e magari con ancor più foga, in quelli che stiamo vivendo in questo oscuro e drammatico inizio di XXI secolo.
Anche se in qualche caso, come in quello di Marcantonio Bragadin orgoglioso e presuntuoso difensore veneziano di Famagosta, il prezzo dell’onore nobiliare può essere duramente pagato, saranno sempre gli ultimi, sia in veste di mercenari che di civili, a pagarne il costo più alto.
Così le vicende dei Quaranta banniti marchigiani di Amandola, che per sfuggire alle grinfie delle truppe papaline si trasformano in mercenari al soldo della Serenissima, si snodano a partire dall’Appennino umbro-marchigiano fino all’isola di Cipro e alla successiva schiavitù sulle galee turche o in torri che racchiudono inenarrabili sofferenze per i prigionieri senza valore (l’altra faccia della medaglia del sempre preteso onore) incrociando, però, anche la rivolta di altre popolazioni oppresse. Come nel caso dei Parici ciprioti, i servi della gleba e schiavi della nobiltà crociata di Cipro che rivestiranno un ruolo non secondario nella caduta di Nicosia e dell’isola di Cipro nelle mani degli Ottomani.
La nobiltà crociata di Cipro non esiste più. Il popolo dei campi non è sceso in guerra contro di loro, ma ha avuto la sua vendetta. I vecchi padroni sono devastati e perduti, i Parici sono liberi. E’ una vendetta che aspettano da generazioni, da quando i frengi hanno messo in schiavitù i loro avi. Dall’inizio dei tempi, per quanto quei miserabili possono saperne. Ora di padroni non ce ne sono più. Giacciono per le strade nei mucchi di cadaveri, insieme alla carcasse dei porci ammazzati dai Musulmani, oppure sono schiavi di Selim. Le vecchie matriarche sono state abbattute a bastonate, le contessine dalla pelle candida vendute ai bordelli, i giovanissimi eredi dei nobili casati scelti come eunuchi. […] E’ una gioia torbida, quella che riempie i contadini dell’isola, è una delizia oscena, è un orgasmo nero. Le catene sono rotte. Il Diavolo è morto1.
Ed è in questa descrizione dell’odio di classe, che ancora non sa di esser tale, che la cronaca di Dalmasso raggiunge i punti più alti, descrivendo sia le condizioni di origine di tali infiniti e giustificati odii che il quadro generale di un’epoca in cui l’espansionismo ottomano si scontra con quello veneziano. Anticipatore di un Occidente già stanco, allora come oggi, ma ancora in grado di contribuire a conflitti dolorosi in cui potrà al massimo raggiungere un compromesso con l’avversario. Nonostante vittorie solo apparentemente importanti come quella di Lepanto nel 1571.
Ma il problema più grande che agita la Serenissima è il fatto che non arrivano più le galee grosse da merchato che portano il grano per sfamare la città. Perché i Veneziani hanno danari come nessuno, sanno fare panni finissimi e sono maestri di far vetro, ma di grano non ne hanno e certamente panni e vetri no se magna. […] Non si può mica seminare l’acqua salza dei canali, quindi gran parte del pane che i Veneziani mangiano è fatto con grano coltivato nei domini del Sultano, da sempre. […] Oltretutto, nonostante la grande vittoria di Lepanto, l’isola di Cipro è ormai persa e il Sultano ha fatto costruire e armare la più grande flotta da guerra che abbia mai solcato i mari.
I pragmatici Veneziani sono costretti a piegarsi e a mostrare al mondo intero che alla bisogna anche il feroce leone di San Marco si lecca il buco del culo come un gatto qualunque: nel marzo dell’anno 1573 i Veneziani fanno quello che va fatto e la Repubblica firma un apace umiliante con la Sublime Porta. I Veneziani riconoscono Cipro come possedimento dell’Impero ottomano, cedono i loro possedimenti in Dalmatia e versano al Turco un tributo di guerra di trecentomila ducati. La guerra di Cipro è finita2.
Compromesso ben diverso da quelli che, più per necessità che per amore reciproco, potevano svilupparsi tra gli strati più poveri delle popolazioni dell’epoca. Spesso dando rifugio ai banniti, dopo che questi hanno saccheggiato le case e le proprietà dei ricchi e nobili signori.
I villici, infatti, li accolgono come fratelli carissimi e figliuoli diletti, anche perché i banditi portano con sé caciotte e presutti, sacchi di fave, pani neri e bianchi, olive e noci. Sono anni incerti e penuriosi per i montanari della Marca. Preti e Priori gareggiano per ingordigia e sono sempre più le bastonate che si abbattono sul groppone del Popolo dei monti. Se non fossero tornati i Quaranta così carichi di bottino, quell’anno, in molti si sarebbero trovati a mangiarsi tutte le pecore e tutta la sementa solo per restare scarsamente in vita. Invece quell’inverno i montanari di Amandola, i quali ospiterebbe lu Signor Diaulu in persona pe’ mezzo rubbiu de grà, danno rifugio ai quaranta banditi co’ lu core contentu3.
Ma anche perché, comunque, banniti da tutti li lochi, quei Quaranta, che non hanno vessilli né tamburri e trumpette, hanno condotto la loro spietata guerra tra le montagne contro i nemici comuni del popolo: «li preti fottuti, li maledetti Priori e quelli cagnacci bastardi de li birri loro»4.
E’ una nuova storiografia quella messa in campo da Dalmasso, in cui l’utilizzo delle fonti, passate e contemporanee, non svolge il ruolo di obiettiva ed accademica ricostruzione dei fatti oppure, come troppo spesso accade ancora in ambito storico forse a causa dei troppi ricercatori che mirano soprattutto ad acquisire un posto nelle file della docenza universitaria, per giustificare minuziosamente un’opinione o un’interpretazione attraverso il linguaggio dell’accademia. No, qui si mette in campo la soggettività degli ultimi, al di là degli schemi ideologici che rischiano sempre e comunque di far dipendere la comprensione dei fatti materiali e concreti da quadri ideali di riferimento che finiscono col ridurli a corollari di piani interpretativi filosofici e politici che non hanno nulla a vedere con l’effettivo svolgimento delle rivolte.
Una nuova Storia che si appropria della lingua passata per annunciare il futuro e non per mostrare soltanto la pedanteria o l’erudizione dell’autore, perché una nuova storiografia militante avrà bisogno di scelte coraggiose e linguaggi nuovi, così come per Galileo Galilei il volgare fu necessario per il suo Saggiatore (1623) che annunciava la nascita di una nuova scienza che nel latino non avrebbe potuto trovare altro che impedimenti che occorreva defalcare con un taglio netto e preciso, come si è già detto qui nel recente passato e che il testo delle edizioni Malamente non fa altro che confermare. Magnificamente.