di Gioacchino Toni
Nicholas Carr, Superbloom. Le tecnologie di connessione ci separano?, traduzione di Francesco Peri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2025, pp. 378, € 24,00
Passando in rassegna la storia dei principali mezzi di comunicazione, Nicholas Carr ne mette in luce la funzione politica, il loro agire sulla società e sugli individui incentrando la sua analisi su come, superato un certo livello, la comunicazione attuata attraverso di essi tenda ad alimentare conflittualità piuttosto che dispensare armonia.
L’avvento del telegrafo, che aveva un suo precedente nel sistema postale, è stato salutato come una rivoluzione, ma ad essere realmente tale è stata piuttosto la comparsa della radio con il suo offrire a un pubblico disperso geograficamente la possibilità di captare quanto trasmesso dall’emittente nello stesso momento e azzerando il tempo di latenza.
Se a lungo la comunicazione si è data attraverso una pluralità di mezzi distinti, la convergenza permessa dalle nuove tecnologie non ha soltanto spazzato via la settorializzazione normativa e comunicativa, ma anche
ogni discrimine tra le diverse forme di informazione (diverse rispetto alla forma, al registro, al senso, al valore posizionale): una varietà che la vecchia architettura epistemica invalsa nel mondo analogico tendeva a conservare, anzi, accentuava addirittura. I contenuti subiscono un collasso gravitazionale: convergono, tendono all’indistinzione, come attesta peraltro lo stesso utilizzo di un termine generico e vago come “contenuto” (p. 87).
Se in un primo tempo l’universo online resta ancora legato a metafore rinvianti ai mezzi di comunicazione fisici tradizionali (pagina, dominio, sito…), con il nuovo millennio le cose cambiano, tanto che le nuove metafore insistono sull’immaginario della fluidità (erogazione, ciclo, flusso, scorrimento…). «Non c’è nulla che dura, sembrano dire. L’interesse è effimero per definizione» (p. 88). Non a caso, l’architettura del News Feed – la selezione algoritmica delle notizie veicolata tramite social – è fondata su una logica algoritmica che seleziona le informazioni in base alla probabilità che hanno di catturare e trattenere l’attenzione degli utenti. «A ogni contenuto è assegnato lo stesso peso semantico, cioè nessun peso. Ciascun elemento è inquadrato dallo stesso contesto semantico, cioè da nessun contesto» (p. 89).
Per il sistema News Feed l’ordine di importanza tra la notizia di un genocidio in atto e una lite all’interno di una coppia di personaggi noti è dato dalla possibilità che hanno queste notizie di catturare l’attenzione dell’utente trattenendolo il più a lungo possibile1. A decidere cosa sia o debba essere di “pubblico interesse” sono i grandi network commerciali che guardano al pubblico non come cittadini ma come clienti.
Nell’ambito dei sistemi di comunicazione, la posta elettronica si è rivelata un fenomeno transizionale, afferma Carr, un raccordo tra la comunicazione analogica e quella digitale. Ben presto, soprattutto tra i più giovani, si è guardato a programmi si messaggistica più spicci e meno formali, incuranti della punteggiatura, disseminati di acronimi e di puntini di sospensione utilizzati per simulare l’informalità della comunicazione verbale tra amici ecc.
Grazie soprattutto ai più giovani, in apertura di millennio la messaggistica da computer è stata soppiantata dagli SMS. Il nuovo stile linguistico introdotto dai messaggini, sostiene Carr, non deriva da ragioni di spazio ma di tempo. È la ricerca dell’efficienza espressiva a creare il nuovo linguaggio e si può dire che la diffusione dello smartphone a partire dagli anni Dieci del nuovo millennio «ha ulteriormente accelerato l’evoluzione simbiotica delle tecnologie, dei linguaggi e del business» (p. 127).
Gli emoij hanno sostituito le emoticon e le app hanno introdotto intuitive funzionalità che permettono di inserire senza “perdere tempo” immagini e video. Con Internet, l’efficienza comunicativa non è più soltanto un obiettivo di ordine tecnologico, ma diviene un «obiettivo sociale» anche quando si tratta di un messaggio intimo.
Agli occhi delle nuove generazioni cresciute comunicando con un linguaggio stringato, la posta elettronica appare non solo un sistema obsoleto ma persino ansiogeno perché presuppone un momentaneo distacco dal flusso comunicativo in cui gli individui si sentono immersi e da cui faticano a sottrarsi. La sintassi, la ricercatezza lessicale e gli stili specifici necessari alla corrispondenza scritta hanno lasciato il posto ad una comunicazione a flusso costante, non meditata né filtrata in quanto l’efficacia comunicativa sembra ormai misurarsi esclusivamente in termini di tempo.
I contenuti hanno subito un collasso gravitazionale, scrive Carr, «ogni cosa si è appiattita sul comune denominatore dello smartphone, anche il discrimine tra comunicazione privata e comunicazione pubblica ha finito per cancellarsi. Lo stile compatto, informale, spesso anche crudo dei messaggini è diventato il paradigma di riferimento del discorso che circola sui social. […] Lo spirito dei messaggini ha permeato la sfera pubblica» (p. 131).
Se tale tipo di comunicazione è necessario per non soccombere al flusso ininterrotto entro cui si gravita, il prezzo da pagare, scrive l’autore, «è la rinuncia alla profondità ed al rigore. Quando il linguaggio è costantemente rivolto all’esterno smette di essere uno strumento per riordinare i pensieri, per ragionare in modo autonomo, e si riduce a un sistema di reazione al pensiero altrui» (p. 132). Dunque si procede per giudizi immediati dettati soprattutto dall’emotività, non essendoci tempo (né desiderio) di meditare e rispondere in maniera più ponderata ed argomentata. Se il pensiero rapido/emotivo rappresenta il lubrificante per la macchina delle reti di comunicazione, quello lento/ponderato ne rappresenta l’attrito, dunque deve essere evitato.
Per quanto si tenda a credere che l’incremento della condivisione comporti una maggiore cordialità tra gli esseri umani, diversi studi dimostrano che non è proprio così. Si tende a cercare rifugio in una bolla omogenea che non contraddice i convincimenti che già si hanno, una bolla composta da soggetti che superficialmente si apprezzano, ma più questi si conoscono davvero più aumenta il rischio di vedere svanire l’apprezzamento.
La spinta a cercare informazioni sui social a proposito di un individuo appena conosciuto suggerisce la tendenza a interpretare le persone «come assemblaggi di tratti caratteriali, come configurazione di dati» (p. 141). Se in un contesto in cui si valorizzano le misure quantitative del prestigio social a risultare maggiormente attrattivi tendono ad essere coloro che comunicano senza interruzione mettendo in vetrina la vita privata e le opinioni, non di rado la quantità di informazioni possono però comportare l’effetto opposto. «Trasformandoci tutti in personalità mediatiche, i social media hanno fatto di noi dei rivali a tutto campo» (p. 143).
Secondo alcuni studi riportati da Carr, negli ambienti in cui non si è tenuti a incrociare e mantenere lo sguardo, come i social, è più difficile che si crei empatia e quando la frequentazione di questi ambienti tende a divenire sostitutiva delle relazioni interpersonali in presenza ecco che la possibilità di strutturare relazioni empatiche tende a scemare. Non è un caso che i più assidui frequentatori dei social siano anche quelli che hanno maggiori difficoltà a confrontarsi con le emozioni umane, comprese le proprie.
«Le tecnologie di comunicazione sono strumenti di penetrazione sociale. Ce ne serviamo per rivelarci e per sondare il Sé altrui […] I social sono tutti spada e niente scudo» (p. 149) La rete è stata osannata sin dalla sua comparsa come un modello di trasparenza ma, sottolinea Carr, nei rapporti sociali e in quelli interpersonali occorre anche una dose di opacità, altrimenti si pongono le basi per la discordia.
Se i social media non mancano di dispensare effetti benefici sugli utenti, la psiche umana pare però essere inadeguata al nuovo ambiente mediatico.
A mano a mano che le connessioni si moltiplicano e i messaggi proliferano, la nostra capacità relazionale, sempre più distribuita, si va rarefacendo. La diffidenza dilaga. Le antipatie si aggravano. È la tragedia dei beni comunicativi. Quando al comunicazione è troppa, le valenze si rovesciano, finendo per erodere quelle stesse qualità sociali e personali che proprio grazie alla comunicazione cercavano di promuovere (p. 151).
I contenuti collassano nel flusso indifferenziato e, dismesso il ruolo di vettori, le tecnologie mediatiche assumono quello curatoriale, editoriale, automatizzando i giudizi sulla pertinenza e sulla qualità delle informazioni. In un tale contesto gli utenti, ottimizzando la loro comunicazione, si fanno snodi telematici, ricetrasmittenti di messaggi ad alta velocità, mentre i social che incentivano l’autoespressione sembrano indurre all’ostilità e all’isolamento.
Nonostante, soprattutto ai suoi esordi, si sia voluto celebrare Internet per aver liberato la diffusione dei contenuti dalle scelte di un numero ristretto di individui (redazioni, editori e sponsor dei media tradizinali), nei fatti a muovere i flussi importanti di informazioni nella rete non è certo una comunità orizzontale. Con l’avvento del News Feed, a occuparsi della valutazione, del filtraggio e della diffusione dei contenuti sono gli «algoritmi informatici, tenuti da soggetti economici privati e centralisti nell’impianto» (p. 165).
Secondo Carr, nel contesto attuale della rete, gli utenti sono tenuti: ad operare come creatori e rifornitori a getto continuo di contenuti capaci di massimizzare il coinvolgimento di altri utenti; ad operare come ripetitori ed amplificatori dei messaggi; a svolgere il ruolo di fruitori finali del meccanismo a cui vengono somministrati materiali in linea con i gusti e i preconcetti posseduti.
Ricerche pubblicate da «Science» nel 2018 mostrano come su Twitter le informazioni erronee o fuorvianti vantassero il 70% di possibilità in più di essere riproposte dagli utenti rispetto a quelle fattualmente corrette, soprattutto nel caso di notizie politiche. Le notizie false tendono a propagarsi più facilmente e più velocemente di quelle vere. «Lungi dal promuovere il pluralismo, paradossalmente, la democratizzazione dei media ha creato un ecosistema informativo favorevole ai movimenti autoritari e al culto della personalità. Un leader populista forte assurge a totem di un’identità di gruppo, diventa un meme umano la cui immagine e le cui parole si possono condividere per mezzo dei social» (p. 187).
Gli algoritmi non fabbricano dal nulla la polarizzazione identitaria, ma amplificano tendenze già presenti tra gli utenti. Se la polarizzazione non è un fenomeno nuovo nato con la rete, quest’ultima, sostiene Carr, propone però un’inedita piazza virtuale in cui gli individui sembrano perdere ogni inibizione ed ogni controllo manifestando anche gli aspetti più brutali che covano nel profondo scatenandoli su di un qualche nemico.
Tra i dirigenti e gli architetti dei grandi social network che hanno manifestato pentimenti (tardivi e comunque non di rado a conto in banca sistemato) circa il loro operato, c’è chi ha ammesso esplicitamente che l’unico scopo delle piattaforme è quello «di consumare tutto il tempo e tutta l’attenzione consapevole che si potevano estrarre dall’utente» (p. 188). Nei nostalgici dell’Internet dei pionieri Carr coglie il vecchio mito della frontiera tanto caro agli statunitensi.
Ci era stato concesso un territorio vergine, uno spazio dalle possibilità pure, e noi ce lo siamo lasciato soffiare dall’avidità dei latifondisti […] Ma Internet non è mai stata un territorio vergine […] Le reti telematiche esistono per massimizzare la velocità di trasferimento ed elaborazione dei dati, per abbreviare al massimo lo scarto tra l’input e l’output […] Più ci sforziamo di accelerare le nostre capacità di elaborazione e l’efficienza delle nostre risposte decisionali, meno ponderati e razionali diventiamo. Prevalgono invece l’impulsività e i meccanismi affettivi, che paradossalmente nuocciono alla qualità dei processi decisionali. Una volta innestati su reti informatiche, il pensiero e l’espressione si trasformano in beni virtuali, ottimizzati in vista di uno scambio il più possibile rapido. Internet […] ha sempre fatto, né più né meno, le cose per cui è stata inventata. È risuscita a realizzare davvero il nostro sogno di una comunicazione perfetta: efficiente, immersiva, scevra di vincoli e limiti. Solo che al tempo stesso ha smascherato la natura illusoria di quel sogno (p. 191).
Da questo punto di vista il lockdown attuato nel corso della recente pandemia non deve essere visto come momento di svolta ma come momento di rivelazione del livello di adattamento ai media digitali raggiunto. Se ad inizio millennio ancora si parlava di “collegarsi”, “andare su Internet”, come se si trattasse di un luogo a parte rispetto alla quotidianità materiale, improvvisamente ci si è resi conto di essere sempre online, con i social che mantengono gli utenti in uno stato di attesa permanete.
Prima del News Feed le reti sociali online rispecchiavano gli schemi di socializzazione tradizionale: occupavano un luogo, un sito ben preciso, in cui occorreva trasferirsi per far visita a qualcuno o qualcosa. Gli aggiornamenti rispettavano un ordine cronologico così come i pensieri e le esperienze facevano tradizionalmente.
L’avvento del feed ha sostituito alla vecchia struttura del mondo sociale la logica del computer. Ha cancellato le suddivisioni, sconvolto le sequenze, strappato le interazioni sociali ai loro vincoli spaziotemporali per ricollocarle in un ambiente senza attrito fatto di istantaneità e simultaneità. Socializzare all’interno di questa nuova sfera è un’attività nuova, sganciata dagli schemi familiari, dai modelli umani che consociamo: le sue vibrazioni caotiche sono intonate ai ritmi di un altro mondo, quello del calcolo algoritmico. Il sociale ha finito per scindersi dal reale. […] La digitalizzazione ha il potere di agire come un solvente universale: smaterializza tutto ciò che, in una civiltà, era tangibile (pp. 205-206).
Nel corso degli anni Dieci del nuovo millennio i più giovani si sono allontanati dalle vecchie piattaforme social aperte e, quasi a volersi sottrarre dal mostrarsi ad un pubblico indistinto, sono andati alla ricerca di social più intimi e riservati, preferendo «incarnare personaggi diversi su scene diverse per pubblici diversi» (p. 209), come del resto gli esseri umani hanno sempre fatto nel grande teatro che è il mondo. Il proliferare di piattaforme specializzate consente di riacquistare un maggior controllo sulla visibilità.
Se i media tradizionali imponevano una programmazione che raggiungeva i sensi degli utenti dall’esterno, i media contemporanei, come ha colto Jean Baudrillard (Le crime parfait, 1995), lavorano dall’interno.
Questo trasferimento de Sé, trapiantato dai corpi fisici ai sistemi di comunicazione, non si è verificato all’improvviso. È un processo in corso da tempo, anche se prima non ce ne accorgevamo. Quando abbiamo adattato i nostri siti di vita alle esigenze del moderno Stato burocratico, ai meccanismi di società strutturate come reti intessute con i fili di informazioni ultratrasformate, ci siamo abituati anche a esprimere il nostro essere e a vederci riflessi in documenti e fotografie, registrazioni audio e film, incartamenti e registri (p. 211).
Con l’avvento dei social media e dello smartphone l’inscrizione del Sé cessa di assumere una forma materiale; si assiste alla separazione dell’essere dal corpo, all’inscrizione dell’individuo sullo schermo in tempo reale che così da consentirgli di reimmaginarsi come flusso di testi e immagini.
Quando il Sé collassa, confondendosi con i contenuti, si viene anche restringendo per prendere la forma del medium che funge da vettore. Al pari di tutti gli altri contenuti insieme ai quali viaggia e con i quali si trova in competizione, deve risultare riconoscibile e decifrabile a prima vista. Deve comportarsi come un meme […] Nel mondo virtuale l’identità funge da contenitore del Sé, e perciò da surrogato del corpo. E come il corpo faceva un tempo in altri ambiti, fornisce i mezzi necessari per entrare a far parte di una società, per innestare l’“Io” su un “Noi”. Sennonché l’identità, a differenza del corpo, sottintende un processo di affiliazione esplicita (per autocategorizzazione): cosa ben diversa dai vecchi accumuli di comprensioni simpatetiche dai confini sempre un po’ labili e indefiniti. Le frequentazioni che l’identità produce sono una compagnia esclusiva, non inclusiva (pp. 213-214).
Stando ai dati relativi alla generazione cresciuta disponendo di Internet, si ha la l’impressione che quanti sono stati socializzati e informati sin dall’infanzia principalmente in rete vivano da reclusi, cioè tendano a preferire i rapporti sui social piuttosto che di persona abbandonando quell’impazienza di uscire di casa tipica dei giovani. Numerosi studi rivelano come molti statunitensi passino una parte sempre più consistente della loro gioventù in condizioni di isolamento sociale, con tutte le ricadute che ciò comporterà sulla loro vita adulta. Stando ai dati forniti da alcune agenzie del governo statunitense, tra il 2010 ed i 2019, il tempo medio dedicato alla socializzazione da parte dei giovani statunitensi tra i 15 e i 20 anni si è praticamente dimezzato e tutto ciò si è dato lungo il decennio che ha preceduto il lockdown.
«Più tempo dedichiamo alle tecnologie di connessione, più ci sentiamo disconnessi» (p. 216). Circa l’impatto che la prolungata frequentazione dei social comporta sulla personalità e sulle salute degli individui esistono opinioni molto differenziate che spaziano dai mini effetti agli esisti disastrosi, ma, scrive Carr, stando ai dati a disposizione, è difficile negare il ruolo dei social media nell’incrementare la depressione e l’ansia nei giovani.
Insomma, quando si è iniziato a parlare di Metaverso come di una rivoluzione in procinto di avvenire, in realtà si viveva già in esso. Quello che si stava andando ad aprire era piuttosto il mondo dell’intelligenza artificiale. Nell’universo della comunicazione, un momento di transizione importante si ha con il passaggio da una fase in cui le macchine avevano un ruolo di trasporto dei contenuti ad una in cui le piattaforme social sono state sottoposte al controllo algoritmico così da sostituire gli umani in mansioni redazionali, curatoriali e di selezione dei contenuti da trasmettere a ciascun pubblico. Ora, le macchine di intelligenza artificiale generativa producono contenuti in proprio e stabiliscono a chi debbono essere erogati.
Se il medium televisivo ha saputo appagare «l’istinto di ricerca» inondando i salotti di casa di stimoli audiovisivi, questo lasciava ancora la possibilità di alzarsi dal divano e staccarsi da esso. «Solo la rete è riuscita a risucchiarci nella simulazione, a fare di noi stessi un aspetto dello show. Con l’avvento dei social siamo diventati comprimari attivi del meccanismo produttivo dei media, smettendo i panni dei meri osservatori. Quindi è arrivato lo smartphone che ci ha intimato di non uscire mai dalla simulazione» (p. 273).
Paragonato al mondo virtuale, quello reale appare ora lento, noioso e, paradossalmente, privo di vita. Il flusso travolgente di stimoli nuovi e la crescente esagerazione di ogni sensazione psichica dell’iperreale di cui parlava Baudrillard, cioè il mondo transustanziato in informazioni e comunicazione, finisce per sembrare più vero del vero.
Stando ad una recente indagine del Parlamento europeo, il 42 per cento degli europei di età compresa tra i 16 e i 30 anni accede a notizie di carattere politico e sociale principalmente attraverso piattaforme come TikTok, Instagram e YouTube. Cfr. Eurobarometer website: Youth survey 2024 – European Union. I dati relativi all’Italia sono consultabili qua. ↩