di Sergio Cimino
Archibald J. Cronin, E le stelle stanno a guardare, Bompiani, 1970.
Grazie anche al grande successo ottenuto dalle trasposizioni cinematografiche e televisive dei suoi principali romanzi, quando si pensa ad Archibald J. Cronin è quasi automatico associargli accanto alle doti di abile narratore, la connotazione di autore dal forte taglio sociale.
La lettura dei romanzi nei quali è maggiormente presente questo aspetto può tuttavia restituirci una caratterizzazione meno generica e politicamente più significativa dello scrittore.
È il caso, ad esempio, del romanzo E le stelle stanno a guardare, pubblicato nel 1935 ed ambientato in una cittadina mineraria inglese, nel periodo che va dagli anni che precedono il primo conflitto mondiale, fino al principio degli anni Trenta.
Sulla scorta della sua esperienza di ispettore medico minerario, Cronin narra le vicende che si svolgono nella fittizia Sleescale, sulla quale incombono le impalcature della miniera Nettuno, proprietà della famiglia Barras.
Il romanzo si apre subito nel vivo di uno sciopero in atto e sulle durissime condizioni in cui sono costretti a vivere i minatori che hanno aderito alla mobilitazione, guidati da Robert Fenwick.
Già da queste prime pagine, alla parte umanitaria, caratterizzata dall’adozione di un punto di vista che spinge il lettore all’empatia con i minatori, segue quella più politica, costituita da una chiara descrizione delle dinamiche dello sciopero, evento cardine per la comprensione dello scontro tra le classi.
Da una parte i lavoratori, che basano la propria resistenza sulla capacità di superare le ristrettezze dovute alla mancanza del salario; dall’altra la possibilità del padrone di far durare la chiusura delle attività facendo affidamento sul “gruzzolo” accumulato, frutto dello scambio diseguale insito nel sistema capitalistico.
Se un importante snodo risulta essere l’incidente nella miniera causato dalle scarse misure di sicurezza approntate da Richard Barras, l’anima politica del romanzo acquisisce una forte accelerazione quando la narrazione arriva agli anni della Prima guerra mondiale.
David Fenwick, affrancatosi dal lavoro della miniera grazie alla prosecuzione degli studi fortemente voluta dal padre Robert, vede la guerra come un effetto del difettoso sistema politico e le condizioni in cui sono costretti a vivere i minatori, come un effetto del difettoso sistema economico.
Ma la radice comune dei due eventi è resa paradossalmente in modo ancor più convincente dalle vicissitudini di Arthur Barras, figlio del proprietario della miniera.
Ossessionato dai morti del disastro minerario, Arthur rifiuta di partire per la guerra, ritenendo inaccettabile lo spreco di vite umane che essa comporta. Per questa sua scelta verrà processato e condannato a due anni di prigione.
Nella sua sensibilità, esaltata dal trauma vissuto, Arthur concepisce la guerra, seppur in modo istintivo, naturalistico, come un’espansione della strage dei minatori. La guerra e la strage sono due modi in cui lo stesso soggetto, la classe dominante, succhia il sangue proletario, per la realizzazione dei propri fini.
La narrazione degli anni del conflitto si focalizza sui meccanismi di arricchimento che conseguono all’aumento delle spese militari e alle speculazioni più ardite. Uno dei personaggi principali, Joe Gowlan, proveniente da una famiglia del ceto impiegatizio della miniera Nettuno, proprio grazie alla guerra, metterà a frutto la sua totale mancanza di scrupoli per divenire uno dei principali uomini d’affari a capo dei nascenti trust, destinati a sostituire le proprietà capitalistiche individuali.
Un punto centrale del contenuto politico del romanzo è affidato alla forza della propaganda, destinata a far breccia sulle masse, pur essendo costruita sulle più evidenti ipocrisie, con i lavoratori incensati come eroi, quando si tratterà di persuaderli a fare la cosa giusta per combattere la barbarie dei nemici (è piuttosto impressionante l’analogia di certi proclami tendenti alla demonizzazione del nemico, con le esternazioni mediatiche dei nostri giorni), per poi tornare ad essere feccia refrattaria all’ordine, quando la guerra finirà e la classe operaia cercherà di mantenere alcune delle condizioni migliori figlie dello sforzo produttivo dovuto alla guerra.
Ciò viene posto in modo chiaro nelle parole che il segretario dell’associazione dei padroni delle miniere rivolge ad Arthur Barras, succeduto alla guida della miniera al posto del padre. I lavoratori, dice il segretario, debbono capire che è ora che si torni ciascuno al proprio posto, e che comprendano che sono venute meno le condizioni del conflitto che avevano determinato una singolare coesione sociale.
In questi frangenti, la figura di Arthur sarà ancora determinante nel contribuire alla vera e propria nitidezza analitica sottostante il romanzo.
Deciso ad imporre una svolta “illuminata” nella gestione della miniera, Arthur investirà ingenti risorse per aumentare i salari e per rendere sicura e più salubre la miniera. Questo suo tentativo di capitalismo paternalista sarà tuttavia destinato al fallimento per il concorrere di vari fattori, ognuno dei quali assurge a simbolo delle forze che imperversano nel sistema capitalistico.
Cronin usa in un modo magistralmente efficace le vicende del romanzo, per sviscerare i vari passaggi logici che potremmo trovare in un saggio di un intellettuale marxista.
Nel dopoguerra, l’apertura a nuovi mercati e la concorrenza di un carbone più scadente, costringerà Arthur ad accettare una penale capestro per la fornitura al trust aggressivo di cui è a capo Joe Gowlan, emblema del salto di qualità organizzativo conseguente al processo di concentrazione del capitale. La rinnovata stagione di conflittualità sociale al termine del fittizio idillio interclassista del periodo bellico, lo vedrà costretto ad adeguare i suoi più alti standard salariali al forte ridimensionamento richiesto dalle associazioni padronali, pronte a sferrare la loro risposta reazionaria al protagonismo operaio e a fabbricare gli anticorpi idonei a prevenire il contagio della rivoluzione bolscevica in Europa. La serrata padronale alla quale Arthur non potrà sottrarsi, pena il suo isolamento politico, sarà determinante nel non permettergli il rispetto dei tempi e il pagamento della penale, che si sommerà al forte indebitamento sostenuto per ammodernare la miniera. Colpo di grazia per le sue ambizioni si rivelerà infine il sabotaggio degli impianti da parte della frazione operaia più radicale, che lo obbligherà a vendere a prezzo irrisorio la miniera al gruppo economico di Gowlan, presso il quale troverà lavoro come sorvegliante.
La parabola di Arthur è quella che meglio esprime forse l’aspetto più politico del libro, e cioè l’impersonalità dei meccanismi attraverso i quali funziona il sistema capitalistico.
Sono i nessi sociali che legano i soggetti collettivi a fare la Storia. E nel loro sferragliare sono destinati a essere sminuzzati anche i propositi migliori, eticamente condivisibili.
Seppur in modo diverso, anche David si troverà a veder naufragare il suo personale anelito a una maggiore giustizia sociale. Divenuto deputato laburista si renderà amaramente conto che la realtà delle istituzioni politiche è una palude nella quale possono impantanarsi i progetti più ambiziosi di cambiamento sociale.
E non solo per l’avversione delle forze nemiche. Ma anche per il fuoco amico delle burocrazie collaborazioniste presenti nelle organizzazioni che dovrebbero rappresentare gli interessi della classe lavoratrice.
Così, nonostante il momento relativamente favorevole dei laburisti, il progetto della nazionalizzazione delle miniere, punto di forza della campagna elettorale e di cui David è uno dei principali fautori, verrà prima rallentato e poi fortemente depotenziato nel suo iter parlamentare, fino a divenire un innocuo simulacro, che causerà la disfatta del partito laburista nelle successive elezioni.
David tornerà allora a fare il minatore, accompagnando il figlio del fratello morto in guerra (mentre l’altro era deceduto, “simmetricamente”, nel disastro minerario con il padre), nel suo primo giorno di lavoro. Scenderà nell’abisso del pozzo con il ragazzo, in modo analogo a quanto fatto dal padre con lui ad inizio del romanzo, quasi a continuare un ciclo esistenziale immodificabile, in cui il sospiro dei minatori sembra salire fino alle stelle, che guardano dall’alto, il rinnovarsi dei patimenti e delle sofferenze umane.
Ma la fine non è improntata ad un fatalismo rinunciatario.
Durante il tragitto verso la miniera, David ha modo di riflettere su quanto accaduto. Quello che gli dà forza, è il sentirsi nuovamente parte di una comunità che lo supera. Un soggetto collettivo che gli ridona speranza di lotte future.
Una chiusa che si avvicina a quella del capolavoro di Zola, affine per temi e ambientazione, e nel quale, lo scrittore francese, quasi mettendo a tacere il suo orientamento riformista, lascia che nelle ultime parole si respiri il sentore dell’insopprimibile funzione germinativa della rivoluzione e dell’avanzata della classe lavoratrice.