di Emilio Quadrelli

Il terzo paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del partito e alla sua funzione direttiva nel processo rivoluzionario, qui Lukács offre la più chiara e nitida esposizione della teoria leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai elaborato. Ma proprio detta esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure. Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro che subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti, il partito un prodotto storico lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non avevano forse detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era forse determinata dai conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della scienza marxiana? Ma questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il nocciolo della questione. Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica, quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in maniera spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.

Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività. Da una parte la scienza marxiana dall’altra lo scientismo positivista. Per Bernstein la funzione del partito, in piena coerenza con il suo evoluzionismo determinista e positivista, non può che limitarsi al ruolo dell’accompagnatore. In un percorso storicamente già tracciato, il compito del partito non può che essere quello del gestore di quanto già esplicito dentro la realtà. Il partito, quindi, non deve esercitare alcun surplus politico, farlo vorrebbe dire avere la pretesa di forzare il cammino storico e anteporre il treno della soggettività all’oggettività della storia. Da questo, e in fondo con piena coerenza, l’accusa a Lenin di blanquismo e giacobinismo1.

Accuse che, pur se apparentemente con segno diverso, ritroveremo nella critica luxemburghiana e, in maniera ancora più marcata, da parte di tutto quel filone comunemente noto come consiliare o comunista di sinistra2. Certo, tanto Luxemburg quanto i comunisti di sinistra non negano la necessità della rivoluzione e fanno interamente loro l’assioma marxiano: La violenza è l’ostetrica della storia, ma, proprio in virtù di ciò, considerano il partito di Lenin inutile e persino dannoso. Centrale in tutto ciò è la classe la quale, nella sua evoluzione/trasformazione spontanea, governa autonomamente il processo storico–rivoluzionario. Se per i riformisti l’evoluzione storica conduce oggettivamente, e potremmo aggiungere spontaneamente, al socialismo per Luxemburg e comunisti di sinistra la classe, attraverso una sua maturazione, arriva spontaneamente e unitariamente, il che non è poi così concettualmente distante dall’evoluzionismo riformista, alla rivoluzione e, a quel punto, la funzione del partito diventa inutile, almeno sotto il profilo della direzione politica poiché la classe si dirigerà da sola. Non solo. Questo processo sarà talmente diffuso e di massa, ovvero i livelli di coscienza di classe saranno così generalizzati e sostanzialmente uniformi, che l’esercizio della forza, ovvero la dittatura rivoluzionaria e il terrore rosso organizzati intorno al partito, saranno un fatto obiettivamente controrivoluzionario e qui non vi sono divergenze politiche ma presupposti filosofici diversi. Il problema e le differenze stanno a monte poiché diversi, distanti e incommensurabili sono i presupposti che stanno alla base della teoria leniniana e quelli che fanno da sfondo a tutti i suoi critici. In tutto ciò la diversa articolazione di una linea politica non è frutto di alcuna contingenza temporanea che, in qualunque momento, potrebbe portare a ritrovate unità, bensì la diversità incommensurabile propria di punti di vista non conciliabili. Il modo in cui, tanto da destra quanto da sinistra, i critici si posizioneranno nei confronti dell’ottobre e del coevo terrore rosso3. mostreranno come non la forza delle idee ma la materialità delle cose siano all’origine della suddivisione dei campi dell’amicizia e dell’inimicizia.

La linea di demarcazione è quanto mai rigida: da una parte il meccanicismo e l’oggettivismo di riformisti e comunisti di sinistra, dall’altro la dialettica storica marxiana. Da questa, in fondo, occorre sempre partire. La solitudine in cui Lenin il più delle volte si ritrova sarà, come vedremo a proposito della guerra imperialista, pressoché assoluta e racconta qualcosa di non secondario: la sua è la solitudine del punto di vista proletario dentro un mondo egemonizzato da tutti i punti di vista delle diverse sfaccettature del mondo borghese: è la solitudine della filosofia della prassi in lotta mortale con tutta la filosofia.

Se l’importanza di Lenin, come i suoi adulatori e critici hanno continuamente provato a evidenziare, si limitasse alla sfera politica, a distanza di anni non saremmo ancora qui a ragionare su di lui ma ciò che vale per Marx, vale per Lenin. Se Marx fosse stato un semplice economista, uno storico di valore o un politico particolarmente arguto ma non avesse segnato il mondo con una filosofia in grado di indicare per intero e per sempre il tempo storico, nessuno, se non per fini puramente dottrinali ed eruditi, prenderebbe in continuazione le sue opere tra le mani. Se ciò accade è perché questo pensiero, che non è mai un pensiero individuale ma sempre storico, ha offerto strumenti o meglio ancora, un metodo la cui attualità non decade. Paradossalmente, ma forse solo per chi lo approccia in maniera superficiale e non ne coglie così il portato complessivo, la battaglia di Lenin per il partito è quanto di meno organizzativo e pratico e quanto di più teorico e filosofico, vi sia.

La polemica di Lenin con tutto il movimento socialdemocratico e operaio dell’epoca non fa altro che reiterare le radicali divergenze di Marx ed Engels con i socialisti a loro coevi e la loro polemica verso questi fu, in apparenza, non solo puntigliosa ma persino ossessiva così come, e questo ancor più indicativo, la polemica con tutto quel mondo progressista fuoriuscito dal movimento hegeliano occupò non poco del loro tempo4. Ma quello che, a uno sguardo distratto, poteva apparire un gusto al limite del maniacale per la schermaglia intellettuale, celava una battaglia di ben altro tenore e spessore. In gioco vi era la messa a punto di uno strumento teorico–filosofico che doveva supportare tutto un moto storico il cui senso si cominciava appena a cogliere. In quel contesto dovevano essere messe a punto quelle armi della critica senza le quali la critica con le armi è destinata a soccombere. Se osservata sotto questa luce, allora, tutta la battaglia di Lenin per il partito assume una veste che si emancipa velocemente dagli orizzonti puramente organizzativi poiché, attraverso il partito, si tratta di mettere in relazione le armi della critica con la critica con le armi e pertanto porre l’accento sulle armi della critica diventa persino ovvio. Questa la distanza incommensurabile tra Lenin e tutti gli altri. La partita è tra la dialettica marxiana e la sua negazione, non su quanta importanza debba avere il Comitato Centrale. Chiuso questo prolungato ma doveroso inciso, torniamo a osservare il dibattito intorno al partito.

Per gli anti leniniani si potrebbe dire che il partito serve nella fase prerivoluzionaria come fattore illuminante, ma che decade nel momento in cui la classe approda alla rivoluzione. A caratterizzare entrambe queste due ipotesi è l’evoluzione oggettiva e spontanea in cui il passaggio storico viene a darsi. Insieme a ciò, e questo molto di più tra i cultori della spontaneità rivoluzionaria che tra gli esegeti del gradualismo riformista, vi è un’idea monolitica e sostanzialmente idealista della classe, questa, infatti, in seguito a una condizione storica determinata, approda a una coscienza di classe rivoluzionaria in blocco e, in virtù di ciò, sarebbe in grado di portare a termine il processo rivoluzionario autonomamente senza dover ricorrere a una qualche forma di direzione che non sia la direzione della classe stessa. In questo modo, palesemente, viene fatto rientrare dalla finestra quanto era stato cacciato dalla porta. A diventare essenziale, in pieno stile menscevico, diventa il livello medio della coscienza di classe poiché, accettando tale ottica, solo questa condizione mediana è in grado di unire la classe. A non essere compreso è quanto, all’interno delle dinamiche del conflitto di classe, a essere determinanti siano comunque e sempre i settori avanzati della classe e non la sua media statistica.

Da sempre, in ogni situazione di conflitto, è solo e unicamente una minoranza significativa a prendere l’iniziativa e a trascinare le masse medie. Le rivoluzioni sono sempre opera di una minoranza di massa ma una minoranza in grado di cogliere l’occasione che un determinato contesto offre5. Di più: l’azione di questa ha sempre i tratti di un cominciamento e non quelli di un millimetrico progetto studiato a tavolino. “Si comincia… poi si vede!” Appunto, ma ciò che in questa concezione viene soprattutto elusa è la funzione cosciente del partito la quale, è tale, proprio perché poggia sulla triade marxiana prassi/teoria/prassi. Questo, a conti fatti, sembra essere il vero nocciolo della questione e non si tratta certo di cosa da poco. Solo comprendendo ciò, e assumendolo completamente come mostra Lukács, diventa possibile andare al fondo della teoria leniniana del partito. Lenin sicuramente, come si è visto, non nega che la strategia sia sempre appannaggio della classe mentre ciò che spetta al partito è la dimensione propria della tattica. Volendo si potrebbe risolvere la triade prassi/teoria/prassi in strategia/tattica/strategia e, con ciò, forse le cose diventano più chiare. Dalla prassi che è ciò che le masse esprimono in potenza, attraverso alcune pratiche, ed è quindi riconducibile alla messa in atto di una prospettiva strategica, la teoria, ovvero il partito in quanto elemento cosciente, ricava una tattica la quale viene rimessa nella prassi quindi dentro la strategia della classe che a sua volta rimette in campo una prassi. Ciò che gli spontaneisti non colgono è come questo passaggio dalla prassi alla prassi non può darsi in maniera lineare ed evoluzionista ma necessita di un intermezzo in grado di rendere esplicito e organizzato ciò che la strategia ha posto, ma solo in potenza, all’ordine del giorno. Il partito è l’anello di congiunzione permanente che consente alla prassi di compiere un salto qualitativo.

Quando il partito rimette nella prassi ciò che ha appreso dalle masse lo fa avendo trasformato quella potenzialità politica in tattica insurrezionale ed è questo passaggio politico che restituisce alla classe. In questo modo, e solo in questo, il partito assolve la sua funzione direttiva; ma non solo: centrale, nel ruolo e nella funzione che il partito deve assolvere, è la capacità di leggere, dentro i fatti prodotti dalla classe, la tendenza. Esattamente qui si pone la netta e rigida contrapposizione tra la teoria leniniana del partito e il codismo6 che, pur se in maniera diversa, ne accomuna i critici. Proprio perché la classe non è un tutto omogeneo e i suoi comportamenti assolutamente non lineari e fautori di un unico livello di scontro, occorre saper comprendere, interpretare e visualizzare entro quale tendenza questi si pongono. Si tratta di applicare la dialettica marxiana dentro il conflitto di classe e farlo tenendo sempre a mente che, come ricorda Marx: “É dall’anatomia dell’uomo che si ricava l’anatomia della scimmia”. Ciò significa che, in relazione al conflitto di classe, la tendenza va colta a partire dal punto più alto della conflittualità. Quello e solo quello indica dove si colloca la strategia della classe.


  1. Queste accuse furono rivolte a Lenin da gran parte della socialdemocrazia del tempo. Lo stesso testo Che fare? non risultò immune da tali critiche.  

  2. Le migliori esposizioni teoriche di questa opposizione teorica all’impostazione leniniana rimangono, K. Korsch, Marxismo e filosofia, Edizioni Pgreco, Milano 2012, A. Pannekoek, Lenin filosofo, Edizioni Pgreco, Milano 2016. Per una buona e documentata ricostruzione storica di questa tendenza si veda, E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente. Per una storia del Kapd, Edizioni Dedalo, Bari 1974.  

  3. Sull’esercizio del Terrore rosso come risposta ai suoi critici di destra e di sinistra rimane insuperabile, L. Trockij, Terrorismo e comunismo, Sugar, Milano 1964.  

  4. K., Marx, F. Engels, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1967.  

  5. Al proposito il modo in cui prese forma la Rivoluzione francese è quanto mai esemplificativo. L’attacco alla Bastiglia, l’evento che diede il la a una delle più grandi rotture storiche, fu opera di circa un migliaio di persone. Cfr., A. Mathiez, G. Lefebrve, La rivoluzione francese, Vol. I, Einaudi, Torino 1997.  

  6. Sul codismo si vedano le argomentazioni di G. Lukács in, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, cit.  

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