di Franco Pezzini

Claude Seignolle, La Malvenue, trad. dal francese di Elena Furlan, introd. e nota di Cesare Buttaboni, pp. 223, € 16,90, Hypnos, Milano 2021.

La storia si dipana a cavallo tra il 1896 e (circa) 1912 in Sologne, nel sud dell’Orleanese, più o meno al centro della Francia, tra campi, corsi d’acqua e paludi (più di tremila, nella regione): una zona faticosa e ingrata da coltivare e dove antiche divinità galloromane sembrano allignare ancora, trasfigurate da tradizioni tarde su losche lavandaie di sudari e bestie da incubo. Claude Seignolle (1917-2018), cultore di folklore e narratore di vaglia, offre in La Malvenue (1952) il suo capolavoro, dipanando in modo parallelo le vicende drammatiche del bretone Moarc’h, padrone della fattoria della Noue, alle prese con la testa maledetta di un’antica statua accidentalmente decapitata con l’aratro, e la tragedia – sedici anni dopo – della figlia di lui, Jeanne detta appunto la Malvenue.

Il romanzo ha una sua dignità letteraria pienamente valorizzata dalla splendida traduzione di Elena Furlan: e sprofonda il lettore nella realtà febbricitante e malsana di un mondo contadino dove il desiderio sensuale sembra puntare sempre nelle direzioni meno opportune, i corpi si fanno ricettacoli di fiati torbidi, impulsi malefici e sensi di colpa e il passato emerge, ingovernabile, senza trovare pacificazione. Gli incendi fatti scatenare dalla Malvenue ai suoi spasimanti (possessione o manipolazione adolescenziale?) rimandano a quelli che suscita nelle carni attorno. E quella statua acefala irraggiungibile tra terra e palude finisce con l’apparentarsi a un rimosso, in tutti i sensi possibili.

Seignolle attinge, è ovvio, a tutta una ricca produzione folklorica, ma insieme alla grande letteratura francese: il tributo al Mérimée de La Vénus d’Ille (scritto 1835, pubblicato 1837) sembra abbastanza evidente pur nell’estrema originalità dello sviluppo. Val la pena di ricordare che il fantastico francese dell’Ottocento e la sua stessa declinazione orrifica non costituiscono meri derivati di Hoffmann e di Poe, per quanto indubbiamente ne recepiscano gli influssi: il nero francese, come avvertito già da Sade, abbinava a un gotico di importazione il macabro degli eccidi della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche, in una saldatura e reinvenzione visionaria che porterà frutti copiosi e originalissimi. Un fenomeno come quello del feuilleton, approssimativamente tra gli anni Trenta dell’Ottocento e i Trenta del secolo successivo, pur con le sue diverse declinazioni, veicola così a grandi numeri le sirene del macabro, emblematicamente celebrate da una forma di spettacolo molto francese come il Grand Guignol (1897-1963). E persino il surrealismo recupererà quella dimensione (importante ricordarlo, altrimenti nomina nuda tenemus), gli occhi fissi – sbarrati – al gotico più risalente e a un macabro dai connotati stranianti, onirici, insensati. A reinquadrare l’opera val la pena considerare tutto questo, e il fatto che in fondo la vera stagione d’oro del fantastico nero in Francia siano stati proprio l’Ottocento e gli anni di svolta col secolo dopo: la quantità di autori novecenteschi francesi o francofoni – anche grandi come Seignolle o Jean Ray – che traghetteranno nel linguaggio fantastico le inquietudini del Secolo Breve guarderà con entusiasmo a quel passato, che oggi permette tra l’altro il recupero di tutta una ricca produzione minore di grande successo. D’altra parte non dimentichiamo che molto del macabro francese si innesta anche in altri generi di narrazione: Dumas non scrive solo meravigliosi e nerissimi testi sovrannaturalistici, ma – come Hugo – riporta scorci genuinamente gotici nei suoi romanzi storici.

Anche per questo, senza polemiche inutili, sembra sviante cercar lumi su questo tema in Lovecraft e nel suo saggio sul sovrannaturale letterario: sia perché di molti testi francesi HPL non poteva avere conoscenza, sia perché – come ben noto – i suoi gusti stroncavano con sarcasmo una serie di declinazioni dell’orrore narrativo che invece oggi troviamo interessanti. Per non parlare di motivazioni cultural-razziali che ormai una critica letteraria seria giudica risibili e stantie (“[…] di fatto, il genio francese è per natura più incline a questo cupo realismo piuttosto che alle suggestioni dell’invisibile; perché queste ultime richiedono, per il migliore e coinvolgente sviluppo su vasta scala, l’innato misticismo dello spirito nordico”, corsivo mio). Mentre per un rapporto stretto e solo apparentemente contraddittorio tra realismo – non interpretiamo semplicisticamente questo termine – e fantasmi, pare interessante pensare a un autore come Maupassant.

Ciò detto sull’inquadramento di un’opera memore di tutta una tradizione di studi folklorici che affonda nell’Ottocento, è giusto sottolineare ancora una volta la qualità alta del testo. Una serie di figure, e particolarmente la giovane dark lady Jeanne, sorta di Giovanna d’Arco dell’inferno, restano vivide al lettore, scolpite caratterialmente con tratti non meno marcati ed enigmatici di quelli della testa maledetta emersa arando: al netto di un tema – la statua pagana fatale – fortemente connotante la scrittura visionaria tra i due secoli, come attestano anche Henry James e Vernon Lee, si tratta in fondo dell’ennesima testa mozza degli incubi di Francia, fatale come il capo di Medusa. Sul rapporto quasi illusionistico tra la statua e la Malvenue è bene non spoilerare, anche se la narrazione si regge su un godibilissimo gusto affabulatorio persino più che sulla trama.

A fronteggiare il Male, in un paese fortemente cattolico come la Francia, colpisce la latitanza di un clero con santabarbara esorcistica (c’è solo un mago, abbastanza inutile), parallelo all’altro “ordine” dei gendarmi, costantemente pronti ad arrestare innocenti. E, come nel migliore fantastico dell’imbarazzo, non possiamo che restare dubbiosi se gli eventi sovrannaturali descritti non scoperchino in fondo, a colpi di incubi e incidenti folk horror ma in realtà naturalissimi, i malesseri di un mondo subalterno ormai deprivato di certezze anche solo simboliche.