di Giovanni Iozzoli

Come negli ultimi 1445 anni, è cominciato il mese di Ramadan per 1,9 miliardi di musulmani nel mondo. Un tempo, in occidente, questa pratica evocava l’eco lontana di mondi esotici. Oggi, con il restringimento e la densificazione degli spazi globali, il digiunatore è il nostro vicino di casa, il collega di postazione o il calciatore che idolatriamo. Paradossalmente, nonostante questa crescente condizione di prossimità, negli ultimi vent’anni lo stereotipo dell’Islam come figura dell’“alterità” per eccellenza, si è sedimentato nell’immaginario collettivo nostrano. Nelle nostre società, la percezione di questa irreversibile presenza islamica, oscilla oggi tra due estremi: la mostrificazione dell’“altro” percepito come presenza aliena, che induce persino sottili suggestioni di “reconquista”; oppure un paternalismo progressista che legge l’identità religiosa come ritardo della storia, inevitabilmente destinato ad essere riassorbito dalla griglia valoriale liberale.

Agli occhi occidentali, il digiuno del Ramadan è forse la più estranea ed “estrema” delle prescrizioni islamiche. È soprattutto la più radicata e massificata pratica collettiva pre-moderna che ancora persiste dentro le nostre società, che hanno sradicato ogni riferimento al trascendente, smontando e ricostituendo più e più volte il senso comune del loro stare al mondo – sotto l’incedere dello sviluppo scientifico e tecnologico che tutto divora e riplasma.

Il Ramadan è un moto spirituale di riconduzione al corpo e alle sue verità elementari. L’atto di culto si pratica col corpo, attraverso il corpo, ma in una allusione di superamento della dimensione mondana e materiale. Digiunare è una pratica antica – che nei secoli passati connotava più o meno tutte le grandi religioni – che solo nell’Islam è rimasta attiva e largamente partecipata. Rappresenta il residuo di epoche pre-tecnologiche in cui solo il corpo era a disposizione degli uomini per esprimere i sentimenti o le aspirazioni più radicali o profonde. Il corpo – prigione samsarica o veicolo di liberazione, a seconda del suo utilizzo – era l’unica realtà su cui l’uomo primordiale potesse contare con certezza.  Quella “organica” era l’unica tecnologia disponibile.

Il corpo che digiuna sta “nuotando controcorrente” – come in ogni ascesi psico-fisiologica, a partire dallo Yoga –, rispetto alla direzione naturale e inerziale. Ordinariamente, l’esperienza umana produce una tendenza centrifuga dell’uomo rispetto all’idea di Dio. Il digiuno serve ad arrestare questo allontanamento dal centro, dal Logos, dall’origine, che inizia semplicemente quando veniamo al mondo. Il digiuno deve provvisoriamente imbrigliare la “fuga dall’essere” che il dipanarsi della vita quotidiana provoca e rivela in ogni suo aspetto. .

Arrestata la traiettoria centrifuga, Il digiuno deve contribuire a riorientare e reintegrare l’individuo verso un suo centro misterioso e nascosto, che solo nel silenzio e nella sottile sofferenza dell’astensione dal cibo e dal bere, si può percepire. Lo scorrere delle ore del giorno appare come calato in una dimensione irreale, in uno stato di sospensione, di attesa. Si crea uno spazio vuoto, libero, in cui le faccende mondane perdono consistenza, si rivelano effimere, vacue, perché il corpo ci ricorda ogni istante che siamo dentro un’anomalia, una eccezionalità, un allarme – abbiamo sete e abbiamo fame.

La vita ricomincia a correre, come l’orologio del tempo biologico, solo al calare del sole. Lì, con la rottura del digiuno, c’è un ritorno ai fondamenti basici dell’esperienza umana – nutrimento e sessualità – che però rappresentano solo una parentesi. Il vero credente usa la sazietà e la notte che incede, per ritornare al piano dell’ascesi e utilizzare le ore del buio e le sottili vibrazioni che da esse emanano.

Per gli occidentali questa esperienza è imperscrutabile, aliena o addirittura folle. La si attribuisce ad una caratterizzazione etnico-geografica – un presunto carattere mistico dell'”orientale”. Ma Oriente e Occidente sono invenzioni provvisorie che servono a fissare le coordinate identitarie – io e l’altro. Il cristianesimo, ad esempio, è stato faccenda orientale per lungo tempo e diventa “occidente” solo faticosamente, nei secoli, relegando nei monasteri le pratiche cultuali e “liberando” le comunità da obblighi che ne avrebbero zavorrato lo sviluppo economico. L’Islam ha riportato “il cenobio” dentro casa, dentro la vita delle persone comuni, rompendo il dualismo e la divisione dei compiti che divideva il sacro e il profano. La preghiera che scandisce la giornata, il Libro senza mediatori, il digiuno, appunto – sono tutte eredità del monastero o dell’ashram, che l’Islam colloca nella vita ordinaria. Nell’Islam non c’è monachesimo perché il monastero pervade la quotidianità, con i suoi riti silenziosi.

Nelle fabbriche del nord Italia – dentro cantieri, magazzini, verniciature, fonderie e zincature –, ogni imprenditore sa, con disappunto mal sopportato, che in questo mese si registrerà un calo della produttività e un aumento dell’assenteismo. Nei paesi islamici l’attività lavorativa è istituzionalmente limitata al minimo; ma in Europa i digiunatori devono convivere con i ritmi ordinari del lavoro, dello studio, persino dello sport. I padroni mugugnano ma abbozzano. Weberiani inconsapevoli, non capiscono come persone spesso povere, dedichino il loro tempo a simili arcaismi: il favore divino è testimoniato dall’abbondanza degli straordinari, mica dei digiuni…

Questa testarda propensione verso le ragioni dello spirito – pur con tutte le prosaiche deformazioni dei tempi presenti – è sostanzialmente incompatibile con la modernità. Anzi, è l’ultimo ostacolo al pieno dispiegamento dell’“uomo nuovo” che il cyber-capitalismo sta faticosamente sgravando dal suo seno. La “coazione a godere”, lo spettacolo come surrogato della vita, l’iper-individualizzazione delle esistenze e la loro presunta “liberazione” dai ceppi del genere, dell’identità e delle radici, le malattie dello spirito come normale condizione umana. E la durezza della fame, delle privazioni – la dimensione naturale che abbiamo impiegato secoli per allontanare da noi come incubo antico (che è invece la quotidianità dei poveri del mondo…). Tutto ciò cozza irriducibilmente con il modello di vita che il tardo liberalismo sta scolpendo.

È per quello che oggi il Ramadan è visto da molti occidentali come residuo intollerabile, fanatico e inspiegabile: perché riporta l’uomo alla nudità, alla fragilità della sua condizione essenziale, lo priva degli orpelli identitari; se digiuni puoi essere ricco, ma soffrirai lo stesso la fame; device e tecno-chincaglieria non aiutano. Torni un neonato affamato, una bocca avida che non può fare altro che affidarsi. L’ego deve mollare la presa, affievolire – almeno per un po’ – la sua ostinazione, per spogliarsi di tutte le maschere con cui abbiamo faticosamente coperto la nostra essenzia. Il permanere sulla faccia della terra di una cultura che non subisce unilateralmente e totalmente la fascinazione del “paese dei balocchi” della modernità, è l’espressione di una preziosa resistenza antropologica da indagare e capire.

L’occidentale ha impiegato secoli per sottrarsi alla consapevolezza del limite del corpo; ha cercato di sconfiggere fame, sete, malattie, dolore; ha cercato di controllare, sedare, riattivare; e oggi ha raggiunto una falsa coscienza di semi onnipotenza che il capitale e la tecnologia alimentano come una bolla artificiale. Vedere uomini e donne del ventunesimo secolo fermarsi a digiunare è un oltraggio alla contemporaneità e alle sue promesse; un rifiuto potenziale, uno schiaffo valoriale, una sfida che lascia l’uomo occidentale ancora più disorientato e solo, nonostante lo stomaco pieno di false certezze.

Buon Ramadan a tutti, allora. A chi digiuna e a chi si abbuffa, nella comune deriva di senso in cui navighiamo. Buon Ramadan: nella speranza non che “l’altro” diventi come noi – a condividere uno strapuntino nell’inferno piatto dell’omologazione – quanto piuttosto si renda disponibile a pompare sangue fresco e idee e vita dentro il corpo esausto della modernità. L’olio della Lampada viene da un Ulivo che non è ne’ d’Oriente ne’ d’Occidente, come recitano i coranici “versetti della luce”.

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