di Sandro Moiso

Il 28 gennaio, a causa di una malattia con cui combatteva da tempo, si è spento Franco Ghigini.
Musicista e intellettuale colto e raffinato; etnomusicologo e compositore; storico e ricercatore delle tradizioni culturali e musicali non soltanto della valle tanto amata da cui proveniva, la Val Trompia; scrittore e giornalista; organizzatore di festival musicali e promotore di iniziative culturali; docente al Conservatorio di Brescia e insegnante di organetto diatonico presso la Scuola di Musica Popolare ACP della Valle Verzasca in Svizzera; compositore e divulgatore, Franco poteva e può ancora tutt’ora essere considerato non soltanto uno degli intellettuali più significativi prodotti dalle valli lombarde, ma dall’Italia contemporanea tout cour.

Moderno eppure appassionato dal passato e dalle vite più umili, che in quello era possibile ritrovare anche se, spesso, avevano dovuto celarsi allo sguardo delle istituzioni, del potere e della Chiesa, ha saputo ricollegare, nel corso di tutto il suo lavoro, condotto fino agli ultimi mesi di vita, le culture e le tradizioni musicali espresse decenni o secoli or sono con il tempo presente e anche a un possibile futuro, sempre alla luce di un impegno e di una serietà che ben pochi altri potrebbero vantare. Il tutto accompagnato da una rara sensibilità artistica e umana, difficilmente riscontrabile in tanti altri studiosi ed esperti (veri o anche soltanto presunti tali).

Formatosi alla scuola di Roberto Leydi, dopo aver abbandonato gli iniziali studi in Medicina, ha sempre inseguito le tracce dei suoni della musica celtica e i suoi infiniti percorsi tra le valli alpine, la Scozia, l’Irlanda, la Bretagna e gli Stati Uniti. Ma facendo questo Franco ha sempre spinto lo sguardo oltre i confini sia della musica europea e statunitense che della musica tradizionale. Mai rinnegando l’infinito amore per ogni ambito della popular music: dal rock, nelle sue varie manifestazioni, al country e al blues, ma anche senza mai tralasciare il jazz, la musica classica e anche quella più sperimentale.

Ispirato ad un ideale di bellezza e perfezione, senza per questo scadere nell’estetismo e anzi dimostrandosi capace in ogni occasione di riunire e spiegare insieme le ragioni sociali e culturali e le motivazioni più profonde delle esperienze e delle scelte estetiche dei musicisti e dei loro prodotti sonori, Franco Ghigini è sempre stato molto severo. Soprattutto con se stesso e il proprio operato. Sia che si trattasse di un libro, di un breve saggio, dell’esecuzione di un brano o della preparazione di una conferenza, tutto doveva essere curato nei minimi dettagli affinché si avvicinasse il più possibile all’essere perfetto.

Da questo, però, non bisogna far discendere l’immagine di un intellettuale pedante o pignolo, tutt’altro. Sempre disponibile alla battuta, alla frase scherzosa, al sorriso e alla risata sincera, ha regalato agli amici, ai conoscenti o anche a chi lo ha conosciuto per una sola serata, magnifici e indimenticabili momenti di umanità e di pacata riflessione sulla vita, l’arte e un mondo spietato contro cui egli si è battuto con i suoi modi sempre garbati, ma altrettanto decisi.

Per questo chi scrive pensa che sia utile e necessario portare a conoscenza del pubblico dei lettori anche l’ultimo progetto editoriale che ha avuto appena il tempo di abbozzare, ma che già nella sua formulazione ne rivela il carattere, allo stesso tempo, schivo, sincero e mai, proprio mai, superficiale.
Insieme alla proposta viene qui allegata la lista dei dischi che egli avrebbe voluto presentare nella ricerca e la prima (e unica) scheda compilata in vista di tale lavoro.

Grazie Franco: è stato un onore conoscerti e aver potuto collaborare con te, ma soprattutto per il fatto che il tuo percorso di vita, passione e studi ha reso questo mondo migliore, anche se per una stagione davvero troppo breve.

Prontuario intimo di musiche (quasi) dimenticate

Sono cento e ancora cento i dischi imprescindibili per un appassionato di musica.
Quelli che egli sente parte di sé, che ne hanno accompagnato vicende, esperienze, incontri, attimi feriali resi memorabili proprio da tale privato legamento. Quelli che lo hanno cambiato poiché, è bene ricordarlo, ogni scoperta musicale induce una nuova attitudine all’ascolto, un nuovo ascoltatore; di più, incoraggia a un nuovo modo di guardare il mondo.
E sono musiche che, per una sorta di rimando speculare, vengono condizionate da questa sintonia, rimodellate dalla personale simbiosi d’uso, mondate da categorie di genere per essere consegnate a una tassonomia del cuore.
Applicarsi a un compendio che trattenga tale molteplicità è operazione ardua. Difficile altresì disporre in una selezione critica ciò che, sedimentato nelle successive stagioni musicali e della vita, si offre a un presente costantemente mutevole.

Mi sono perciò dedicato imponendomi criteri che delimitassero l’ambito d’indagine e si risolvessero, se possibile, nella scelta la più sincera e magari la meno risaputa. Ho così evitato ciò che molti appassionati hanno avuto modo di conoscere e apprezzare negli anni grazie ad ampi riscontri di critica o di pubblico. La bibliografia che affronta fenomeni, scuole, idiomi e protagonisti della popular music è infatti ormai sterminata e ribadirla avrebbe reso il mio impegno ridondante e retorico.
Ho eluso quindi i grandi nomi e dischi che hanno decretato la storia, meglio le storie della musica – anzitutto rock e jazz – nel secondo Novecento e nell’inizio di millennio che stiamo vivendo. Non si troveranno descritte le opere più rappresentative, in differente contesto irrinunciabili, del progressive, della scena di Canterbury, della psichedelia, della West Coast, delle jam bands, di Frank Zappa l’alieno, del blues, del southern rock, della new wave, del folk revival e del psych folk, del bluegrass e del country rock, della new acoustic music, della minimal music, dell’ambient music, delle innumerevoli correnti del jazz e via dicendo.
Non mi sono soffermato su quelli che, per me e presumo per altri, potrebbero essere i dischi perfetti: a titolo di esempio e in ordine sparso mi piace però menzionare, giusto per chiarire i miei gusti musicali, i Beatles indistintamente da Rubber Soul ad Abbey Road, Pet Sounds dei Beach Boys, Astral Weeks e Moondance di Van Morrison, Blonde On Blonde di Bob Dylan, Forever Changes dei Love, If I Could Only Remember My Name di David Crosby, At Fillmore East della Allman Brothers Band, In Search Of The Lost Chord dei Moody Blues, In The Court Of The Crimson King dei King Crimson, Bryter Layter e Pink Moon di Nick Drake, Rock Bottom di Robert Wyatt, Hosianna Mantra dei Popol Vuh, After The Break dei Planxty, The Köln Concert di Keith Jarrett, Kind Of Blue di Miles Davis, Impressions e A Love Supreme di John Coltrane, In C e A Rainbow In Curved Air di Terry Riley, Music For 18 Musicians e Tehillim di Steve Reich.
Ho pure tralasciato dischi a me cari di protagonisti minori e, come si usa dire, di beautiful losers, perle che la più attenta e meritoria critica musicale ha già svelato e diffusamente valorizzato in benedette riviste specializzate.
Inoltre, non avendo l’indole del collezionista, non ho prestato attenzione al disco valevole in quanto raro, meglio se introvabile.

Alla luce di questi vincoli e forse grazie a essi, ecco affiorare, limpido, ciò che ho invece sentito appartenermi profondamente. Musiche che sono entrate nella mia vita e per ragioni misteriose sono rimaste, musiche davvero indispensabili solo per me poiché a legarmi è un’affezione particolare, una risonanza intima prima che estetica.
Nella più assoluta libertà, senza badare a coerenze di periodo, di linguaggio o di stile, ho pertanto individuato alcune decine di dischi, da cui a fatica i trenta qui condivisi: taluni passati inosservati e dimenticati, altri ascrivibili a scenari più o meno minoritari, altri non eminenti nella produzione di musicisti titolati, qualcuno ben conosciuto, ma impossibile da escludere. Una selezione che tuttavia rivela, e non potrebbe essere viceversa, la mia predilezione per le varie espressioni del folk revival anglo-celtico e francese, la minimal music, le atmosfere rarefatte coltivate da etichette come la tedesca ECM, la musica acustica.
Non v’è da parte mia, tengo infine a sottolinearlo, alcuna precisa vocazione istruttiva, piuttosto il riannodare un affatto soggettivo itinerario di bellezza, sperando si configuri per il lettore e ascoltatore in un viaggio musicale chissà egualmente avvincente, foriero di inaspettate conferme ed emozionanti sorprese.
Ciascun disco, dettagliato in una scheda nella quale mi concedo anche digressioni personali, sarà corredato, in calce al volume, da links per l’ascolto in rete e da un’attinente discografia minima. A conclusione, sarà anche proposta una selezione bibliografica orientativa.
Confido che questa prima tappa, riservata alla musica internazionale, venga seguita da una seconda, dedicata esclusivamente alla musica italiana.
Intanto, buona lettura e buon ascolto!

Franco Ghigini

I prescelti

• Eberhard Weber Fluid Rustle
• Oregon Winter Light
• John Surman Road To St. Ives
• Steve Lacy / Gil Evans Live In Paris
• Roger Eno Between Tides
• Brian Eno Discreet Music
• David Behrman On The Other Ocean
• Alvin Curran Canti e vedute del giardino magnetico
• Virginia Astley From Garden Where We Feel Secure
• Kent Carter Solo
• Popol Vuh Seligpreisung
• Daniel Hecht Willow
• Darol Anger / Mike Marshall Chiaroscuro
• Ira Stein / Russel Walder Elements
• Last Dance Orchestra Lost For Words
• Makam & Kolinda
• Danish String Quartet Last Leaf

Murray Head Between Us
• Nigel Mazlyn-Jones Sentinel & The Fools Of The Finest Degree
• Heidi Berry Love
• The Pearlfishers Across The Milky Way
• Michael Head & The Strands The Magical World Of The Strands
• Allan Taylor Sometimes
• Blowzabella Wall Of Sound / A Richer Dust / Vanilla
• Lo Jai Acrobates et Musiciens
• Marc Perrone Cinema Memoire
• Den Den
• Gabriel Yacoub Babel
• Alan Roberts & Dougie MacLean Caledonia
• Moving Hearts Moving Hearts

Altri…
• Bert Jansch
• Eric Andersen
• Michael Franks
• Julverne
• Sundays
• Dan Ar Braz
• Luis Di Matteo

MURRAY HEAD

Between Us
Philips, 1979

Cantautore e attore londinese, Murray Head non è mai figurato nella più nota scena musicale britannica: un riscontro discontinuo il suo, tuttavia agli inizi di carriera premiato dalla partecipazione al musical Jesus Christ Superstar (1970) e dal successo del brano Say It Ain’t So Joe (1975). Between Us, album bissato con grazia affine da Voices (1980), è un florilegio di delicate canzoni. Una voce che spesso tende al timbro del falsetto si dispone su un sobrio tappeto elettroacustico, efficace nel permeare la suadente proposta musicale. Vi suonano in punta di dita, per la produzione di Rupert Hine, Bob Weston alla chitarra solista, Trevor Morais alla batteria e i musicisti del giro canterburiano John G. Perry al basso e Geoffrey Richardson a basso e chitarra. Simon Jeffes, indimenticato inventore della Penguin Café Orchestra – ora guidata dal figlio Arthur come Penguin Café –, è responsabile degli arrangiamenti di archi.
Ancora una volta la copertina dice assai: una fotografia lo ritrae, in uno scenario al limine fra terra, mare e cielo, guardare la figlioletta. L’invito è a soffermarsi appunto su ciò che sta nel loro – e nel nostro – «between us», su amore e affetti anzitutto, interpretati con un approccio che oggi si direbbe minimale. Scegliendo un dialogo riservato e un’ombreggiatura malinconica Murray Head racconta piccole vicende della vita, dolori, crucci, speranze. Per tutta un’estate di molti anni fa non riuscii a staccarmi da questo disco, emozionato dalla fragrante scoperta musicale; e lo alternavo all’ascolto del capolavoro di Nick Drake Pink Moon (1972), tanto diverso eppure simile nell’evocare un medesimo stato d’animo, ovvero che per una sorta d’incantamento venissi privilegiato fra mille da una così intima confessione.
La peculiare atmosfera è presto chiarita in Los Angeles, How Many Ways, nel lieve reggae di Rubbernecker. E quando il canto diviene perentorio, come nella dichiarazione dal programmatico titolo Sorry, I Love You, e l’umore di Countryman assume toni rock si tratta in fondo di dialettica con la gentilezza, assai evidente in It’s So Hard, Singing The Blues, Good Old Days e Lady I Could Serve You Well.
Nella bella Mademoiselle – unica traccia prodotta da Paul Samwell-Smith – il titolo e l’allure parigina non sono casuali poiché Murray Head troverà grande credito proprio in Francia, sua adottiva patria artistica. A questa predilezione infatti dedicherà brani in lingua francese: in una cospicua discografia approdata a un elegante pop, l’album Rien N’Est Écrit (2008) si distingue indubbiamente fra i migliori. È vivo ancora in me il ricordo di quando, nel 1984 in un viaggio in Bretagna alla ricerca del sacro graal del folk, m’imbattei a Brest in cartelloni che annunciavano proprio un suo concerto: la sorpresa fu vederlo su un palco da rock star e un migliaio di giovani cantare le sue canzoni.
La conclusione è affidata, con ribadito garbo, da Bye, Bye, Bye: «Io me ne devo proprio andare / Tutto non ha più interesse / Porta a pensare troppo / E a sentirsi sempre peggio».

Qui un’intervista rilasciata da Franco Ghigini all’autore, pubblicata su Carmillaonline il 25 ottobre 2017, con la quale veniva ricostruito il suo percorso e le sue esperienze di formazione e di indagine etno-musicologica.