di Michela Lazzaroni

Vanja andò a prendere le sue valigie e slacciò le fibbie. Una sembrava sul punto di cedere. Era stata il regalo di qualcuno, che a sua volta l’aveva ereditata da qualcun altro, e così via. In ogni caso, non sarebbe durata a lungo: la parola VALIGIA era quasi illeggibile. […] «Valigia» sussurrò Vanja per mantenerla nella sua forma ancora per un po’. «Valigia, valigia».

 

Vanja Essre Due di Brilars è il nome della protagonista e sono anche le prime cinque parole del romanzo: “Vanja Essre Due di Brilars, consulente per gli Specialisti d’Igiene di Essre, era l’unica passeggera del treno diretto ad Amatka”.

Vanja proviene da una grande colonia ed è stata inviata alla colonia minore di Amatka per raccogliere dati sui prodotti per la pulizia, una sorta di indagine di mercato. Nell’alloggio condiviso che le è stato assegnato, compila i suoi rapporti con rigore e distacco. Ad Amatka fa sempre freddo, l’alimento principale sono i funghi coltivati nelle caverne sotto la colonia, i bambini vivono separati dai genitori per evitare l’attaccamento emotivo, e ogni operazione è monitorata dalla “comune”. Una distopia, diremmo noi, ma sarebbe riduttivo etichettare Amatka con questo termine – e uso “etichettare” non a caso (Karin Tidbeck, pp. 228, € 16, traduzione di Cristina Pascotto, Safarà Editore, Pordenone 2018).

Karin Tidbeck è autrice svedese di weird di cui in Italia si trova poco. La vocazione pienamente fantastica della sua scrittura emerge dapprima in forma breve, nell’antologia Jagannath, edita da Safarà, e nel racconto “Zie” apparso nell’antologia Le visionarie. Fantascienza, fantasy e femminismo, a cura di Ann e Jeff VanderMeer, edito da Produzioni Nero. In questo testo allegorico e a tratti terrificante, un’aranciera senza tempo fa da sfondo al banchetto cannibale con cui le Zie tramandano loro stesse e si rendono immortali. Quindi non stupisce che Amatka, il primo romanzo di Tidbeck, non sia la solita distopia.

 

Il fondo del beauty-case era ricoperto da una pasta spessa. Lo spazzolino. Era stata negligente. Lo aveva notato in treno, la scritta SPAZZOLINO incisa sul manico aveva iniziato a perdere definizione. Tuttavia, aveva pensato che avrebbe resistito più a lungo.

 

A differenza del “vecchio mondo”, dove i materiali erano solidi e confortanti, nelle colonie le cose mantengono la loro forma solo se hanno un nome e vengono nominate. Per questo ogni oggetto, ogni mobile e persino ogni edificio ha un’etichetta o un’incisione che ne dichiara la forma: MATITA, LAVANDINO, SERRA. L’etichetta deve essere periodicamente ripassata o sostituita, e per rallentare il processo di deterioramento si chiamano gli oggetti per nome “marcandoli” con la parola. Se non si è diligenti, come Vanja, ci si ritrova con lo spazzolino sciolto in una poltiglia densa che contamina tutto ciò che tocca – il “gloop” nella traduzione inglese di Tidbeck. Per questo il vocabolario è limitato e non esistono sinonimi – o meglio, sono banditi, pena venire segnalati alla comune come sovversivi.

 

In Amatka è possibile riconoscere le radici di un fantastico di matrice femminista. In un mondo dove ogni cosa può essere qualcos’altro, la libertà della materia – e quindi del pensiero – deve essere circoscritta in modo dogmatico. Attorno al gloop aleggia un’aura di paura che sfocia nel tabù. La sua presenza fisica è tanto pericolosa quanto disdicevole, ma ancora più pervasivo è il tabù del linguaggio, che viene severamente regolamentato e mutilato. Tidbeck tratta con originalità il topos della parola come cardine del fantastico, tematica che si può ritrovare in Lingua nativa di Suzette Halden Elgin, sul ruolo politico della linguistica, o nel racconto “Le parole proibite di Margaret A.” di L. Timmel Duchamp, presente nel già citato Le visionarie, ma anche nelle ancelle di Margaret Atwood, delle quali viene riscritto il nome insieme alla funzione, o nel potere stregonesco dei nomi nel ciclo di Earthsea di Ursula K. Le Guin. Vanja non sa di volersi ribellare, ma deve farlo – sceglie di farlo – quando le certezze del suo presente si sfaldano come gloop. E in un mondo sull’orlo della decomposizione, dove le devianze semantiche sono sovversive, la ribellione passa proprio dalla parola. Non a caso il personaggio più misterioso e suggestivo del romanzo è Anna di Berols, una poetessa. Presente in assenza, Anna muore in un incendio prima ancora che il libro cominci, ma sopravvive nei suoi scritti.

 

C’era qualcosa nel linguaggio di Anna di Berols. Era come se comprendesse le parole e gli oggetti a un livello più profondo di tutti gli altri. Le parole non erano semplici rime o descrizioni del mondo. Vanja aveva la sensazione che le serre non avessero più bisogno di essere contrassegnate perché le parole di Anna di Berols avevano dato loro una forma perfettamente compiuta.

 

Come quello di Anna, il linguaggio di Tidbeck è asciutto, esatto, senza fronzoli. Lo stesso rigore è applicato alla protagonista, poco incline ad aprirsi con gli altri e con il lettore. Vanja preferisce l’azione al monologo interiore, ed è significativo che Tidbeck abbia scelto come incipit il suo nome e la sua funzione, quasi volesse etichettare anche lei, per poi lasciarla libera di agire.

Una volta determinato il worldbuilding e la protagonista, quel che resta sono i misteri di Amatka. I boati che di notte provengono dal lago. I tunnel che non dovrebbero esserci, ma ci sono. Un pizzico di horror dello spaesamento. Una queerness tratteggiata con sensibilità. Un incendio o due, perché non si può creare senza distruggere.

 

Nessuno aveva mai spiegato esattamente dove si trovasse il vecchio mondo, né come fosse. Era irrilevante. Erano lì, ora, nel nuovo mondo, e avevano costruito la società perfetta.

 

Uno degli aspetti più interessanti della letteratura fantastica – e del weird, in particolare ­– è la miracolosa capacità di isolare un dettaglio del nostro presente e renderlo legge fisica, come la gravità o la termodinamica. Nel caso di Amatka abbiamo per le mani la natura sovversiva e creatrice del linguaggio.

Per quanto riguarda la scrittura, il nostro mondo già combacia con il loro: scrivere un testo significa crearlo – questo libro non esisteva prima di essere scritto, così come la recensione che state leggendo.

Ma proviamo a fare il percorso inverso, isoliamo la specificità di Amatka e applichiamola al nostro presente: in qualche modo corrispondono. Non nella materia, certo, ma nella parola sì. L’atto del comunicare definisce i contorni del mondo in cui avviene la comunicazione stessa. Non è così che si propagano le idee in internet, al bar, in classe, in ufficio? Il linguaggio determina la realtà, e viceversa: più leggo e ascolto un pensiero più lo normalizzo, e più lo normalizzo più lo consolido per le generazioni future. La lezione appresa ad Amatka può essere applicata ovunque. Ogni volta che condividiamo un’opinione, ogni volta che scriviamo un articolo, un racconto, una recensione, un commento sui social, non stiamo solo descrivendo il mondo in modo passivo, ma contribuiamo a crearlo per gli altri, a farlo esistere, e ne abbiamo quindi la responsabilità.

Forse è proprio questo il punto, descrivendo il mondo lo facciamo esistere, ed è un concetto che una volta scoperto non può più essere ignorato, né arginato.

 

NB: raccomando di applicare un’etichetta con la parola “LIBRO” alla quarta di copertina, per evitare la disgregazione prematura del volume.