di Luca Cangianti

Nel “Poscritto alla seconda edizione” del Capitale Marx stigmatizzava la generale disposizione a trattare Hegel da «cane morto», si professava suo discepolo ed evidenziava l’imprescindibile necessità della dialettica per afferrare il funzionamento del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, se in Marx vediamo la dialettica al lavoro, rimane pur sempre aperta la questione di che cosa sia nello specifico. Certo, ci si può rivolgere direttamente a Hegel per togliersi la curiosità, ma il pensiero di questo filosofo è notoriamente esposto con un linguaggio spesso oscuro. Per accostarci a questo pensatore, quindi, un’opera come Hegel. La dialettica di Vladimiro Giacché (Diarkos, 2023, pp. 240, € 18,00) risulta di grande utilità. Nella nuova edizione (la prima era uscita nel 2020 in piena pandemia), l’autore ha ulteriormente semplificato il linguaggio (in verità già ampiamente chiaro), arricchito la parte antologica e aggiornato i riferimenti alle nuove edizioni critiche.

LC – Hegel viene considerato da molti il filosofo della reazione prussiana. Eppure da giovane scrive opere sovversive (che si guarda bene dal pubblicare), sostiene la necessità dell’abolizione dello stato e manda alle stampe testi politici anonimi. Poi, nel corso di tutta la vita, intreccia rapporti con rivoluzionari, liberali ed ebrei fino ad aiutare un prigioniero politico. Insomma, che tipo di filosofia è quella di Hegel? Ha ragione Marx a ritenerla rivoluzionaria o di contro Popper a sostenere che fosse reazionaria?

VG – Popper sicuramente non ha ragione. Di contro alle opere giovanili e a quanto contenuto nelle lettere, è vero che nei volumi pubblicati e specialmente nella Filosofia del diritto si avverte un adeguamento alla situazione politica vigente. Ma il tema va affrontato in termini più filosofici che politici. Il problema è come interpretiamo il rapporto tra razionale e reale. Come noto, per Hegel «ciò che è reale è razionale”. Ma questo non significa affatto che tutto ciò che esiste, per il fatto stesso di esistere, sia razionale. Uno stato cattivo può ben esistere, ma per Hegel è “non-vero”, cioè inadeguato, imperfetto. Inoltre – Engels lo ha spiegato molto bene – il nesso realtà-razionalità in Hegel non può esser considerato in termini statici: in questo senso si può dire che era razionale il feudalesimo, ma anche il capitalismo che l’ha sostituito. La filosofia di Hegel è basata sulla processualità delle cose e sulla realtà della contraddizione. Questa non è un fallimento del pensiero, ma una sfida per il pensiero, che deve essere capace di comprenderla. Una filosofia del genere non si presta a giustificare un ordine economico e giuridico immutabile. Alla base del pensiero hegeliano c’è l’inquietudine.

LC – Nel tuo libro sottolinei l’importanza attribuita dalla filosofia hegeliana alla «capacità del soggetto di essere una struttura autocentrata, in grado di conservarsi e mantenersi in unità con sé nel rapporto con l’esterno» e noti come la Fenomenologia dello spirito sia stata pubblicata in Germania proprio quando erano diffusi i romanzi di formazione. In «queste opere letterarie – sostieni – veniva descritto il duro e necessario cammino, costellato di difficoltà e sconfitte, attraverso cui il protagonista della narrazione poteva infine giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.» Queste affermazioni mi fanno tornare in mente il viaggio dell’eroe così come concepito da Joseph Campbell e Christopher Vogler, ma anche da Carl Jung. Sono similitudini che vedo solo io o c’è qualcosa di più sostanziale?

Vladimiro Giacché

VG – Hegel definiva i filosofi come «eroi della ragione pensante» e la stessa struttura della Fenomenologia è debitrice al modello letterario dei romanzi di formazione, quali il Wilhelm Meister di Goethe e l’Heinrich von Ofterdingen di Novalis. Bisogna tuttavia fare tre precisazioni.
La prima: la riflessione di Hegel è focalizzata sul concetto di soggettività e ha come riferimenti storici in primo luogo fonti filosofiche: Kant – che rivendica alla centralità del soggetto il processo conoscitivo -, l’irriducibilità dell’Io fichtiano e in misura minore la nostalgia romantica nei confronti dell’assoluto; in questo contesto per Hegel il soggetto (sia esso un essere umano, un organismo vivente o un sistema politico) è ciò che fa perno su di sé nel rapporto con l’altro, è la capacità di confrontarsi con il mondo esterno senza venire sopraffatti e senza perdere la propria identità; è questo che Hegel definisce «essere presso di sé nell’altro».
Seconda precisazione: Hegel non è un filosofo dell’originario. Per filosofia dell’originario intendo quelle concezioni che presuppongono una perfezione originaria perduta e da recuperare: alla fine del viaggio l’eroe si limita insomma a recuperare qualcosa che aveva perduto. Il ritorno di Hegel, invece, non è un vero ritorno, perché è il raggiungimento di una situazione più ricca. In una delle sue lezioni Hegel paragona l’idea assoluta (il punto d’arrivo della Scienza della logica) «al vecchio che pronuncia le stesse frasi religiose del fanciullo, ma per lui queste frasi hanno il significato di tutta quanta la sua vita». L’attenzione di Hegel non è rivolta al punto di partenza, ma al punto di arrivo, in quanto questo comprende in sé tutto il percorso compiuto: «l’interesse – afferma – sta nell’intero movimento».

LC – Insomma, il viaggio del soggetto hegeliano sembra un viaggio che non finisce, che, guarda caso, assomiglia agli itinerari più eterodossi della narratologia, quelli in cui l’eroe non torna a casa a restaurare l’ordine sconvolto dall’incidente scatenante, ma riparte per nuove avventure come l’Ulisse dantesco e il Che. Adesso però non dobbiamo dimenticarci della terza precisazione che avevi annunciato.

VG – Certo, si tratta di una caratteristica della soggettività hegeliana che non è in linea con molte tendenze contemporanee: il soggetto per Hegel non è un’entità ricombinabile a piacimento; l’autocoscienza nel suo confronto vincente con il mondo esterno non può plasmarsi fisicamente, psicologicamente, culturalmente a piacere. L’idea di un’identità indefinitamente plasmabile è estranea all’orizzonte hegeliano. Il soggetto hegeliano non è qualcosa di immobile, si evolve e cresce nel confronto e nello scontro con la realtà. Ma non è liquido.

LC – Tu, anche per motivi professionali, ti sei occupato molto di economia, anzi direi che sei più conosciuto come economista, malgrado la tua originaria formazione filosofica. In cosa può esser utile Hegel in una disciplina apparentemente così prosaica?

Non esiste un’economia hegeliana, anche se Hegel nella Filosofia del diritto si è occupato di questa disciplina studiando Adam Smith, riflettendo sul pauperismo e sulla società civile. Per rispondere alla tua domanda, tuttavia, bisogna tornare al nucleo della sua filosofia, al suo modo di pensare: Hegel offre un metodo che consente di reagire produttivamente alla sfida della complessità, quando le variabili in gioco sono molte, gli interessi in ballo molteplici, la linea causale non unica né univoca. Questo pensatore si trovava poco a suo agio con la meccanica newtoniana del suo tempo proprio perché il suo metodo alludeva ante litteram alla cibernetica, alla considerazione di dinamiche di azione e reazione, di correlazione tra quantitativo e qualitativo. Tutti strumenti concettuali ancora validi. Faccio un esempio: nelle crisi che abbiamo vissuto, prima del 2008 e poi del 2011, il sistema produttivo italiano ha avuto un cambiamento quantitativamente importante riducendosi di un quarto. Ciò ha provocato un mutamento qualitativo che impedisce ormai di riferirsi a questa formazione economico-sociale negli stessi termini di prima. La morfologia economica dell’Italia è ormai sostanzialmente differente rispetto a 15 anni fa. Un altro esempio: tutta l’insistenza sull’austerità e sul debito pubblico elevato che necessiterebbe di restrizioni di bilancio per contenere il deficit è profondamente anti-dialettica. Non considera infatti che la restrizione di bilancio può ridurre il denominatore, cioè la crescita, più del numeratore. Poi ci si sorprende (almeno chi è in buona fede) che alla fine della “cura” il debito sia aumentato! Non si capisce che ci sono delle interdipendenze che trascurate possono avere effetti opposti a quelli perseguiti.

LC – Nella storia del marxismo abbiamo avuto pensatori che hanno riconosciuto il debito di Marx nei confronti di Hegel e altri che lo hanno negato. Come si spiega questa divergenza di giudizio?

VG – Questi posizionamenti vanno collocati nella cultura del tempo. Le letture antihegeliane di Marx in Italia nascono come una critica alle correnti marxiste influenzate dallo storicismo crociano; in Francia nascevano da una forte egemonia dello strutturalismo, evidente in Althusser per esempio. C’erano inoltre elementi di critica politica nei confronti dei rispettivi partiti comunisti, sia in Italia che in Francia, ritenuti colpevoli di aver assorbito nelle loro culture politiche impostazioni storicistiche e umanistiche considerate sbagliate. In verità, al netto di queste considerazioni, non vanno dimenticate due cose: in primo luogo Marx – dopo la critica giovanile agli esiti politici dell’hegelismo di destra – nei Grundrisse e nel Capitale utilizza una quantità impressionante di strutture concettuali hegeliane; in secondo luogo, ritiene che gli strumenti teorici offerti da Hegel, in particolare in riferimento al concetto di soggettività, siano utili a illustrare l’automovimento del capitale, la sua struttura e la sua articolazione. Per Marx Hegel è stato decisivo per leggere la realtà economica in opposizione all’economia borghese del suo tempo. Ecco perché Lenin nei Quaderni filosofici diceva che se non si capisce Hegel non si capisce nemmeno Marx. E qui voglio infine ricordare Brecht che nel Me-ti definiva la dialettica come il «Grande Metodo»: un metodo che «permette di riconoscere nelle cose dei processi» e che «insegna a porre delle domande che rendono possibile l’azione». Trovo questa definizione di grande importanza, perché fa emergere come alla dialettica sia inerente un elemento intrinsecamente trasformativo.