di Franco Pezzini

Emanuela Cocco, Trofeo, pp. 88, € 9,90, Zona 42, Modena 2023.

Come già osservato in una precedente analisi d’un suo lavoro, Emanuela Cocco spicca tra le odierne narratrici italiane come una delle voci più esigenti sul controllo della scrittura, anche in grazia di una competente consuetudine al linguaggio drammaturgico: ciò che le permette di affrontare la sfida e la vertigine di un testo come questo racconto lungo. Basterebbe qualche lieve distonia – e mai vi incorre – a mutare in grottesco da un lato, in morboso dall’altro, una narrazione dolente che nulla concede alla fregole di un pubblico in cerca di exploitation. Certo, ci sono effetti forti che possono turbare qualche lettore sensibile, ma filtrati da una percezione non umana (quella di oggetti senzienti) che sfuma l’orrore.

Il fatto che a parlare nel testo siano gli oggetti nel cassetto di un serial killer – i suoi (appunto) trofei, feticci da manipolare a fini parafiliaci e anzitutto conservare –, e in particolare una gonna, acquistata da una vittima in vista dell’incontro che si rivelerà fatale, finisce col richiamare a un’intera produzione narrativa su oggetti disvelatori di aspetti riservati dell’essere umano (a partire dal Sofà di Crébillon e in fondo dagli stessi Gioielli indiscreti di Diderot) o di dimensioni di soggettività che vanno oltre il normale concetto di vita biologica e guardano all’inanimato (le recenti riflessioni sulle Cose di Felice Cimatti, per esempio). Molto interessante in tal senso è la parte finale dei ringraziamenti su fonti e “interferenze”:

 

I film: Peeping Tom (L’occhio che uccide) di Michael Powell e Les Yeux sans visage (Occhi senza volto) di Georges Franju. I saggi: In posa. Abu Ghraib 10 anni dopo, di Pierandrea Amato (Cronopio, 2014) Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, di Massimo Fusillo (Il Mulino, 2012), Cose. Per una filosofia del reale, di Felice Cimatti (Bollati Boringhieri, 2018) e Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale, di Simone Sauza (nottetempo, 2022). La musica degli Einstürzende Neubauten. Le opere dell’artista visuale Tony Oursler. Noi siàn le triste penne isbigotite, un sonetto di Guido Cavalcanti. L’opera di Samuel Beckett.

 

Insomma, l’aspetto orrifico – che pure dev’esserci, per innescare la riflessione – finisce col passare decisamente in secondo piano rispetto a implicazioni di tipo diverso.

D’altra parte il tema – scottante anche e proprio in questi tempi di dibattiti su relazioni tossiche e femminicidi – riguarda non solo la voce di oggetti in radice inanimati, ma la degradazione a oggetti da possedere di persone e loro parti (o pertinenze come abiti o beni di uso personale, stornati e predati). Il tutto con il passo crudo della perplessità, mai di troppo prevedibili indignazioni: ciò che fa impennare la forza (e l’originalità) del testo.

Lo stesso serial killer, coi suoi cassetti ingombri di trofei, è un uomo vuoto e rabbioso, alla deriva di patologia e solitudini che svelano anche implicazioni sociali: non è mai un vero soggetto, ma un insieme di vuoti e gestualità, che il feticcio non basta a vitalizzargli. Non certo a suscitare sentimenti di pena pelosa per lui – semmai, mutatis mutandis, vi troviamo la vuotezza rabbiosa, antipatica e sterile di certi ometti che in questi giorni esternano sdegnati contro i discorsi sul patriarcato – ma a far riflettere su una mentalità che trasforma in roba le vittime già prima di un contatto fisico: gli altri sarebbero cose. E in quest’ottica finisce con l’esserlo lo stesso predatore, ridotto ai suoi riti compulsivi e a un ultimo gesto reificante. Trattati da oggetti, i corpi divengono infine tali, nel senso più macabro possibile.

La sorpresa è piuttosto che gli oggetti trattengano coi loro proprietari umani una sorta di dialogo e insieme un’impregnazione da contiguità, in forma di memoria, potendo addirittura dialogare tra loro: come la gonna rispetto alla donna che l’ha acquistata, e ad altri simili feticci nel cassetto. Con una malinconia delle cose che sfuma i nessi io/tu e allarga il ventaglio delle empatie, assenti nel predatore. Come a correggere un equilibrio di sistema, in modo che sempre ne resti una certa quantità: se non sono gli uomini a empatizzare, dovranno esserlo gli oggetti. Si torna idealmente all’urgenza di empatia rimarcata dall’autrice nel bellissimo Tu che eri ogni ragazza (Wojtek, 2018).

La parola, riflettono gli oggetti come una sorta di tormentone dai continui nuovi sviluppi, è disincanto, illusione, presagio, amore, marionetta, tempo, spettacolo, irrumatio, è fetale, è finire… e alla fine si perde. Nel buio malinconico degli oggetti e dei morti: il titolo della scuola di scrittura e video dell’autrice, Scrivere di Notte, ha quasi il valore di una ribellione a questo buio e silenzio, di una resistenza.

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