di Franco Pezzini

Emanuela Cocco, Tu che eri ogni ragazza, € 14,00, pp. 160, Wojtek, Pollena Trocchia (NA) 2018

Tre percorsi: lo straziante itinerario di un padre dopo l’uccisione della figlia, che lo porta a sgattare sul telefonino di lei tra le tracce della sua vita, e più avanti a cercare qualcuno da accudire tra i diseredati di Roma Termini; la fuga da casa di una quindicenne afasica, dalla struttura fisica troneggiante e dagli altrettanto giganteschi problemi relazionali; il dialogo – teatrale, non a caso l’autrice ha buona esperienza di drammaturga – tra due voci che narrandosi storie terribili invitano il pubblico a scegliere quella che giudichi più degna di pietà. Una pietà che una lettura superficiale giudicherebbe assente a fronte della terribilità dei percorsi, ma che in realtà ci è convocata da dentro a manifestarsi, se ancora ne siamo capaci: e una scrittura di lucidità e controllo formale pazzeschi, tagliente ironica potente, a tratti quasi intollerabile per ferocia. Può essere inconsueto che un recensore si esprima in termini così poco pacati, ma Emanuela Cocco scrive con forza rara, in modo meravigliosamente controllato, come in una delicata operazione col bisturi. Attenzione, segue qualche spoiler.

Al di là della terribilità che può indurre a una lettura poco a poco per metabolizzare, la trama prende: tanto più considerando che la quest per Jungla – Obelix per i compagni, la ragazza smisurata anche nelle reazioni – è portata avanti tra ironia e sorprese da una coppia felicemente sghemba di figure femminili, la ragazzina Adele e la disincantata educatrice Duca. Adele appartiene alla stessa realtà sociale di quella Jungla per cui nutre pietà più che amicizia, e ha imparato a difendersi da tossici e coatti con un bellicoso buon senso e tanto ringhiare; al contrario, Duca è stata educata all’insegna di valori ideali che constata perdenti nella vita vissuta, e che continua a trascinarsi dentro in un misto di scettica compulsione, difficoltà a tradurli in paradigmi concreti e allibita autoanalisi. Finirà travolta, con la sua équipe di lavoro, dalla perdita dell’appalto, come tante iniziative del terzo settore in tempi di crisi, in quest’Italia frettolosa nel moltiplicare le schiere degli ultimi e ricordare loro di continuo che sono tali. Ma nel suo sguardo che vorrebbe improntato anche emotivamente ai valori di formazione – mentre poi fatica a sentire in consonanza – c’è molta della crisi di un’epoca che stiamo vivendo, di ideali piazzati per educazione su un podio interiore e a cui fatichiamo a tendere le dita, di fatica a gestire il rapporto con l’ambiguità, in noi stessi e nella realtà.

In scena, il guscio di una Roma periferica e brutale, di cui vediamo le macchie di piscio e le luci facili da centro commerciale, le scarpe di moda assurte a feticcio, le case dei coatti e quella di una piccola ex-celebrità alla deriva dove la storia di Jungla conoscerà una svolta. Cocco lavora sulla nostra empatia mostrandone limiti trucchi e tic; lavora sul nero di situazioni reali che chiunque abbia lavorato anche temporaneamente nel sociale si è trovato ad affrontare, tra la tentazione costante a burocratizzare il lavoro – anche per l’intollerabilità delle situazioni e la constatata ineluttabilità di certe sconfitte sociali nel quadro che conosciamo – e i conati a una missione idealissima; ma in realtà guarda a una platea ben più vasta che ci comprende tutti.

Le difficoltà e i dubbi nel confronto con la sofferenza altrui appartengono all’esperienza di chiunque. Lo sappiamo, le due strategie alternative consistono nell’ignorarla – almeno di fatto, sulla base di mille motivazioni possibili – e restare barricati, o invece nello scegliere di confrontarcisi, di lasciarci interpellare da qualcosa che condurrà quasi inevitabilmente a una serie di errori, dubbi e magari accuse altrui o da parte di noi stessi. Può valere la pena correre il rischio, ma in ogni caso è chiaro che l’osmosi è aperta a continue domande e priva di risposte preconfezionate. Altrimenti l’atteggiamento si risolve in quello della povera Jungla, che nella sua avventura picaresca di predazione di scarpe e aggregazione a bande del sottomondo burino cerca di rimuovere gli ultimi ostacoli interiori a un puro, bulimico ingurgitare le cose, vagando in qualche fuori: il suo dentro è talmente desolato, che nulla ve la trattiene.

In scena nel romanzo di Cocco è appunto il rapporto con l’altro e il suo dolore, l’esercizio di una misura di umanità che non si teme di chiamare pietà (potremmo usare sinonimi più politicamente corretti, ma la sostanza sta nell’urgenza semplicemente umana di empatia), con la dialettica appunto tra dentro e fuori: il dentro di uno spazio “nostro” (la famiglia, il lavoro, le cose della “gente perbene”) e il fuori di un’alterità, di un uscire da noi stessi, magari di uno strappo verso chi è anche socialmente altro e tutte le sue ferite. Duca è professionalmente una palombara del fuori, avrebbe le tecniche per calarvisi, ma il suo dentro è in crisi e comunque ne verrà espulsa col licenziamento, finendo idealmente col raggiungere quelli che prima aiutava.

Opposto è il caso dell’uomo noto ai mendicanti di Stazione Termini come Gesù: il fuori ha fatto irruzione nel suo mondo con la morte atroce della figlia, l’ha precipitato all’esterno dell’intelaiatura del conosciuto e lui vorrebbe tornare a ricoverarvi qualcuno – avendo appunto compreso che la figlia era ogni ragazza. Ma non sa come fare, constata i propri limiti, una serie di nasate e in radice le ipocrisie moralistiche di una scelta. Fin dall’inizio condivide però con la moglie “la grande scoperta che ho fatto”, cioè che “noi non verremo risparmiati”: non esiste una vita-tipo in cui le cose seguono binari regolari e vanno mediamente bene, come forse pensavamo da bambini. E non c’è astratto motivo perché non tocchi a noi di precipitare fuori: la verità è che di norma capiamo il dolore solo quando è nostro. Torniamo così alla continua e dolente osmosi tra il dentro e il fuori, immessi come siamo in un flusso dove determiniamo sofferenze e ne causiamo, di continuo, anche solo con la nostra goffaggine; e l’impossibilità di farvi fronte in base a categorie come il merito o una qualche capacità umanitaria (quasi un’unità di misura, brandita dai “buoni”) è qualcosa in cui sbattiamo tutti i giorni.

Tutto ciò in generale: ma il romanzo indirizza il titolo verso una figura che resta sfuggente, perturbante. Cioè quella giovane uccisa che era ogni ragazza, tutte quelle reificate nel quotidiano (il padre aveva avuto un rapporto sessuale con una coetanea di lei, trattandola come cosa – da cui un divorante senso di colpa); e dunque radicalmente sconosciute, per cui l’uomo è costretto a cercare, mettendosi a nudo nella propria confessione, chi fosse davvero quella figlia perduta. Gli oggetti ci sopravvivranno e lui li interpella, ma solo per scoprire che quelli ci ignorano. Si lasciano rubare, restano feticci di un culto pagano all’insegna della voracità cieca – l’unico che permette a Jungla qualche brillare d’occhi – e alla fine contribuiscono a rivelare che “Dentro è diventato fuori”: insomma non ci salviamo distribuendo monetine (o i classici “Signora, mi sembra avvilita, / Signora stia su con la vita”) sulla base delle nostre privatissime ubbie o idiosincrasie.

Ma è possibile capire la sofferenza anche quando non è nostra? Sembra di sì, se almeno teniamo viva una qualche sbrindellata umanità: e sulla base di quella vergogna razionale evocata da Elio Pagliarani (La pietà oggettiva) nella citazione d’incipit:

 

Come offende d’inverno incontrare le notti alla stazione del verziere

gli addormentati sul lastrico, da sentire il bisogno

d’affrettare il passo, spazzolare il cappotto chiedere

perché non mi assaltano?

 

Vergogna che spinge il padre a tentare una svolta e che reca a Duca penosi conati verso qualcosa che resta frustrato. Ma il fatto che l’uccisa fosse ogni ragazza (e dunque anche Jungla, Adele, idealmente la stessa Duca) finisce con lo svelare un discorso più ampio sulla violenza e sulla colpa: qualcosa che attraverso gli infiniti punti di fuga del romanzo – la sua contemplazione del molteplice delle cose al ventaglio dei binari di quella Roma-Babilonia dove tutto si consuma, compreso il sesso con una minorenne evocato ellitticamente all’inizio e poi, con diversi soggetti, alla fine – permette di smarcare il discorso da ogni pistolotto moraleggiante e farlo carne, rissa, furti, incontri e scontri di sguardi, scambi tra burini e confessioni desolate, in una strepitosa lezione di scrittura giocata su registri diversi. In una saga dove l’accento è posto su ciò che non riusciamo a fare, a dire, sugli amori zoppicanti, le pietà imbarazzate, le azioni compiute per senso di colpa e le goffaggini di cui è plasmato il nostro rapporto con gli altri, questa scrittura che inanella atrocità e ironia con equilibrio raro finisce col richiamarci all’urgenza di un’empatia anzitutto umana. E ci aiuta, se davvero lo vogliamo, a individuare qualche possibile passo in quella direzione.

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