di Giovanni Iozzoli

Che cos’è un’eredità? E chi ha il titolo di rivendicarla? Me lo chiedo mentre i telegiornali diffondono a reti unificate una manifestazione romana “contro l’antisemitismo” e a sostegno di Israele, indetta dalle Comunità ebraiche italiane. La causale della convocazione dice già tutto: chi non sostiene Israele è un antisemita. L’evento è poco partecipato, rimpinguato solo dalla presenza di giornalisti e parlamentari, ovviamente accorsi in massa a favore delle telecamere. I rappresentanti delle comunità troneggiano in p.zza del Popolo, tra bandiere di Davide e vessilli di partito bipartisan. La domanda ingenua che mi sorge è: in nome di chi o di cosa, i dirigenti di quelle comunità sentono di poter assumere un ruolo così prominente, nell’agenda pubblica? Da dove viene l’autorità – benedicente o recriminante – che consente loro di esercitare una funzione così centrale, con tutti i partiti accorsi a porgere il saluto?

Sento in un’intervista la dott.ssa Di Segni – persona di solito assai misurata nei toni – affermare con calore che le cose non stanno come sembrano: non sono i palestinesi ad essere oggetto di genocidio; sono “gli ebrei”, piuttosto, nel mirino di un nuovo piano di sterminio condotto da Hamas, anche con evidenti implicazioni religiose. La signora sta enunciando una enormità storica – una specie di sfida al senso comune, a quello che miliardi di cittadini del mondo stanno vedendo in diretta sui loro telefonini. Come può essere che migliaia di bambini di Gaza, dilaniati a morte, possano essere ricondotti al campo malvagio di nuovo progetto di sterminio antiebraico? Come può la popolazione di Gaza, straziata e affamata, prefigurare la distruzione dell’ebraismo mondiale? E’ una pazzia, un esercizio di vittimismo sovra-umano e metastorico. La signora Di Segni però è serissima e forse anche convinta di ciò che sta dicendo. In nome di cosa può proclamare così impudentemente questa inversione della verità fattuale? Forse è perché si sente un’ereditiera.

Si, pensiamo ad una persona diventata ricchissima grazie ad una favolosa eredità. E pensiamo a come questa persona possa perdere il senso delle proporzioni, l’equilibrio, il senso della realtà: sono ricca, ho ereditato, posso persino sovvertire l’evidenza empirica delle cose, degli eventi. La ricchezza mi rende credibile, desiderabile e persuadente, al di là del senso delle mie opinioni o delle mie azioni. Ma di che tipo di eredità stiamo parlando? Materiale, economica, di prestigio sociale? No. L’eredità che consente alla signora Di Segni di costruire e rivendicare una contro-verità, è tutta di tipo morale: i dirigenti delle Comunità sanno di essere gli eredi “istituzionali” della memoria dell’Olocausto e di poterne rappresentare eternamente l’enorme carico di ragioni, maturate in secoli di sofferenza. E’ questa l’eredità che le Comunità sentono di incarnare. E’ questo che consente agli esponenti di queste comunità di porsi nel dibattito pubblico in modo così ardito e perentorio – fino a bacchettare Papa Francesco per “eccesso di equidistanza”…

E qui torniamo alla domanda iniziale? Come si può definire l’adeguatezza di un’eredità storica? In campo giuridico ci sono delle condizioni precise, che definiscono la condizione di erede. In mancanza di testamento, prevalgono i legami i sangue. Ma sul piano morale? Chi è erede di cosa? Raccolto il lascito, lo si può usare in qualsiasi modo, senza remore? L’eredità è sempre disponibile all’uso, anche a quello più spregiudicato? E’, ad esempio, possibile supporre che il patrimonio di dolore, trasmesso delle vicende terribili dell’ebraismo europeo, possa costituire la base morale di altro dolore e sofferenza inferta agli innocenti? Se i morti di Auschwitz potessero parlare, concorderebbero nel passare il testimone della loro storia a Bibi Netanyahu? Vedrebbero nei tunnel di Gaza la minaccia di un nuovo piano di sterminio antiebraico, come quello che si abbatté sulla loro generazione? Plaudirebbero ai bambini morti, ai corpi straziati, alle moschee e agli ospedali bombardati – loro, proprio, loro che passarono attraverso l’inferno in terra dei pogrom e della Shoah?

I morti non parlano. Nessuno potrà contestare, a nome loro, il costante, indefettibile allineamento delle comunità – in Italia e nel mondo – al fianco di uno Stato che si dichiara alfiere dell’ebraismo. Nessuna voce si alzerà dai campi di sterminio per gridare: non in nostro nome – se uccidete e torturate, non lo farete usando la nostra eredità di sangue, il nostro martirio, le nostre memorie circondate dal filo spinato. Ma anche se i morti sono costretti al silenzio, l’intelletto, la ragione, lo spirito della storia, continuano a parlare ai vivi: come le migliaia di ebrei americani che stanno manifestando contro le politiche criminali dello Stato d’Israele, che oggettivamente sembrano eredi dell’Olocausto moralmente più degni. Loro raccolgono il testimone, loro vanno in carcere a testa alta perché non vogliono essere accusati di complicità. Loro vogliono continuare a guardare i figli negli occhi: perché è chiaro che i bambini ci stanno guardando, non solo quelli impietriti e piangenti di Gaza, ma tutti i bambini del mondo ci stanno guardando; e quei bambini rappresentano la prossima generazione e chiederanno conto di questo dramma.

Non c’è musulmano al mondo a cui non sia stato chiesto almeno una volta nella vita di prendere le distanze dalle efferatezze dell’Isis. E tantissimi lo hanno fatto in piena coscienza, anche senza che qualcuno glielo chiedesse. Non c’è moschea o organizzazione islamica italiana che non abbia dovuto pronunciarsi con chiarezza in questa direzione. Perché le Comunità ebraiche sono invece impermeabili a qualsiasi ragionamento laico e critico, sul ruolo di Israele e sui suoi governi che ne hanno guidato la rotta sanguinosa e fallimentare, in questi anni? Ricordano un po’ certi gruppuscoli filosovietici che – sempre, in qualsiasi circostanza – appoggiavano il “paese guida” del proletariato, anche quando erano evidenti i suoi errori catastrofici. Una fedeltà cieca che non portò bene né all’Urss né ai suoi satelliti – altro esempio di eredità dilapidata.

I passaggi generazionali rappresentano spesso più una negazione dialettica, che una illusione di continuità. Il testimone da raccogliere è spinoso, insostenibile. Probabilmente lo Stato di Israele – grande rivendicatore e custode delle memorie giudaiche – conferma questa regola. I precursori di Israele fondavano moralmente le loro ragioni sulle inenarrabili sofferenze della generazione della Shoah, traendone legittimazione politica – il valore dell’eredità. Ma probabilmente nel loro spirito, gli elementi di rottura prevalevano di gran lunga su quelli di filiazione. I vecchi martiri erano visti come pedine imbelli della tragedia storica dell’ebraismo; il vittimismo dei vecchi andava bene per esigere risarcimenti ma la nuova Gerusalemme aveva bisogno della forza, della potenza, dell’aggressività. Da allora in poi, la Legge e la Profezia avrebbero acquistato senso solo se veicolate dai carri armati.

Non sappiamo quali conflitti tremendi – ce lo rivela parzialmente la letteratura israeliana – dovettero attraversare le prime generazioni, per assorbire questo nuovo imprinting e trasmetterlo alle generazioni successive. Oggi, sui nostri implacabili canali Telegram, vediamo giovanissimi soldati israeliani che ammazzano comuni cittadini palestinesi, minorenni e invalidi inclusi, senza pietà, per strada, lungo i chekpoint della West Bank, sotto gli occhi di tutti. E persino bambini che cantano su Tik Tok inni allo sterminio arabo; ragazze che irridono le giovani mamme di Gaza, coi loro fagottini insanguinati. Quanto sforzo, quanta determinazione, quanto sangue, quanta risalita controcorrente, deve essere costato allevare questi giovani mastini da guerra – e uscire da sé, dalla secolare cultura critica e tollerante, per trasformarsi in persecutori feroci? Ecco, la trasmissione della memoria: quei ragazzi non hanno assorbito nulla dell’eredità dei loro avi; il passaggio si è realizzato solo tra generazioni che hanno combattuto furiosamente, nella cecità e nella brutalità, segnati da odio e paranoia. E questo vale anche per le comunità ebraiche europee, che recitano un ingrato ruolo di apologia di ogni crimine di uno Stato estero al quale non devono nulla, ma a cui si sentono ineluttabilmente legate.

Gli israeliani di oggi non sono tanto portatori di una memoria, quanto di un presente ossessivo, in cui il passato ha poco da dire e il futuro è cupo e indecifrabile. La loro condizione è una coazione a ripetere tremenda: sentono di incarnare i destini di una stirpe elitaria che ha il diritto storico di guadagnare il suo spazio vitale – orrendo riflesso delle ideologie di espansione nazista verso est.  Tutto ciò che ostacola questa spinta all’autoaffermazione, va sepolto. Molte immagini che arrivano dalle città israeliane, testimoniano che se c’è qualcosa che fa infuriare la soldataglia israeliana,  sono i religiosi che non si riconoscono nel sionismo e manifestano a favore dei palestinesi. Quei pii ebrei vengono picchiati e dileggiati con particolare accanimento, dai ragazzi in divisa. Forse perché a vederli così, vestiti da rabbini eppure ostili allo sforzo bellico, creano un qualche cortocircuito mentale in quei giovani soldati; contraddicono la visione unilaterale delle cose, la dialettica amico/nemico, la solida complicità della Bibbia. Sono l’immagine dell’ebreo che fu, che loro odiano e rinnegano in nome dell’Uzi.

Israele sta morendo. Sepolta dalle sue bombe, dalla scia infinita di cadaveri e di bugie che sta lasciando dietro di sé. Israele sta morendo per un eccesso di forza, di protervia, di orgoglio. Non ha più grandi nemici, intorno a sé: Gheddafi e Saddam sono stati ammazzati, Assad è debolissimo, l’Iran è permanentemente nel mirino americano; i grandi paesi arabi sono tutti paralizzati dai ricatti in cui la realpolitik globale li ha ficcati. Eppure, proprio in questo momento storico di trionfale strapotere, subisce il più grave attacco interno della sua storia ed è costretto ad operare una atroce punizione collettiva contro gli innocenti – per allontanare da sé l’immagine di vulnerabilità e la mancanza di visione che esprime. I tempi e i modi del crollo israeliano sono imprevedibili. Ma una cosa è certa: la morte di Israele coincide con la consunzione della sua eredità, del suo inestimabile patrimonio, ormai dilapidato per manifesta indegnità.

Patrimonio. Una storia vera è un piccolo capolavoro di Philip Roth. Racconta una vicenda dimessa e privata – quella di un vecchio padre ebreo del New Jersey che sta morendo e di un figlio adulto che riflette sulla sua eredità morale. Cosa lascia una persona semplice, priva di mezzi, quando se ne va? Cosa lasciò un vecchio padre ebreo senza ricchezze, a un figlio scrittore un po’ scapestrato? Cosa lasciò quella generazione di ebrei che è stata la prima a crescere in sicurezza, fuori dall’infida Europa dell’eterno pogrom? Apparentemente niente che abbia a che fare con i cataclismi mediorientali. E invece, in quel privatissimo racconto autobiografico, molti elementi rimandano ai grandi drammi della storia contemporanea. Lo scrittore ha un rapporto controverso con Israele – come con tutta la sua complicata “ebraicità”; il suo primo protagonista di successo, il giovane Portnoy, quando si deciderà ad andare verso Israele per il suo primo viaggio nella terra promessa, davanti ad un avventura sessuale con una soldatessa in divisa, armata, grande e forte, subisce un crollo psicofisico e si scopre impotente. L’effetto che aveva su di lui la terra santa, non era il misticismo o l’ardore guerriero: solo “non farglielo venire duro”. Metafore su metafore di un intrigo esistenziale e antropologico. Forse Portnoy si portava ancora dentro troppa Europa, qualche retaggio di prudenza e sottomissione era trapassato nei suoi geni americani; mentre la soldatessa era la scoperta della forza: si, gli ebrei potevano imbracciare un fucile, sparare, macchiarsi di crimini come tutti gli altri esseri umani; potevano essere capaci di cose spaventose; e questa consapevolezza, questa verità, che produceva impotenza in Portnoy, era quanto di meno razzista e antisemita si potesse rivelare. La scoperta di non essere un popolo eletto, ma solo un popolo tra i tanti, nei flutti della storia, con le mani macchiate del sangue di Abele, come noi tutti. E questa rivelazione, ci consente di rifiutare con la stessa forza tanto l’ideologia sionista quanto il barbarico antisemitismo.

Il patrimonio di Auschwitz e delle sue schiere di martiri, non è passato nella mani delle attuali leadership israeliane; probabilmente neanche in quelle delle persone comuni di quel paese, avvelenate dalle retoriche di Stato. Il patrimonio morale della Shoa è tutto nelle mani di Fatima o di Mohamed – qualcuno a caso tra i tanti piccoli visi ritratti negli ospedali di Gaza, pieni di ustioni e bende precarie. Sono loro che stanno decretando la fine del ciclo israeliano. Sulla loro sofferenza, sul loro dolore senza morfina, sui loro arti amputati, sul loro destino di orfani senza patria, nascerà il nuovo medioriente. Se il giovane Stato di Israele si fondò sul sangue della Shoah, la sua fine sarà affogare nel sangue dei figli di Palestina. In terra di Abramo, Nemesi è diventata la regina furiosa della storia.

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