di Luca Baiada

 

L’idea di un’elezione presidenziale diretta è vecchia come il ghigno di Giorgio Almirante e gli appetiti della destra italiana. Nella versione Msi, Movimento sociale italiano, il presidente eletto era quello al Quirinale; stavolta si pensa a Palazzo Chigi.

Per inciso. Il presidente del consiglio, che presiede un organo collegiale, non è il «capo del governo». Quella era un’espressione corrente sotto il fascismo, ufficializzata dalla legge 2263 del 1925, «Attribuzioni e prerogative del capo del governo, primo ministro segretario di Stato»; fu una delle «leggi fascistissime» ed ebbe tre firme: il re, Mussolini e uno scriba leguleio. Invece la collegialità è da riattivare, perché è sbiadita da un pezzo, almeno dai tempi di un giocattolo di Bettino Craxi, il «consiglio di gabinetto», frutto bacato degli anni Ottanta, che già accentrava il potere a spese del Parlamento.

C’è da dubitare che la manovra presidenzialista, se riuscisse a imporsi sul governo, lascerebbe intatta la presidenza della Repubblica. A quel punto, comunque, il sistema sarebbe sbilanciato e finirebbe per non reggere: il Quirinale non potrebbe più scegliere il presidente del consiglio, e anche nella scelta dei ministri cambierebbero i rapporti di forza. Il titolare di Palazzo Chigi diventerebbe simile a un capo del governo e avrebbe dalla sua una designazione popolare, diversamente dal capo dello Stato, scelto con un sistema indiretto. Le due figure entrerebbero in conflitto: prevarrebbe quella elettiva o finirebbero per essere riunite. Un passo alla volta, l’esito è sempre quello.

Così si possono realizzare le ambizioni coltivate da almeno mezzo secolo. In fondo, simili a quelle cominciate prima, perché l’attacco alla Costituzione non aspettò neanche che si finisse di scriverla: risuonò nei colpi di mitraglia a Portella della Ginestra nel 1947. Seguirono gli anni Cinquanta, con l’Italia prigioniera di una cappa di piombo immobilista; l’Italia presa di mira, quando per paura di un cambiamento si tentò il colpo di mano, con la legge truffa del 1953. Un arnese quasi ingenuo, al confronto con altri più recenti, come la legge elettorale del 2005 con cui Berlusconi destabilizzò la legislatura seguente per tornare presto al potere.

Nel 1953, per pochi voti, la legge truffa non ebbe effetto e De Gasperi tramontò. Ci vollero ancora anni per vedere aperture a sinistra: moderate, ma già troppe per la suscettibilità dei reazionari e dei fascisti. Cominciò la stagione delle trame e delle bombe nere, una fase in cui il Msi – il partito che Fratelli d’Italia ha per riferimento persino nel simbolo – ebbe i suoi tentacoli. L’atto terroristico che segna una svolta, in quella stagione, è a Milano, a piazza Fontana nel 1969; oggi è l’anniversario. All’epoca la loggia P2, col suo gran maestro Licio Gelli e coi suoi grandi bidelli, presidi e provveditori agli studi, senza volto o visibili sfocati, fu un’altra piovra coinvolta nelle strategie antidemocratiche.

A rileggere il progetto della P2 emerso all’inizio degli anni Ottanta, il «Piano di rinascita democratica» (c’erano già trucchi verbali e fascisti in maschera), si vedono lenti successi. Nel 1993 viene scardinato il sistema elettorale proporzionale, grazie a un brutto referendum. Nel 2020 di quel Piano, grazie alla propaganda populista e a un referendum bruttissimo, è realizzato un altro obiettivo, la riduzione del numero dei parlamentari, e in misura più grave del taglio voluto dalla P2. Un’altra modifica ad alto livello, quella dell’elezione diretta, che va persino oltre il Piano, si affaccia adesso: appunto, sulla presidenza del consiglio. Altro che viva la mamma, la patria e le riforme.

Bisogna ammettere che i confezionatori del Piano ci sapevano fare; a disegnare il futuro non erano certo i boia delle bombe, come quelle di piazza Fontana e sui treni e nelle stazioni. Non erano neanche i loro immediati mandanti e complici nella burocrazia securitaria e nel mondo militare. C’erano notabili manovratori, e alla lontana c’erano teste d’uovo danarose, con suggeritori cresciuti negli studi di psicologia sociale, di ingegneria politica e di manipolazione del consenso.

La trappola contro la democrazia era ben congegnata. Da un lato si riduce la rappresentanza: il voto non è più uguale per tutti; tutti quelli che votano hanno un voto che pesa di meno; diventano di meno quelli che vanno a votare. Dall’altro si crea l’illusione di un rapporto diretto con una persona sola. Quella sì, si prende cura di noi; quella sì, interpreta i bisogni del paese, anzi del popolo, anzi via: della nazione, della patria, meglio se scritta tutta in maiuscolo, come un tempo la parola duce.

Adesso si propone di dare una delega a chi promette, a chi strilla, a chi strabuzza gli occhi, a chi aguzza lo sguardo, a chi fa il sorrisone o gli occhiacci, a chi smania contro quelli lì e quelli là, a chi gonfia il gozzo e la prosopopea. A chi fabbrica meglio il suo passato, se occorre. Magari a chi assolda le migliori agenzie di comunicazione, perché anche se costano e bisogna far debiti, poi si pagano col denaro del padronato e dei settori sociali forti e organizzati. Un capo con l’applausometro è una garanzia, per chi è in alto.

Il lavoro è trattato sempre peggio: il rafforzamento dell’esecutivo favorirebbe i privilegi di classe tagliando le gambe alla mediazione; e direbbero che è meglio così, perché diversamente si fa il consociativismo. Lo sciopero e la democrazia sui luoghi di lavoro, già ora malmessi, potrebbero diventare cari ricordi. Quanto alle pensioni, sarebbero tutelate a seconda dei settori interessati, ma non in proporzione alla grandezza numerica né al peso del lavoro: i gruppi produttivi sono parcellizzati dalle nuove tecnologie, il resto è carne da sudore, indistinta; solo i gruppi uniti o in posizioni particolari fanno pacchetto elettorale, gli altri sono spinti nell’individualismo e nell’apatia. Un modello dal vago sapore medievale, percorso da consorterie e rivendicazioni confuse: una camera delle corporazioni frammentata nei social, col tumulto dei ciompi in videogioco. Coincidenza, nella presentazione del disegno di legge si parla di «democrazia di investitura»; proprio investitura, come per le cariche feudali o ecclesiastiche nell’età di mezzo, prima della modernità.

La sanità, sempre più importante con l’invecchiamento della popolazione, sarebbe in cima alle preoccupazioni governative: sì, ma la sanità frammentata, quella per i ricchi, o per i settori protetti, o per aree geografiche che garantiscono bacini elettorali.

L’ambiente, a un presidente eletto, sarebbe caro come i bilanci delle società estrattive e delle imprese di smaltimento rifiuti, perché chi controlla denaro e pacchetti elettorali, appunto, è ancora più decisivo, in una singolar tenzone, dove per una manciata di voti vinci tutto o perdi tutto.

Per la giustizia il capo scelto dal popolo sarebbe veleno. La mozione approvata dal congresso di Magistratura democratica del 2023 sottolinea sia il rischio di «riforme costituzionali che nel loro insieme consentirebbero a una maggioranza politica di erodere la separazione dei poteri», sia la «valenza contro-maggioritaria dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali». In una società incarognita, percorsa dalla polverizzazione dei lavori, da suscettibilità nervose e dalla conta delle identità, la maggioranza muscolare col tribuno è pericolosa: non è la maggioranza in democrazia, è folla sotto un balcone. Folla irritabile, pronta alla rissa spaccatutto, al piagnisteo purgativo, all’ovazione salvifica finale.

Sull’informazione, già ora l’industria televisiva e il servizio pubblico occupato dal governo fanno il tutto mio; col presidenzialismo ci sarebbe una sana, igienica, nazional-ginnica cinghia di trasmissione fra governo e popolo; sarebbe garantito un intrattenimento vivace, soccorrevole: una persuasione camuffata da ascolto, un altoparlante travestito da orecchio.

I numeri nelle Camere li hanno, grazie all’attuale andazzo elettorale del malanno e della malapasqua, ma non grossi come li vorrebbero. Quindi è possibile che si vada al referendum. Varrà per questo, come per le altre chiamate alle urne: non andare a votare non è il rimedio. C’è ancora chi crede di sì, perché ha capito il gioco, perché la sa lunga, perché sono tutti uguali, perché tanto peggio tanto meglio, perché col discredito che la casta si tira dietro, presto viene giù. In altri paesi, chi ha seguito queste suggestioni le ha consegnate intatte agli eredi, che adesso non sanno cosa farsene.

Se la proposta di presidenzialismo sarà coltivata sino in fondo, man mano che la discussione si scalderà sentiremo uno scilinguagno di argomenti, vedremo un fuoco d’artificio di parole, faremo scorpacciate di propaganda. Per chi ricorda il referendum del 1993 sarà un ritorno al passato, a quel clima di illusione di massa, tutto all’insegna della lotta alla partitocrazia e della fine della corruzione (che da allora corre più di prima), col sistema proporzionale messo al bando e quello maggioritario esaltato come chiave della modernità, in un pettegolaio ipnotico dall’esito disgraziato, su cui Silvio Berlusconi, un anno dopo, andò a sedersi in trono.

Attenzione ai paragoni con altri modelli costituzionali, e non accontentarsi di sapere che un’elezione diretta del vertice dell’esecutivo, come quella che si propone, non c’è da nessuna parte. Il diritto comparato, nelle mani sbagliate, è un Arlecchino servitore di molti padroni. I modelli sono tanti, e anche solo limitandosi all’Europa c’è l’imbarazzo della scelta. Gli argomenti che tirano in ballo un paese o un altro sono come il caleidoscopio, che a girarlo ci vedi quello che ti vogliono far vedere.

Il sistema costituzionale italiano è frutto del lavoro di un’assemblea, finalmente uscita da elezioni vere, dopo vent’anni di dittatura con cinque guerre dentro. Anche dopo tanto tempo e alcune modifiche scriteriate, il testo ha pochi eguali per chiarezza, bilanciamenti, altezza di principi, bassissima dose di retorica e nessuna traccia di fanatismo o metafisica. Se la Carta fa perno sulla mediazione politica, anche quella faticosa, estenuante, e se sta alla larga dai decisionismi, dai carismi e dalle ovazioni, è perché allora certi ricordi erano freschi. Bastavano le macerie delle città, i lutti delle vedove e i cenci degli orfani, a spiegare come va a finire quando si grida che un capo ha sempre ragione.

Ma ecco due gonfiabili colorati. La governabilità: un jolly nella manica. La stabilità: una porta girevole. Ci sono stati decenni con governi brevi e uguali: stabilità marmorea. Con la riforma proposta, invece: effetto assurdo. Inamovibilità ufficializzata; e anche se – è il caso del governo Meloni – le promesse del programma svaniscono. Insieme, spinta al rovesciamento, perché la norma antiribaltone – l’hanno notato i costituzionalisti più attenti – suggerisce al secondo partito della coalizione vincente di colpire alla schiena il primo.

E poi, governabilità e stabilità non sono nella Costituzione. La parola governabilità, ancora decenni dopo la Carta, non era nei migliori vocabolari; poi c’è entrata, ma perché i linguisti prendono atto dell’uso. Parlamentabilità o regionabilità non sarebbero parole assurde? Adesso si vuole la governabilità nel testo. Non per estetica ma per sostanza, al letterato Pietro Pancrazi nel 1947 fu affidata la revisione linguistica della Costituzione (bei tempi). Il concetto di stabilità non va d’accordo con l’articolo 3: la Repubblica deve «rimuovere gli ostacoli» allo sviluppo della persona umana e alla partecipazione dei lavoratori alla vita della comunità. Piero Calamandrei diceva che di solito le costituzioni sono in polemica col passato, mentre la nostra lo è anche col presente. È una coraggiosa instabilità verso il meglio, che non esclude più governi nella stessa legislatura.

Occhi aperti. La voglia di padrone ha giuristi e politologi dalla sua, anche quelli che fanno i perplessi, gli equanimi, i tecnici. E sono tutt’altro che sprovveduti: per esempio, lo scriba del 1925, quello che firmò col re e Mussolini la legge fascistissima, si chiamava Alfredo Rocco, professore e codificatore e molto altro. Gli scribi di oggi sono intervistati e rispettati. La furbizia paga, e di storie furbe è pieno il passato, anche recente. Hanno voluto Camere rimpicciolite, invitando a ridurre il numero dei parlamentari prima e promettendo la legge elettorale per dopo; poi hanno riso di gusto sulla promessa, e adesso un Parlamento nato da elezioni con rappresentanza inadeguata, votato da una percentuale del corpo elettorale mai stata così bassa, mette mano alla Costituzione.

I progetti dei famigli del potere vantano un’antica araldica, perché libertà, partecipazione e condivisione danno fastidio da almeno due secoli. Si vuole spostare il baricentro verso gli abbienti e i clan immutabili, per fare degli altri una plebe vociante, ignorante, spaurita. Ben diverso, l’inno all’albero della libertà: «Già reso uguale e libero, ma suddito alla legge, è il popolo che regge, sovrano ei sol sarà»; e si cantava negli ultimi anni del Settecento.

Altro che la madre di tutte le riforme. Questa non è una riforma, è una restaurazione ed è decrepita come Plozia, quella dell’iscrizione funeraria che Marziale, venti secoli fa, consegnò all’epigramma Pyrrhae filia, Nestoris noverca… Sa di polvere e di sepolcreto. Eccola, Plozia, nella traduzione pepata di Guido Ceronetti:

Figlia di Pirra, di Nestore matrigna,

da Niobe verginetta

veduta già canuta,

da Laerte decrepito

nonna definita,

da Priamo balia,

suocera da Tieste,

a innumerevoli sopravvissuta

di cornacchie generazioni,

col suo calvo Melanzione

qui finalmente tumulata,

Plozia supplica ancora

cazzo.

Però, diciamolo. La vecchissima Plozia è simpatica, con la sua voglia di vivere che non si spegne neanche in fondo a una tomba. Il presidenzialismo, invece, è orrendo perché sotterra gli interessi popolari, la Repubblica fondata sul lavoro, la democrazia e quel che resta della giustizia sociale.