di Gioacchino Toni

Martina Marras, Distopia femminista. Analisi di un genere, Meltemi, Milano 2023, pp. 180, € 16,00

Dopo aver proposto una definizione di “distopia femminista”, prospettando la possibilità di individuarvi un genere autonomo, Martina Marras procede esaminando diversi esempi di letteratura distopica a carattere femminista concentrandosi sulla sua presa in carico di questioni inerenti l’autodeterminazione femminile, soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo del corpo, affrontando poi il problema del linguaggio inteso tanto come strumento di dominio quanto come mezzo di liberazione.

In generale tra le questioni maggiormente affrontate dalla narrativa distopica, sostiene Marras, figurano quelle relative a contesti dittatoriali e a problematiche ecologiste, ricorrendo frequentemente a scenari post-apocalittici.

Volendo arrivare a una prima generica conclusione, si può affermare che la distopia, compresa quella femminista, offre una descrizione esasperata dei pericoli, reali o potenziali, e delle paure che abitano il nostro mondo, al fine di stimolare lo spirito critico del lettore e, in qualche raro caso, con l’intento di fornire delle rassicurazioni rispetto alle preoccupazioni più comuni. Il male a cui si fa riferimento nei romanzi non è altro che la trasposizione, esagerata ed esasperata, di problemi presenti e spesso assai concreti. È necessario dunque riconoscere la valenza critica che ogni opera distopica porta con sé.

Tra le pieghe delle rappresentazioni dell’orrore e degli incubi umani più angoscianti proposte da numerose narrazioni distopiche non manca qualche barlume di speranza e ciò, sostiene Marras, è maggiormente presente nelle distopie di genere che, rispetto a quelle classiche, manifestano un impulso utopistico forse derivato da un maggiore ottimismo di fondo, quasi che ai timori per un futuro prospettato a tinte fosche si accompagni un desiderio di emancipazione possibile, oltre che necessaria.

Frequente nelle narrazioni distopiche femminili è il tema della riproduzione e ciò, secondo la studiosa, non è funzionale soltanto a denunciare le storture e le iniquità derivate dalla società patriarcale, ma si rivela utile anche a esplorare «il rapporto, spesso conflittuale, delle donne con la maternità» desiderose, nel caso, di conquistare la possibilità di viverla secondo le proprie condizioni e in ciò risiederebbe qualche barlume di speranza nei confronti del futuro.

Oltre che narrazioni volte a svolgere una funzione critica, le distopie femministe andrebbero, secondo Marras, ancora di più viste «come la manifestazione del dialogo intimo femminile, in materia di desideri personali e aspettative sociali, dialogo che si è cercato più volte di portare nella sfera pubblica senza raggiungere, tuttavia, i risultati sperati in termini di attenzione e comprensione».

Nell’ambito del genere distopico che si focalizza sulla condizione femminile Marras inserisce, tra gli altri, romanzi come La notte della svastica (Swastika Night, 1937) di Katharine Burdekin e i più recenti Le figlie di Egalia (Egalias Dotre, 1977) di Gerd Brantenberg, Lingua nativa (Native Tongue, 1984) di Suzette Haden Elgin, Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale, 1985) di Margaret Atwood e Ragazze elettriche (The Power, 2016) di Naomi Alderman.

La fortunata serie televisiva del 2017 ideata da Bruce Miller ispirata al romanzo della Atwood ha contribuito non solo alla riscoperta dell’opera della scrittrice canadese – tanto da indurla a scriverne un sequel intitolato I Testamenti (The Testaments, 2019) –, ma anche a far emergere le potenzialità critiche del genere distopico femminista in un contesto involuto in senso marcatamente reazionario.

In buona parte dei romanzi distopici femministi le donne sono relegate a una condizione di infelice subalternità, percepite come «corpi segnati da un inesorabile destino biologico, costrette a vere e proprie forme di schiavitù riproduttiva alle quali non possono sottrarsi». Visto che spesso nelle distopie si proiettano angosce e timori reali e attuali, occorre domandarsi come in un’opera di grande successo come Il racconto dell’ancella venga messa in scena dalla scrittrice una società in cui le donne sono tenute a svolgere «il proprio ruolo di fattrici».

Nel più ampio panorama della letteratura distopica un tema che si rintraccia con una certa frequenza è quello della fine dell’umanità, dobbiamo dunque pensare che le scelte autonome delle donne in materia di maternità debbano essere ostacolate in quanto espongono al rischio di estinzione? In senso assoluto, come umanità, sembrerebbe proprio di no. Il mondo occidentale, e la sua cultura, rischiano, a causa del basso tasso di natalità, di perdere la preminenza fino a questo momento avuta, il che spinge verso posizioni conservatrici che tracciano percorsi maggiormente definiti con rinnovato paternalismo? È un’ipotesi più probabile, che si accompagna alla preoccupazione di non lasciare, a livello individuale, un segno nel mondo. La progenie, del resto, è sempre stata una “promessa” di eternità. Questa paura, tuttavia, appare diffusa soprattutto fra gli uomini, i quali mal sopportano, ad esempio, l’idea di perdere il proprio nome.

Marras si dice convinta che tale rappresentazione della maternità, oltre a voler portare una critica radicale agli iniqui meccanismi sociali esistenti, intenda anche assolvere «una funzione per certi versi dissacratoria da parte delle donne stesse nei riguardi della procreazione come vincolo (quasi) ineludibile. Il confronto con la dimensione biologica rappresenta un argomento problematico che mette fortemente in discussione le basi della società patriarcale e ciò, forse, spiegherebbe l’assenza di certe tematiche dalle narrazioni che sono rivolte a un pubblico più ampio o che provengono da autori maschili».

Ampliando il discorso ai media audiovisivi, Marras nota come la fortunata serie televisiva distopica Black Mirror (dal 2011) creata da by Charlie Brooker abbia prestato scarso interesse alle tematiche di genere soprattutto a proposito della riproduzione e del controllo dei corpi. Eppure, mettendo in scena una sorta di presente estremizzato, non sarebbe difficile immaginare qualche puntata imperniata sui livelli di assoggettamento della donna a modalità e finalità riproduttive subite o, viceversa, a inedite possibilità di autodeterminazione.

In un momento segnato dalla perdita di punti di riferimento chiari, soprattutto da parte degli uomini costretti a fare i conti non solo con il ridimensionamento del proprio ruolo decisionale e di controllo sulle donne, ma anche con l’affievolirsi della loro funzione biologica in ambito riproduttivo, il «destino della riproduzione sociale sembra dipendere principalmente dalle donne e tale inversione di tendenza deve certamente essere intesa come motivo di turbamento per chi assiste alla perdita del proprio ruolo tradizionale e allo sgretolarsi delle certezze ad esso connesse».

La narrazione distopica, nel suo caratterizzarsi come una delle modalità d’accesso privilegiate alle paure più diffuse – dietro cui si celano frequentamene desideri inespressi, proibiti o irrealizzabili –, tende a sottrarsi al controllo dell’interpretazione razionale preferendo rimandare a un ambito emozionale scosso dai timori contemporanei, dall’analisi delle narrazioni distopiche femministe secondo Marras emerge come in esse trovino spazio anche le preoccupazioni maschili.

Non è un mistero il fatto la cultura prevalga sempre sulla natura, per quanto gli argomenti biologici-naturalisti siano stati – e siano in alcuni casi – utilizzati come pretesti per rendere inattaccabili le imposizioni a cui le donne sono state sempre silenziosamente costrette. La società descritta ne Le figlie di Egalia, ad esempio, fa perno su una possibile lettura naturalistica in opposizione a quella esistente e che riversa, dunque, sugli uomini alcuni oneri tradizionalmente ascritti alle donne, come la cura dei figli e lo svolgimento delle faccende domestiche, in ragione del fatto che gli uomini non hanno il privilegio di partorire e per questo rivestono un ruolo subordinato, sicuramente meno importante, nel processo riproduttivo. Sebbene l’argomento naturalistico venga spesso difeso proprio in forza della sua manifesta “oggettività”, appare chiaro che tutto dipende dalla narrazione che intorno ad esso si sceglie, arbitrariamente, di costruire. La natura impone che siano le donne a portare avanti le gravidanze, e ciò appare incontrovertibile, ma quali obblighi e benefici si legano a questo fatto è una questione prettamente culturale come ben dimostra il romanzo di Brantenberg. Inoltre, contrariamente alla retorica visione della maternità come massima realizzazione femminile, è bene evidenziare che tale esperienza si rivela non sempre appagante e felice per le donne.

La pressione sociale, spacciata per necessità biologica, a cui le donne sono sottoposte non sempre consente loro di autodeterminarsi; non a caso la distopia femminista offre una rappresentazione degli obblighi sociali, e non naturali, a cui sono sottoposte le donne anche in termini di maternità.

Donne senza identità propria e i cui corpi sono intesi come luoghi pubblici, funzionali alle esigenze sociali, senza alcuna possibilità di autodeterminarsi in ragione dei propri desideri. E infine, donne private del diritto di esprimersi con parole adeguate o sufficienti. Non è un caso, infatti, che il tema della procreazione e del controllo dei corpi intersechi quello, apparentemente lontano, del linguaggio. Raccontando di donne private della possibilità di parlare liberamente, la distopia femminista rivendica la necessità di disegnare con parole proprie un mondo che non sembra essere in linea con le narrazioni dominanti. […] Accanto al tema dello sfruttamento riproduttivo, la questione del silenzio femminile sembra infatti caratterizzarsi come una delle più urgenti. Metaforicamente e non a seconda dei casi, nelle narrazioni distopiche alle donne è impedito l’uso della parola come mezzo di costruzione di sé.

Marras segnala anche come nel genere distopico femminista non manchino narrazioni in cui sono le donne a esercitare un ruolo dominante ai danni degli uomini, come nel caso di Ragazze elettriche, anche se il messaggio veicolato dal romanzo a suo avviso si situa comunque nella cornice precedentemente tracciata. «In caso contrario, si arriverebbe al paradosso di catalogare l’opera come utopia, ma una posizione simile sarebbe evidentemente assurda. Lungi dal desiderare un mondo caratterizzato dalla violenza, Alderman sembra voler comunicare quanto difficile sia la vita degli oppressi, molti dei quali nelle nostre società sono donne».

In conclusione del volume Marras si concentra sul romanzo Female Man (1975) di Joanna Russ che, per quanto più prossimo alla fantascienza che non al genere distopico, permette di affrontare diverse questioni emerse nello studio della distopia femminista utili a palesare la complessità delle questioni di genere. Il testo di Russ scritto nel corso degli anni Sessanta del secolo scorso, nel clima del femminismo della Seconda ondata, propone una forma di fantascienza di genere che sin dal titolo palesa sin dal linguaggio la messa in discussione dei pregiudizi e delle certezze del mondo contemporaneo.

Narrando le esperienze di quattro diverse protagoniste femminili che vivono altrettanti universi paralleli, Russ costruisce un racconto collettivo utile a tratteggiare la complessità femminile rapportata alle contraddizioni vissute.

Il romanzo propone una stratificazione dei possibili livelli di emancipazione a cui le culture tendono, al fine di porre in luce limiti e contraddizioni con le quali ancora oggi ci confrontiamo, grazie alla distopia e non solo. Non c’è nessuna soluzione univoca, il finale è aperto, come è corretto che sia, da un punto di vista teorico – sebbene inneggi alla futura libertà delle donne – e nel corso di tutto il romanzo quello che veramente si coglie è un invito alla riflessione cercando di non dimenticare nessuna sfumatura e considerando i problemi nella loro più piena complessità.