di Fabio Massimo Franceschelli

Ignazio Licata, Arcipelago, prefaz. di Antonio Moresco, pp. 256, € 17, Nutrimenti, Roma 2023.

[Normalmente non proponiamo un sommario tematico in incipit dei saggi offerti su Carmilla, ma in questo caso sembra utile mantenere quello strutturato dall’autore. F.P.]

  • Uno spazio topologico di agglomerati di materia e informazione – Le capacità cognitive del capitalismo – L’alta virtualizzazione del mercato globale – Produrre non più merci ma stili di vita e categorie di senso – Un nuovo pensiero sul lavoro che ridefinisca la dimensione antropologica – Il plusvalore virtuale – La realtà e la rete: interdipendenza e filiazione – Lo storytelling della rete – Le promesse mancate della rete – La tecnologia e il nuovo tipo di uomo – La connessione organica tra scienza, tecnologia, economia – Il carattere reazionario dell’algoritmo – La grande truffa dell’innovazione – Le crepe del sistema – L’arcipelago delle isole danzanti. ●

 

È un nuovo immaginario che ci serve per vivere in un mondo che non sarà più come prima; prima dei modelli viene la prefigurazione, e poi la volontà di muoversi diversamente sui piani dell’arcipelago.

 

In un periodo storico dove l’invecchiare crea uno scandalo da occultare e diffusi sensi d’inadeguatezza (non esiste ancora una generazione che sia invecchiata stando nella rete, scrive in suo breve e recente saggio Massimo Mantellini) – un’era che involontariamente produce revival dei miti del futurismo: la velocità, l’azione, il futuro, la tecnologia, la giovinezza -, dismettere vecchi modi di pensare, formulare un nuovo immaginario sulle cose del mondo, dedurre secondo nuove categorie, nuovi sensi e denotazioni, costruire le basi di una nuova antropologia, ridefinire il tempo, la storia, il lavoro, il soggetto, “l’esser cosa della cosa”, svecchiare il pensiero insomma, è la “madre” di tutte le missioni impossibili: il mondo va più veloce delle categorie che il senso comune, ma a volte anche quello meno comune e più sofisticato, utilizza per capirlo e descriverlo.

D’altronde, come afferma lo stesso Licata, solo nella fisica classica permane la distinzione tra soggetto osservante e oggetto osservato. Nella vita che esperiamo ogni giorno appare sempre più evidente l’appartenenza e continuità concatenata “della stessa sostanza” (homoousion) di chi osserva il mondo col mondo stesso. Il mondo è pervasivo, direi appiccicoso: se provi a distanziartene per osservarlo da lontano ti rendi conto che te lo sei portato appresso. Consegue che cambiare il pensiero sul mondo, l’idea che abbiamo del mondo, necessita di un identico contemporaneo cambiamento del pensiero su noi stessi. E qui son dolori.

Ci prova Ignazio Licata, fisico teorico, epistemologo, studioso di sistemi complessi, cultore di arti, musica, letterature, intellettuale dai tratti rinascimentali, ci prova lui, dicevo, a dissodare un terreno che si è progressivamente indurito e che oggi sembra mancare clamorosamente di fertilità. Lo fa utilizzando una metafora d’impatto, l’arcipelago, che si fa carico di stilizzare visivamente l’oggetto e la sua narrazione. Quest’ultima è appunto il libro di Licata mentre su dove puntare il dito che indica l’oggetto ho dubbi e difficoltà: è il mondo? Le cose? La nostra era? Lo stato della riflessione intellettuale? Ma andiamo avanti.

Arcipelago, oggetto di geografia fisica e geomorfologia, un’immagine abbastanza chiara che porta con sé altrettanto chiari, e importanti, significati; li enuncio: “moltitudine – di isole – separate – ma abbastanza vicine – di analoga morfologia”. Il testo di Licata si legge come un viaggio, a volo d’uccello, tra le isole dell’arcipelago, con rapide discese in picchiata e qualche utile escursione a terra: politica, lavoro, marxismo, scienza, verità, opinione pubblica, dissenso, rete, virtualità, utopia, storia, antropologia, tecnologia, algoritmi, capitalismo, saperi, ecologia, innovazione. Queste alcune delle isole.

E la metafora funziona bene anche come rappresentazione del “mondo” (qualunque cosa questo sia), qualcosa che se visto da lontano appare come un territorio dotato di netti confini ma che basta ingrandire con due dita dallo schermo di un qualsiasi dispositivo touch per scoprirne la natura composita e frastagliata: un insieme di isole, e questa a ben pensare è una formulazione linguistica perfettamente contraddittoria.

Soprattutto, arcipelago si rivela essere il nostro atto ermeneutico ed epistemologico sulla “cosa”, atto che abbandona la chimera di una teoria del tutto per narrare la presenza interconnessa di microparadigmi in tensione tra loro.

In definitiva, direi, la metafora dell’arcipelago configura uno spazio topologico dove le relazioni di prossimità, continuità, influenza reciproca tra gli elementi costituenti, ovvero tra le isole materiali-concettuali, non risentono della rigidità e fissità spaziale. L’arcipelago è “molle”, è deformabile, eppure è solidale, interdipendente, sensibile come un organismo vivente, dotato di capacità cognitiva, in grado di evolversi.

Lascio a proposito la parola a Licata:

 

L’arcipelago è il luogo dove si collocano i nostri pensieri e le nostre vite, un gioco di reti tensionali fortemente intrecciato tra materia e informazione, fatica fisica e algoritmi, poteri, fratture, conoscenza, miseria. Tutto è determinato da un insieme di vincoli soggetti a piccole vibrazioni – i grandi paradigmi, come il principio capitalista -, e su una scala più piccola da un moto browniano incessante di microparadigmi che nonostante l’energia puntuale scatenata dai loro urti intaccano poco i pilastri del sistema.

 

*   *   *

 

Arcipelago, il libro, dichiara l’appartenenza al genere pamphlet, o almeno così lo definisce l’autore: “Quello che avete tra le mani è un pamphlet, non un saggio. A questa scelta di autodefinizione concorrono il numero ridotto di pagine e il taglio fortemente soggettivo“; e poi: “In un pamphlet non è importante chi scrive, ma cosa, e se le idee espresse sono in grado di alimentare un dibattito“. Mi sembra vero solo parzialmente: la mole non è quella del “libello”, inoltre non c’è traccia di satira né di invettiva politica; è presente, tuttavia, uno stile argomentativo, a momenti impetuoso, immediato, da cui traspare un significativo coinvolgimento emotivo e un intento persuasivo. Licata, come già detto, è scienziato e teorico della scienza e capisco che dal suo punto di vista la pacatezza “fredda” e rigorosa di un ragionamento, e l’ampio spazio da dedicare a premesse, tesi, deduzioni, dimostrazioni, conclusioni, sono elementi irrinunciabili di una saggistica di qualità, per cui denunciare l’appartenenza al genere pamphlet – meno rigido e vincolato – è un atto di cautela e onestà intellettuale da parte sua; ma al tempo stesso la ricchezza discorsiva e analitica del testo, unita all’importanza degli argomenti multidisciplinari trattati, e diciamo anche al coraggio che ci vuole a metter mano a terreni ancora sostanzialmente ignoti, innalzano il suo lavoro ad un rango superiore, un vertice della riflessione intellettuale italiana di questi nostri confusi anni.

Degni per stile, ritmo e partecipazione, del pamphlet che Licata denuncia di aver scritto, sono i capitoli iniziali dedicati a questioni che si è soliti classificare come politiche. Uno spettro si aggira tra quelle pagine, tra i pensieri di Licata e quelli di migliaia, o ben più, di pensatori, di teorici di strutture economiche e sociali: lo spettro del marxismo. Restare a sinistra superando il marxismo, seppellendo paradigmi e categorie marxiste che mostrano la corda di fronte a un capitalismo che si è trasformato, ha cambiato pelle, è diventato “ad alta virtualizzazione“, che “non produce merci ma stili di vita e categorie di senso“, un processo che mercifica le persone stesse, un nuovo capitalismo ancor più feroce e vorace, sbilanciato su “crescita, consumismo, inquinamento, appiattimento della politica e perdita dell’orizzonte“, entità di natura metafisica che agisce tramite il mercato globale e virtualizzato, mostruosità immateriale dotata di capacità cognitive (“l’attività cognitiva è qualcosa che attiene alla complessità interna di un sistema immerso in un mondo, e alla sua capacità di modificarsi rapidamente mantenendo alcune caratteristiche generali)”.

Coraggioso, ammirevole e necessario direi, il capitolo chiamato “Tornare al lavoro”. Licata intuisce la priorità programmatica di un pensiero sul lavoro:

 

Non si può che iniziare dal lavoro, dalla necessità di un pensiero sul lavoro e da come questa urgenza sia costantemente disattesa. Si mostra a tratti per poi scomparire tra l’economia e la politica un pensiero mutilato della dimensione antropologica, ossia di ciò che è il lavoro per noi…

 

Poi segue un’affermazione che potrebbe sconvolgere il mondo sindacale:

 

ridurre il lavoro all’analisi delle condizioni in cui esso effettivamente viene posto dai processi di contrattazione sociale ci impedisce di cogliere la questione originaria e fondamentale del suo senso, intimamente connessa al rapporto fondante tra uomo e realtà.

 

Un pensiero sul lavoro, finalmente, un pensiero che – soprattutto nella nostra Nazione dove al lavoro è dedicato il primo articolo della Costituzione – ne sappia affrontare il peso, l’ampiezza, il significato esistenziale e cognitivo.

Il lavoro, secondo Licata – come già secondo Marx -, “produce il mondo su ogni piano, e con esso i valori che l’accompagnano”. E poi “[con il lavoro] l’essere umano tesse piani di organizzazione del mondo e crea contesti di senso“. Fin qui si procede con Marx, ma oggigiorno il piano simbolico della merce sovrasta – sostituisce e rivitalizza – quello materiale; l’alienazione non coincide più con l’espropriazione dei mezzi di produzione, semmai con l’esser parte di un lavoro che non soddisfa adeguatamente la propria vocazione creativa, col far parte di un sistema produttivo che non ripaga spiritualmente prima ancora che materialmente. Sono gli effetti dell’alta virtualizzazione del sistema:

 

Esiste un’intera industria che usa il consumo culturale e l’espansione virtuale come mezzi per inventare un mondo egocentrato, vera e propria realtà virtuale fondata su monadi narcisiste.

 

E poi

 

Il plusvalore virtuale, dunque la moltiplicazione dei significati e la ricorsività frattale dei desideri, non ha nulla a che fare con le condizioni sensibili e tangibili della produzione, sta su un piano diverso, metafisico, o comunque è un post-materiale che rivendica ontologia…

 

Lo spostamento delle tensioni sul piano virtuale pone creatività e realizzazione narcisistica, indotte e definite dal sistema neoliberale, sullo stesso piano, o anche più in alto, della gratificazione economica. La strada per uscire dall’impasse, quindi, “richiede di tornare al lavoro nei campi del desiderio“, considerando che

 

il lavoro è vocazione cognitiva, esplorazione, sensibilità estetica, capacità di intrecciare relazioni, è il modo in cui lo spirito si estende nello spazio e nel tempo attraverso le asperità della materia, la nostra disposizione ad accogliere la necessità e la meraviglia.

 

*   *   *

 

I capitoli centrali del libro, a partire dall’interessante definizione di Apertura Logica (“capacità di un sistema complesso di modificarsi in relazione al flusso di informazioni che lo attraversa come risposta adattativa, funzionale a preservare e accrescere l’autonomia rispetto all’ambiente in cui è immerso“), trattano della rete e del suo fluido vitale, il virtuale. Sono i capitoli più densi, ci parlano dei modi sottili e subdoli con cui la rete tratta, livella, conforma, gli eventi e le opinioni; e della possibilità che la rete possa far nascere, o almeno favorire e diffondere, reali pratiche di dissenso o utopie. Se anche in episodici momenti l’autore sparge la benevolenza dell’ottimismo, la pars destruens ha la meglio: Licata si abbatte sulla mitologia della rete esprimendo un giudizio di fallimento senza appello. L’arcipelago delle terre e delle comunità, delle pratiche e dell’evento, del fare e del pensare, del senso e delle opinioni, evapora la sua virtualizzazione che sale fino al livello immateriale della rete, un riflesso della “cosa” che deforma l’immagine originale in direzione della spettacolarità, della capacità di polarizzare e dividere, di muovere sentimenti forti, un virtuale che soggiace a specifiche regole narrative, a retoriche e storytelling ben definiti, e che lascia spazio solo a quel particolare dissenso egocentrato che in realtà fortifica il sistema. La rete è realtà aumentata nel senso che essa stessa è un nuovo tipo di realtà, al momento più affascinante di quella materiale “vecchia”, di cui è emanazione “trattata” e, in una certa misura, produttrice di effetti “stupefacenti”; appare come un enorme bollitore che a dispetto dei miti della velocità e immediatezza cuoce e amalgama a fuoco lento informazione di bassa efficacia. Fluttuazioni contenute e noiosa dinamica circolatoria. Di certo non è il superamento dei media ma semplicemente un nuovo media che ha soppiantato i precedenti: insomma, la rete è il messaggio, e si tratta di un messaggio sotto morfina, antidolorifico e leggermente “sballante”. Tra gli effetti anestetizzanti c’è il senso di sparizione della Storia; sarà forse un caso se ricordiamo i decenni del secondo novecento ciascuno con una personalità ben definita, mentre questi primi lustri del nuovo secolo ci sembrano solo un informe mucchio di anni identici e ripetuti?

 

*   *   *

 

La tecnica è una proiezione delle facoltà umane. […] la produzione di un dispositivo che aumenta il nostro dominio sul mondo crea un nuovo tipo di uomo, impensabile senza quel dispositivo, ma soprattutto con intenti e obiettivi che si dipartono dalla capacità strumentale.

 

Un enunciato, questo, tutto sommato ampiamente digerito, almeno in determinati ambiti della riflessione contemporanea, ma che tra le righe nasconde il vero obiettivo di Licata, che viene affrontato nella parte del testo dedicata alla tecnologia: com’è, o come rischia di diventare, questo “nuovo tipo di uomo” che si crea a contatto con la raffinata tecnologia di questi anni? Una frase mi colpisce su tutte: “Dio, dopo essere stato orologiaio e architetto, diventa il sommo informatico“. Per chi, come me, ha sempre concepito Dio in termini di obiettivo evoluzionistico della specie umana, l’idea che si affacci dalle nuvole e al posto di fulmini lanci sequenze digitali rende bene quanto l’immaginario ermeneutico umano di questi anni si stia conformando al modello algoritmico. E si tratta di un modello ingenuamente riduzionista e pericolosamente reazionario:

 

è l’erede del riduzionismo […]; appartiene alla stessa dimensione concettuale dell’ottimizzazione e dell’efficienza; […] sembra porsi antiteticamente nei confronti della creatività e della libertà.

 

Il Dio informatico non è altro che l’edizione rinnovata del Dio orologiaio e del Dio architetto, figli teologici di una weltanschauung meccanicistica che è l’ancella del capitale e che se cento anni fa generava orribili catene di montaggio oggi fa nascere sinuose catene di comando abilmente camuffate da schermi touch ad altissima risoluzione.

Nell’ermeneutica e nella narrazione dell’arcipelago, l’economia assume la dimensione dell’isola maggiore nonché centrale, e capire il capitalismo contemporaneo, modellizzare la sua complessità, gli artifici dietro cui si maschera e agisce, appare la sfida principale di questo testo (“l’economia non è mai stata una ‘scienza triste’, ma il luogo teorico in cui si concentrano i bisogni e i desideri degli uomini“).

Licata mostra la totale scomparsa di un capitalismo locale, in una certa misura addirittura identitario, o comunque legato a logiche artigianali, a favore di un capitalismo globale che usa un linguaggio comune, comprensibile a tutto il mondo, quello della rete e del virtuale, della produzione multi e sovra nazionale che nei precedenti capitoli aveva definito post-materiale, un linguaggio che per sua natura è disincarnato ma che si fa merce concreta, creatrice di modelli, identità (alienanti), stili di vita, “un capitalismo immateriale che nutre i suoi derivati trasformandosi in una teoria, un modo di vedere il mondo“.

Capitalismo immateriale, eppure intriso di concreta tecnologia, e qui torna d’attualità Marx e la sua intuizione sull’interpenetrazione tra struttura economica e tecnologia:

 

[Marx] aveva previsto che la centralizzazione del capitale avrebbe favorito una crescente omologazione del mercato su basi tecnologiche e tutto questo alla fine si sarebbe imposto come valore sociale”.

 

E ancora:

 

l’intuizione di Marx sulla connessione organica tra scienza-tecnologia-economia si sta dimostrando valida a livelli impensabili.

 

Il superamento di questo capitalismo – argomento già affrontato nei primi capitoli – passa per Licata attraverso la sua emendabilità. Si tratta di una professione di fede riformista che appare saltuariamente e timidamente nel libro, ma in verità non mi è parsa, questa, un’isola dell’arcipelago sufficientemente battuta. Non che io abbia pregiudizi sulla possibilità di riformare il sistema capitalistico, ma mi sembra che sia la stessa impietosa lucidità con cui l’autore smaschera finte libertà e democrazie rappresentative svuotate di reale efficacia, o con cui descrive la diabolica capacità del sistema di rigenerarsi tramite le proprie crisi e imperfezioni, o con cui denuda l’attuale retorica taumaturgica dell’innovazione mostrandola per quello che è, funzionale a perpetuare il sistema (“l’innovatore ha il compito di mantenere in vita il mito del futuro rappezzando arti diversi in modo incongruo per riparare a danni precedenti, nascondendo in prospettiva il degrado e l’entropia crescenti dietro il luccichio della tecnologia, sempre di ultima generazione”), sia la sua stessa analisi, dicevo, a rendere poco convincenti le possibilità reali di una modifica dall’interno.

Interessante e degna di nota, tuttavia, la parte dedicata all’economista premio Nobel Joseph E. Stiglitz e al suo lavoro intorno al “Teorema di Greenwals”, che mette a nudo le imperfezioni e gli squilibri strutturali del mercato. La possibilità di riequilibrare le disparità è demandata alle varie istituzioni degli Stati nazionali ed è comunque un’opzione coltivata all’interno della tradizione liberale:

 

si tratta di livelli di intervento dentro lo stesso corpo del capitalismo ad alta virtualizzazione per far emergere nuove possibilità, non ultimo un nuovo senso dell’etica intesa come elemento interno dei fattori produttivi e di relazione che favorisce trasparenza, controllo, benessere collettivo.

 

Non meno interessante – ma che forse avrebbe meritato più spazio ed esempi -, la parte dedicata a “quelle moltitudini plurali in cui convivono, con molte contraddizioni, integrazione e diversità, e che costituiscono il bug del programma”, la potenziale crepa del sistema;

 

La sfida di questi movimenti consiste nel formare, sviluppare e diffondere la consapevolezza che, al di là del problema specifico intorno a cui si sono coagulati, esiste una sostanza globale sotto ogni conflitto locale, e che nessuno degli obiettivi prefissi può risolversi pienamente se non scrivendo una contromappa dell’arcipelago.

 

Ancora una volta, nel pensiero di Licata, emerge la stretta correlazione e interdipendenza organica tra ogni “isola” dell’arcipelago, e dunque la valenza globale di ogni istanza locale.

 

*   *   *

 

Cosa resta, in conclusione, di questa costruzione di ponti tra le isole dell’arcipelago? Un testo che procede per salti, che depista, ci confonde e a volte si confonde o, meglio, si inchina umile al culto del caos e della confusione in attesa del manifestarsi della ben nota stella danzante. Un lavoro che intesse un dialogo a distanza con Primo Levi, Federico Caffè, Bruno de Finetti, Antonio Graziadei, Daniele Del Giudice e ovviamente Karl Marx, e che in parte si misura con un antenato di 27 anni fa, il Pierre Lévy de L’intelligenza collettiva – Per un’antropologia del cyberspazio che tanto ci aveva affascinato e illuso in quegli anni di promesse che furono i ’90. Un libro dotato di una quantità incredibile di intuizioni, illuminazioni, suggerimenti, aperture impensate, progetti abbozzati o già in redazione, un’impietosa e disincantata lucidità nella lettura del contemporaneo unita a una fede incrollabile sulle possibilità di uno sviluppo non riconducibile al mero consumo o alla distruzione ambientale. La passionale ricerca di una noosfera poggiando i piedi sulla più concreta nuvola dell’infosfera. Uno strano libro, forse imperfetto, ma che sulle imperfezioni delle cose e dei sistemi vede i prodromi del rinnovamento. Un saggio, infine, e non me ne voglia l’autore se lo definisco tale, che raggiunge pienamente l’obiettivo che si era posto: mappare l’arcipelago in cui siamo immersi; il punto è che l’obiettivo era una burla e Licata – esperto di sistemi complessi – lo sapeva benissimo: mappare significa fissare, ma le isole di questo arcipelago – ri-parafrasando l’inflazionato detto nicciano – danzano velocemente, sono isole danzanti e a noi, per non perdere l’orientamento, non resta che danzare consapevolmente e creativamente con loro.

Lascio la parola a Ignazio Licata:

 

…il grande arco delle mutazioni avrà bisogno a tutti i livelli della tecnologia. Rilevare, monitorare, sequenziare, tracciare, segnalare, ottimizzare, calcolare, pianificare, modellare, simulare, correlare e finalmente scommettere su un pugno di possibilità in equilibrio instabile tra processi naturali e iniziative umane: questo scenario sarà sostenibile soltanto se saremo trasparenti alla tecnologia, usata non come estensione ipertrofica dell’ego, ma come protesi in grado di renderci più responsabili del mondo. Cellulari, internet ed e-mail sono parte integrante della sottile rete che ricopre il pianeta e ne costituisce il delicato sistema neurale in via di sviluppo. Sta a noi dare un senso e una direzione a nuove storie di connessione e interfacciamento, dando alla virtualizzazione una qualità informazionale che non si riduca al suo costo energetico.

 

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