di Sandro Moiso

Peter Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 263, 19 euro

Una giovanissima prostituta che sa e ricorda troppo, un sindaco laido e corrotto, un ex-mercenario della Blackwater (qui Blackwelder) spietato ed efficiente, un commerciante di carne umana e di giovanissime ragazze, un vecchio solitario dal passato oscuro e violento e l’ombra, ormai onnipresente in ogni narrazione della società americana, dei narcos sono alla base del southern noir di Peter Farris appena dato alle stampe da NN Editore.

Gli si aggiunga una natura rigogliosa e a tratti impenetrabile, una miseria diffusa che contrasta con il potere e la ricchezza di chi sta in cima alla catena alimentare sociale, un capitalismo finanziario che, negli ultimi decenni, ha trovato nell’affare delle droghe un valido strumento per contenere e rinviare gli effetti di ciò che l’analisi economica marxiana individua come “caduta tendenziale del saggio di profitto” e si avrà, a grandi linee, la dimensione narrativa dell’ultimo romanzo di un autore che, nato nel 1979, è già stato acclamato come nuovo talento del genere noir sia in patria che all’estero. Con il romanzo presentato in Italia e pubblicato in Francia nel 2022, infatti, ha vinto il Prix 813 ed è stato finalista al Grand Prix de Litérature Policière e la Prix SNCF du Polar. Oltre a questi riconoscimenti “The Devil Himself” (titolo originale) è stato proclamato miglior romanzo straniero al Beaune International Film festival.

Anche se, talvolta, tali premi e riconoscimenti sono “spinti” dai giochi e accordi tra case editrici, c’è da dire che l’opera “al nero” di Farris non delude mai in alcun momento le aspettative del lettore, trasmettendogli l’immagine di una città del Sud di cui “Sua Eccellenza il Sindaco” sa che:

era un luogo spezzato, e i guadagni illeciti non finivano mai. Il deficit di bilancio era enorme, il sistema fognario sull’orlo del collasso. La disoccupazione era alle stelle, la rete dei trasporti in rovina, la criminalità in aumento e la contea in guerra. In più c’erano gli attriti tra l’amministrazione statale quella della città, un miliardo e più di dollari di mancati finanziamenti per i fondi pensionistici. Accuse di concussione, per cui il suo capo dell’ufficio approvvigionamento aveva appena patteggiato. La polizia locale aveva sparato ad una donna di novant’anni durante un blitz antidroga nella casa sbagliata. Perfino il tempo faceva schifo.
Ma il suo compito era trasformare il caos in speranza. Mettere una faccia contenta su quella che sapeva essere l’insidioso inizio di un collasso totale.
Sirene. Fumo. Fame. Spari. Il mondo ridotto all’osso1.

Come sempre accade, però, in questi casi il lettore si rende rapidamente conto che tale condizione raffigura non soltanto l’immaginaria contea di Trickum in Georgia ma, come quella altrettanto immaginaria di Yoknapatawpha in cui William Faulkner ambientò la maggior parte dei suoi romanzi e racconti, un po’ tutta quell’America povera, bianca, corrotta fino in fondo all’anima nella quale è difficile salvarsi. Se non attraverso autentici bagni di sangue e in cui, alla fine, nessuno è veramente buono, a meno che non si accontenti di recitare soltanto la parte della vittima sacrificale.

La citazione biblica serve a giustificare la vendetta o la semplice furia; la legge copre il marciume e se ne fa complice; i contadini sono orgogliosi delle loro misere proprietà e di un lavoro che richiede investimenti maggiori dei rendimenti che se ne potranno trarre ma, allo stesso tempo, non vedono l’ora di liberarsene per un po’ di quattrini, mentre il progresso si rivela non essere altro che la marcia verso la catastrofe sociale, economica e morale.

Oltre all’ombra di un Faulkner in chiave minore, aleggiano sulle vicende narrate anche quelle del cinema di Clint Eastwood e Don Siegel, della scrittura di Daniel Woodrell e Cormac Mc Carthy e dell’etica di John Dutton, il protagonista della serie televisiva Yellowstone, interpretato da Kevin Costner: Se volete il progresso non votate per me (Stagione 4). Tutte rappresentate e riassunte nella figura di Leonard Moye, il vecchio, spietato e solitario “diavolo” che, solo, può contrapporsi al Male, al Vizio e all’Ingiustizia. Dopo aver sfatto la propria vita e quelle di coloro che gli stavano più vicini.

Ma, come sottolinea la traduttrice del romanzo, nel noir di Peter Farris sono il paesaggio e/o la natura a costituire «la figura più dettagliata, quella dalla personalità più forte e invadente. Nulla, in questo romanzo è determinante quanto la terra, che non solo è oggetto delle mire criminali dei villain ma è complice dei protagonisti in molti modi: nasconde, inghiotte, divora, magari sotto forma di un alligatore che arriva a far giustizia»2.

Un paesaggio crudele e assurdo in cui anche la tecnologia sembra avere poca cittadinanza poiché, come afferma ancora Valentina Daniele, «la modernità non svolge alcun ruolo in questa storia». Se non forse, e indirettamente, mettendo a confronto il vecchio modo di produzione artigianale e illegale di alcolici e whiskey delle distillerie clandestine nelle grotte naturali della regione del Piedmont con quello più moderno, ma comunque altrettanto sotterraneo e illegale, delle raffinerie di cocaina messe in piedi dall’industria delle droghe.


  1. P. Farris, Il diavolo in persona, Enne Enne Editore, Milano 2023, pp. 52-53  

  2. V. Daniele, Nota della traduttrice in P. Farris, op.cit., p. 261