di Franco Pezzini

Alexandre Dumas, Il signore dei lupi (Le meneur de loups), ed. orig. 1857, trad. dal francese di Camilla Scarpa, introd. di Max Baroni, nota finale di Léon Thoorens, pp. 392, € 16, Agenzia Alcatraz, Milano 2022.

La grande critica può continuare a considerare Dumas (padre) estraneo all’“alta” letteratura o addirittura alla letteratura in quanto tale, confinandolo nel paraletterario, ma credo che l’interessato se ne faccia ampiamente una ragione: e sicuramente ce ne facciamo una ragione noi, consegnando allo sgabuzzino dei giudizi inutili un certo tipo polveroso di lettori con la molletta sul naso e deliziandoci ai capolavori che invece, diavolo di un uomo, Dumas è riuscito a sfornare e restano letture di intatta freschezza. Oltre che narrativamente solide e magari profonde.

D’accordo, aveva i suoi ghost writer a preparargli una base con ricerche storiche mirate; e d’accordo, a volte giocava sul concetto di autoralità nei termini molto disinvolti in uso nel primo Ottocento – si pensi solo al suo L’assassinio di rue Saint-Roch, che copia la Rue Morgue di Poe adattandola spudoratamente, o invece ai romanzi su Robin Hood che ancor oggi vengono stampati a suo nome, mentre si tratta di un noiosissimo romanzone storico di  Pierce Egan il Giovane (serializzato nel 1838 e riunito in volume nel 1840, Robin Hood and Little John: or, The Merry Men of Sherwood Forest, tradotto in francese da Marie de Fernand con lo pseudonimo Victor Perceval, e costituente quasi in toto il contenuto dei due pseudodumasiani Le Prince des Voleurs, 1872 e Robin Hood le Proscrit, 1873). Insomma, le trappole non mancano: e ciononostante parliamo di un autore di due secoli fa – rendiamoci conto – che, quando sui testi lavora davvero, quando vi lascia il “tocco Dumas”, si fa leggere a tutt’oggi con piacere assoluto, complice, irriducibile a qualunque critica acida. Un piacere del racconto, del prendersi tempi per parentesi che non sono mai off topic ma ci richiamano al gusto dell’evocazione di un mondo, ci fanno parteggiare accanitamente per un personaggio o per l’altro, ci fanno uscire diversi da come siamo entrati a contatto col volume. Solo in queste pagine, meravigliose per il piacere con cui Dumas affabula sono la scena della pesca in stagno, della cena dal balivo Magloire (narrata con un senso del gusto – nell’accezione più propria – che fa ricordare come lo scrittore abbia varato anche un incredibile Grand dictionnaire de cuisine, apparso postumo nel 1873), della tentata seduzione di Madama Magloire, del clima della raffinata camera della contessa di Montgobert… E insomma, come suol dirsi, avercene oggi, di scrittori tanto capaci di spalancare mondi a ripetizione, di donarci storie che accedono – letteralmente – al mito (I tre moschettieri, Il conte di Montecristo…).

Di nuovo: d’accordo, non tutto Dumas presenta la stessa vitalità vorace delle opere precedenti il 1848-1850. Come scrive Léon Thoorens nella bella appendice biografica Dumas, cent’anni dopo in coda a questo volume:

 

Dumas rientrò a Parigi nel 1853 e non si sentì mai più a suo agio nel mondo nuovo che nasceva, così diverso da quello che aveva sognato. Perché Dumas è il tipico uomo del diciannovesimo secolo – del primo diciannovesimo secolo, quel secolo che scoppia in lacrime nel 1848 e va in frantumi nel 1851. Quel diciannovesimo secolo è naïf, magniloquente, talvolta verboso, ma anche generoso, pieno di linfa giovane e di fede nell’avvenire. Sarà la seconda parte del secolo a essere stupida, puritana e matematica. Gli anni tra il 1848 e il 1850 segnano una cesura, un taglio netto. Si sa che ci sono due Hugo, e che, se avessero potuto incontrarsi, non avrebbero avuto simpatia l’uno per l’altro. Ebbene, anche i Dumas [si intende Dumas padre] sono due, e il secondo ha nostalgia per il primo, ma si distacca da lui sempre di più, mano a mano che gli anni passano. Non è per pura noia che uno scrive le proprie memorie, e le completa indefessamente con divagazioni e ricordi (Causeries, Souvenirs) e romanzi a sfondo autobiografico (Ange Pitou, Il signore dei lupi). Non è mai un caso neppure che un romanziere, limpido nello sguardo e nel riso come lo era l’autore de I tre moschettieri, si converta alla letteratura fantastica. Il fantastico, come la poesia (esso ne è, d’altra parte, una forma), è sempre un canto di sconcerto, di una ferita.

 

Di una crisi identitaria, potremmo dire, o della trasfigurazione di una vita cui cerchiamo di riconoscere nuove dimensioni: e Le Meneur de loups, 1857, fa proprio parte di questa seconda fase. Certamente un gioiello, ancora vivo a tratti d’ironia scintillante, ma non privo di connotati malinconici: una di quelle opere minori che restano una festa per il lettore e in fondo per il critico, con un ottimo ritmo, storie gustose che non permettono al romanzo di languire, un continuo rilancio di trovate fantastiche e non… insomma, riproporlo oggi in un catalogo di belle sorprese come quello di orrore e fantastico francofono di Agenzia Alcatraz, resta meritorio.

Da un lato, un’uscita come questa aiuta a fare chiarezza su affermazioni totalmente infondate che talora vediamo circolare. Secondo le quali, per esempio, l’influenza di Hoffmann in Francia si rifletterebbe in una serie di imitazioni per lo più derivative, i capolavori scarseggerebbero, il naturalismo la farebbe da padrone… il tutto sulla base di giudizi maldigeriti (o forse mal interpretati) di Lovecraft nel suo pur interessante L’orrore sovrannaturale in letteratura che però riflette i suoi gusti, i suoi pregiudizi – ai francesi mancherebbe “l’innato misticismo dello spirito nordico”, motivazione che odora di vecchiume – e anche le sue mancate conoscenze. Peccato che da allora la critica sia andata avanti e, da parte di chi vi attinge senza distinguo e con parecchia naïveté, la devozione fideistica verso un autore pur grande come HPL non faccia parte dei suoi strumenti utili.

Al contrario, il fantastico di Dumas costituisce una rilettura estremamente originale di quello alla Hoffmann: si pensi solo a La donna dal collier di velluto (dove Hoffmann addirittura è l’attonito protagonista, 1849) o ad altri di quei Mille et Un Fantômes (sempre 1849) che Dumas regala ai lettori stanchi delle tristezze della realtà. Con questo Signore dei lupi attinge per esempio a un sottofondo cupissimo, quasi un senso di colpa latente e comunque un peso greve sull’immaginario francese in chiave folk horror: ormai lontani dai licantropi gentili della narrativa cortese o dagli altri eroici & furenti delle compagnie guerriere germaniche, quelli che emergono tra il XIV e il XVII secolo soprattutto tra Francia e Germania sono creature miserabili, vittime innocenti di accuse comunitarie, profili psicopatologici di marginali della storia e dell’immaginario, malati sessuali – in qualche caso presunti serial killer – o comunque devianti che i roghi inceneriscono a grandi numeri (tra i ventimila e i centomila casi, a seconda di stime certo imprecise ma impressionanti). Quest’eccesso colloso di ombra si collega poi a tutta una mitologia del lupo che resta sottotesto dai miti antichi alle fiabe, e che oggi non siamo più in grado di comprendere: il predatore per antonomasia, congiunto di re e fondatori, magari nemico degli stregoni che danneggiano i campi (il rinvio agli studi di Carlo Ginzburg è d’obbligo), è ammirato fino all’invidia e insieme oggetto di inarginabile sadismo in pratiche di caccia condotte con caratteri di crudeltà superiore a qualunque giustificazione razionale.

Collegato o meno alla licantropia, il lupo si acquista dunque fama di animale del diavolo: e a parte le predazioni ordinarie, condotte talora da singoli esemplari, talora da branchi in inverni di fame, un fenomeno diverso è quello consacrato alla pubblica notorietà con il celebre caso della Bestia del Gévaudan, 1764-1767 (circa 210 attacchi, con 113 vittime e 49 feriti), la cui esatta natura resta oggetto di discussione. Che si tratti di un lupo non è certo – potrebbe essere una bestia feroce d’importazione, fuggita da qualche circo, poi ulteriormente trasfigurata per isteria collettiva e meccanismi immaginali (in alcune caratteristiche di lupo-leone sembra richiamare certe Tarasque del tardo periodo di La Tène, in un’apparente e spiazzante sopravvivenza di elementi iconografici arcaicissimi su creature infere). Ma l’aspetto meno noto al grosso pubblico è che parecchie altre “bestie” lupesche infestino la Francia tra il Sei e il Novecento: da Evreux 1633-34 all’Auxerrois 1731-34 e di nuovo 1817, a Brive 1783, nel Vivarais 1809-16, nella Gargaille 1819, a Tendu-Mosnay 1878, persino nel Cézallier 1946-51… Vogliamo proprio liquidare questo sovraccarico di ombra, sorta di straniante doppio fondo della saga del Signore dei lupi, come un accidente di un immaginario non altrettanto mistico di quello nordico?

D’altra parte, senza spoilerare il godibilissimo intreccio, è un fatto che Dumas riesca a giocare il tema con estrema libertà e in modo molto libero: non pensiamo dunque di trovarci davanti la classica storiella cinematografica tipo Universal – a volte gustosamente arredata, ma fin troppo lineare – di uomini-lupi ammazzatutti. La narrazione qui è molto sottile perché ci racconta anche altro. Facciamo un passo indietro.

Nel 1851, appesantito da pesanti debiti e problemi politici (il golpe di Luigi Napoleone Bonaparte lo vede tra gli oppositori), con la prospettiva della galera davanti, Dumas ripara frettolosamente in Belgio e lì riprende a scrivere come un forsennato, iniziando anche questo romanzo: lo chiuderà nel 1856 per pubblicarlo l’anno dopo. Possiamo stupirci che egli, quale cornice, vi racconti vividamente, gustosamente, nostalgicamente qualcosa della propria infanzia? Soprattutto quando la vita va avanti a scossoni, non siamo un po’ tutti bisognosi di riprenderne i fili, di raccontarci chi siamo o siamo stati, per capire meglio cosa potremo ancora essere?

Ma già tra le pieghe di quel narrare, su come si sia trovato a fronteggiare il lupo archetipico che c’entra sempre un po’ coi nostri inferi, c’è anche altro materiale fantastico. In un esilarante dialogo (1805) con il padre dello scrittore nel preambolo-cornice, il vecchio custode Mocquet se ne esce nella dichiarazione d’essere stato incubato – cioè oggetto di oppressione onirica – dalla presunta strega ma’ Durand, da giovane amante di Thibault, il signore dei lupi. Dunque ecco incubi, streghe… il panorama notturno si allarga. Dodici anni dopo (1817), ecco un Mocquet invecchiato affrontare con Alexandre quindicenne un lupo che sfugge alle pallottole normali ed è toccato solo da quelle contrassegnate con la croce (ma non ferito o ucciso: occorrerebbero d’argento o d’oro – variante meno nota rispetto alla vulgata sui licantropi). Conclude dunque trattarsi del lupo di Thibault, cioè del diavolo…

Il protagonista Thibault di cui ora Mocquet racconta la storia viene collocato storicamente attorno al 1780, in una Francia Ancien Régime che in provincia cova ancora strascichi di medioevo. La zona in cui vive dipende dal barone Jean de Vez, grand louvetier (cioè ufficiale caccialupi) di Luigi Filippo d’Orléans IV, dunque grande cacciatore non solo per vocazione ma per incarico, che cerca invano di stanare e abbattere un certo lupo nero che fa un po’ pensare a una sua balena bianca. E di nuovo, come spesso nel fantastico, un elemento chiave è quello identitario: in grazia di “un’istruzione superiore a quella propria della sua condizione” il malinconico, neppure trentenne Thibault – zoccolaio, cioè fabbricatore di zoccoli – vive con sofferenza il suo status sociale tanto umile, vorrebbe fare un salto verso classi ben più elevate. Il linguaggio conservativo di fiabe e leggende mette in guardia contro desideri di cambio di classe e sottolinea il prezzo livido che l’invidioso dovrà pagare, ma l’impressione è che qui si tratti soprattutto di un modulo narrativo: “«Oh! Maledetto sia il giorno», gridò Thibault, «in cui ho desiderato qualcosa di diverso da ciò che il Buon Dio ha posto a portata di mano per un onesto artigiano!”. Qualcosa che certo condurrà il transfugo sociale a un ben diverso status identitario sotto l’egida del Grande Scimmiottatore, il diavolo: il tutto attraverso una serie di assunzioni di identità una più falsa dell’altra, ma anche via via più compenetrate in carne e sangue, fino a fargli smarrire la stessa natura umana. Eppure la solidarietà del narratore – e dello stesso lettore – verso Thibault non si esaurisce nel topos romantico di simpatia per i maledetti. In effetti, “non si sceglie un personaggio, sono i personaggi a scegliere noi; e che fosse buono o malvagio, io fui scelto da quel personaggio”. Un caso? Difficile non vedere, almeno in parte, il profilo di Dumas, l’uomo che si fa da solo (giunge a Parigi ventenne con il solo bagaglio di una bella scrittura), diventando, da incolto che era, un intellettuale e un autore tanto celebre, sia pure al prezzo che lo porta all’esilio…

Ovviamente il primo incontro tra zoccolaio e barone è destinato a finir male, e in realtà anche i rapporti con gli altri personaggi: l’angelicatissima e noiosina Georgine Agnelet, detta Agnelette; la birichina e sensibile mugnaia di Coyolles di cui si invaghisce con un occhio ai proventi della sua attività, e il cugino di lui invaghito della mugnaia; il balivo Magloire e sua moglie, ai quali Thibault si presenta come benestante; il giovane barone Raoul di Vauparfond, che permetterà al Nostro un altro e più viscerale scambio identitario; la stessa contessa di Montgobert, che di nuovo può richiamare il Dumas lettore di Poe (L’appuntamento, nel racconto 1834 dell’americano: qui, “Vi trovò un biglietto su cui erano scritte queste sole parole: Fedele all’appuntamento”)… ma il gioco è scoperto, il lettore è solo incuriosito su come falliranno i vari rapporti, dopo essere stato accompagnato in giro dall’esuberante cicerone Dumas. Che riesce a rendere fiabescamente divertente anche il dialogo col lupo nero che sarebbe il diavolo (o almeno un diavolo), ed evidenzia che gli apparenti vantaggi recati dal suo aiuto presentano tutti un retrogusto dannoso.

 

«Allora, dicevamo», riprese il lupo, come se nulla fosse accaduto, «che non posso garantirti che avrai tutto ciò che de­sidererai di buono».

«Dunque non posso aspettarmi nulla da voi?».

«Al contrario, perché io posso garantirti che tutto ciò che di cattivo desidererai per il prossimo, si avvererà».

«Beh, e a me che ne verrà in tasca?».

«Sciocco! Un moralista ha detto: “C’è sempre, nella sventu­ra del nostro amico più caro, almeno un granello di soddisfa­zione per noi”».

«L’ha detto un lupo, questo? Non sapevo che tra i lupi vi fossero dei moralisti».

«No, era un uomo».

«L’hanno impiccato?».

«No di certo, l’hanno nominato governatore di una pro­vincia del Poitou. È ben vero, però, che in quella provincia ci sono parecchi lupi. Ora, se nella sventura del nostro miglio­re amico c’è sempre qualcosa di soddisfacente, capirai bene quanto di soddisfacente ci possa essere nella sventura del tuo peggior nemico!».

«C’è del vero in questo», disse Thibault.

«Senza contare che c’è sempre modo di approfittare della sventura del prossimo, che sia amico o nemico».

«In fede mia, voi avete ragione, signor lupo», rispose Thibault dopo qualche attimo di riflessione. «E voi mi accordereste questo potere in cambio di cosa, esattamente? Andiamo, do ut des, non è così?».

«Sì. Ogni volta che esprimerai un desiderio che non ti arrecherà profitto, io voglio che mi sia ceduta la proprietà di una piccola parte della tua persona».

 

E più tardi, in quella che difficilmente può essere letta come un’edificante esortazione alla virtù:

 

«Oh, quanto a invidia appartieni all’angelo caduto, che è il mio padrone e anche il tuo; solo che, mancandoti l’intelligenza per desiderare, tra i mali, un male che potesse giovarti, forse sarebbe stato più vantaggioso per te rimanere onesto».

 

Per proseguire:

 

Da quando gli uomini hanno inventato il battesimo, non si sa più come prenderli, e c’è bisogno che, in cambio di qualche concessione da parte nostra, essi ci cedano una parte dei loro corpi su cui noi possiamo metter mano.

 

Una parte che in fondo si limita, scoprirà lo zoccolaio, a qualcosa in apparenza molto contenuto: “Un capello per il primo voto, due per il secondo, quattro per il terzo, e così via di seguito, sempre raddoppiando”. Con tanto di scambio d’anelli (un sogghigno che sfugge a Dumas, impoverito dalle richieste economiche dell’ex moglie Ida Ferrier, proprio a seguito dello scambio di anelli matrimoniale)…

Ad aggiungere nuovi danni ai guasti dettati dai desideri diabolici sono gli stessi sensi di colpa del goffo Thibault, che non è un cattivo diavolo. In compenso si ritrova – ed è una delle soluzioni più affascinanti del romanzo – a capo di un branco di lupi con cui condurrà una propria guerra privata agli uomini desiderosi di ucciderlo.

“Meglio piuttosto che io incominci subito a narrare la mia storia. / Dico la mia, sebbene forse dovrei dire la storia di Mocquet”: un rapporto di innovazione narrativa che non ha nulla a che vedere con le presunte imitazioni derivative accusate da una critica superficiale. Così come in La donna dal collier di velluto Dumas riportava – a suo dire – la voce di Nodier, rimodulando genialmente una leggenda metropolitana d’epoca: che però nelle sue trovate e mezzetinte, nella sua geniale rielaborazione, diventa assolutamente sua. A ricordarci che le storie consegnateci dobbiamo riprenderle noi in mano – sapendo che tanto quelle sciabordano tra gli uomini dall’inizio della storia. È come noi le riprendiamo in mano che fa la differenza: fino a metamorfizzarle in qualcosa di unico. “E a Thibault parve di vedere il lupo nero crescere, allun­garsi, piantarsi sulle due zampe di dietro e allontanarsi in forma d’uomo, mentre gli faceva un cenno di saluto con la mano”.